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R. Per quanto riguarda il teatro di Figura non c'erano festival in Piemonte e pochi erano quelli anche in Italia: Cervia, Gorizia, Cagliari e pochi altri. Era quindi un territorio abbastanza vergine e anche pieno di possibilità immaginative. Così ci lanciammo in questa avventura spalleggiati e aiutati ovviamente in primis dalla Regione Piemonte che credette subito in questo progetto e dal Castello di Rivoli Museo d'Arte Comtemporanea a cui negli anni si sono aggiunti il Ministero per i Beni Culturali, la Città di Torino, la Compagnia di San Paolo, la Fondazione CRT, la Città di Grugliasco. La scommessa era creare un festival di Teatro di Fìgura per adulti, come avveniva e avviene in Francia, Germania o Spagna per esempio, e se siamo ancora qui dopo 25 anni forse la scommessa è stata vinta.
R. Questa è la 25° edizione di Incanti, la scommessa era appunto dare valore al teatro di figura per adulti, cioè far crescere un genere in Italia tradizionalmente per bambini e ragazzi, portando spettacoli di respiro internazionale che raccontassero storie con la esse maiuscola. Possiamo dire che in questo quarto di secolo, anche grazie a festival come il nostro, il Teatro d Figura ha contaminato il teatro di prosa e musicale ed è entrato, pur sempre con una certa parsimonia, nelle stagioni di teatro di prosa, nei festival e nel teatro musicale anche in Italia.
D. Il pubblico. Chi è l'interlocutore “privilegiato” di Incanti? E cosa spinge ad affezionarsi al festival?
R. Negli anni il pubblico è cambiato, certamente all'inizio era un pubblico di curiosi, di appassionati di teatro in genere, che hanno cominciato a frequentare il festival. Ora è un pubblico molto variegato che vede ormai in modo costante operatori, organizzatori, artisti e soprattutto tanti giovani, anche grazie a una politica sui biglietti a prezzi accessibili. Il pubblico di Incanti rimane comunque un pubblico di appassionati di teatro che, citando le parole del critico Tommaso Chimenti, "è capace di volare con il Teatro di Figura, riscoprire il lato 'fanciullo' anche nell'accostarsi a grandi tematiche, importanti e spesso anche dure".
R. La marionetta, il burattino, l'oggetto, l'ombra, possono affascinare e mettere in crisi, diventare alterego, il nostro doppio che ci rappresenta, ecco il potere immaginifico del Teatro di Figura. L'ombra è il nostro lato oscuro, la marionetta il doppio, il teatro di oggetti lo straniamento che scende nel profondo con leggerezza e ironia. Il teatro di figura parla per metafore e simboli, allude e non dice in modo univoco e qui resiede la sua forza, nella possibilità di una pluralità di livelli di lettura.
D. #Pensierobimbo. Perchè diviene fondamentale oggi, attraverso il teatro di figura e i suoi linguaggi, coltivare nell'adulto, la meraviglia, il sogno, l'immaginazione e l'Incanto?
R. Il Teatro di Figura offre al pubblico adulto impulsi a sognare, volare, giocare anche affrontando storie importanti e drammatiche. Citando ancora le conclusioni durante il convegno "Sentieri di innovazione" – il Teatro di Figura sta in bilico fra la vita e la morte e in quel momento estremo ci racconta del mondo, ora dando anima a ciò che vita non ha (una marionetta, un oggetto, un'ombra) ora ponendo l'uomo, cioè l'animatore, su quel crocevia in cui gareggia con il trascendente.
R. Il tema del viaggio si declina in due percorsi: quello narrativo, quindi dal viaggio mitico per eccellenza di Odisseo al viaggio dei migranti odierni in cerca di vite migliori; e quello teatrale, un viaggio nella diversità del Teatro di Figura che sperimenta, ricerca e si reinventa. La situazione italiana è particolare perchè tradizionalmente abbiamo avuto due filoni paralleli, il teatro di figura per bambini e il teatro popolare, per intenderci le Guarratelle o la tradizione emiliana (Fagiolino, ecc.). All'estero, come raccontavano Frederic Maurin o Stephanie Rinke all'incontro Sentieri di innovazione la tradizione non esiste più: rimangono le tecniche tradizionali applicate alla ricerca. Questa situazione diversa rispetto all'Italia ha fatto sì che questa ricerca sia stata forse più "libera" o quanto meno certamente più pronta a contaminarsi con altri linguaggi e tematiche.
gb
ApprofondiMENTI
CONTROLUCE TEATRO
R. Intanto, grazie per la definizione del nostro teatro come "rito collettivo". E' proprio da qui che vorrei partire. La prima cosa che ha perso la nostra generazione è il senso della comunità, dello stare insieme. In generale si è perso il rapporto con l'altro e alcuni principi che riguardano soprattutto la solidarietà. Non ne voglio fare una critica, cerco di riportare ciò che osservo. L'esigenza del mio teatro nasce dall'esperienza. Da bambino mi ricordo che ci riunivamo tutti sotto il focolare ad ascoltare le storie che raccontava mia nonna, e ciascuno portava un suo racconto, un aneddoto, qualcosa.
Questo stare insieme a televisione spenta oggi non esiste. Ma lo cerco costantemente nelle nostre opere, e nei lavori che scegliamo. Oggi viviamo al limitare di una solitudine corporea e visiva che sta ridefinendo la socialità umana. Mancando un'idea comune di stare insieme, un progetto collettivo, attorno a noi imperversa la violenza verbale, l'ignoranza, e l'orgoglio dell'ignoranza, e il senso frustrante dell'eterno. Credo, e perdonami la generalizzazione, che la nostra generazione di 30/40enni viva un difficile distacco dall'adolescenza, e dunque sia inadeguata all'insegnamento e all'educazione.
Per questo le nuovissime generazioni non faranno altro che alimentare l'annientamento della comunità reale, a favore di una comunità virtuale o violenta dove tutto è più semplice, ma egocentrico. Il teatro dunque può tornare a farsi comunità, ricercando linguaggi e ricreando forti legami fra spettatori e attori, e fra gli spettatori stessi.
R. Conobbi Visniec quando iniziai a fare teatro, circa 10 anni fa. Il primo testo che vidi in scena fu proprio il Teatro Decomposto, o L'Uomo pattumiera. Quindi tutto parte da un amore per la sua opera e per il teatro dell'est europa in genere. Ciò che mi colpì in particolare furono due cose. La prima, è il suo sguardo: la visione che un cittadino rumeno della dittatura comunista di Ceausescu aveva dell'Occidente. La sua riflessione, una volta a Parigi, fu: la vostra libertà, il vostro privilegio, produce solitudine. Un paradosso, ma lucidissimo. La seconda cosa, è il linguaggio scelto per raccontare questa visione: la decomposizione del teatro, e quella piccola indicazione iniziale: prova a ricomporre ciò che si è rotto. Visniec ossia cercava di stimolare il recupero della comunità attraverso i cocci di uno specchio. In generale poi, Visniec è un autore di grande intelligenza e ironia. La nostra intenzione è senz'altro quella di esplorare ancora l'autore il prossimo anno con un testo nuovo per l'Italia che si ricollega al tema che abbiamo esplorato in Blatte.
R. L'idea di prendere spunto dal fumetto di Alberto, Blatta, fu di uno dei nostri attori, Stefano Accomo, che in quel momento stava lavorando con una casa di produzione cinematografica - la Grey Ladder che stava ipotizzando una trasposizione cinematografica di questo fumetto. Quando lo lessi, vidi subito fra quelle pagine la possibilità di lavorare su un tema che mi appassionava dalla fine degli anni '90. All'epoca amavo i fumetti giapponesi, e la cultura nipponica, e così incontrai per la prima volta la parola Hikikomori. Il fenomeno mi colpì tantissimo, e mi ripromisi prima o poi di metterlo in scena. Non sapevo perché né come - all'epoca ero un adolescente che voleva fare l'ingegnere! Quando ho letto Blatta, ho capito che era giunto il momento. Quindi parlando con Alberto e con Michelangelo (Zeno, l'autore del testo), abbiamo deciso di raccontare una storia parallela al fumetto, ambientata nel passato rispetto alla graphic novel, e in un presente distopico. Poi, l'idea di incrociarlo con l'Amleto scespiriano e la sua riscrittura, l'Hamletmachine di Heiner Muller.
R. Credo che oggi la crossmedialità sia parte del linguaggio. Non possiamo fare finta che il teatro resti legato alla tradizione. O meglio, il teatro di tradizione è necessario. Il teatro d'innovazione, o comunque il teatro contemporaneo, deve fare i conti con la realtà. Oggi viviamo in un universo di stimoli, di segnali, di dottrine, di valori mis-creduti, di nuove identità possibili. Allora il teatro deve domandarsi come interagire con il presente. Non è fondamentale a mio avviso che il teatro sia incubatore di crossmedialità. Anzi. A esempio, l'Uomo Pattumiera prevede proprio il contrario, ovvero annullare la tecnologia e far comunicare gli spettatori attraverso lo sguardo e l'immaginazione. Però è fondamentale che la crossmedialità sia parte del linguaggio. Ovvero, che l'uso dello strumento tecnologico o dei nuovi media, sia parte fondamentale del linguaggio: banalmente, la presenza della tecnologia deve raccontare qualcosa di per sé, e non essere un mero strumento estetico. In linea di principio la crossmedialità deve essere figlia di un'idea.
R. Domanda complessa, difficile rispondere in poche righe. Carla Ricci, una studiosa del fenomeno che vive a Tokio, descrive gli Hikikomori come "corpi sovversivi", "inconsapevoli". Ossia, attuatori di una rivoluzione di cui non si rendono conto. La pressione sociale che vivono le nuove generazioni, la perdita totale di punti di riferimento, unita a una libertà pressoché assoluta e allo stesso tempo alle infinite possibilità del mondo virtuale, creano di fatto un grande senso di inadeguatezza.
Ascoltando un'intervista a un Hikikomori, alla domanda "che cosa provi quando sei per strada?", "Paura", "Ti fanno paura gli altri? Le persone che incroci?", "No. Ho paura di non riuscire a diventare come loro". Ecco: credo che le nuove generazioni vivano un processo di crescita in cui non si sentono parte di nulla, non fanno parte di alcun progetto. Quindi il rischio di annichilimento culturale e sociale diventa sempre più forte.
Ma c'è da dire che la storia dell'uomo parla di continue rinascite. Siamo di fronte a un processo socio-culturale di grandi proporzioni. Nel presente sono intuibili centinaia di possibili futuri distopici, tanto che - a mio avviso - si può parlare di presente distopico.
R. E' verissimo, alla Blatta abbiamo dedicato un moltitudine di segni, tant'è che è invisibile allo spettatore, e se ne sente solo l'audio. Una voce distorta, come se arrivasse da un cavo mangiucchiato, con frequenze disturbate. La voce del nostro insetto l'abbiamo resa così per significare il mondo tecnologico, quel sottile mondo che permea nelle nostre vite e che ci condiziona, a tal punto da pensare - talvolta - che le persone che vediamo in video, i personaggi di un videogioco, siano reali interlocutori. Ma la Blatta ha altri significati, e soprattutto, per me, rappresenta l'altrove. Quell'altrove a cui si tende sempre, ma per il quale si ha paura di partire, proprio perché intangibile, non ci sono strumenti, e si resta soli. La Blatta è la solitudine, la noia, il buio nel quale la voglia di vivere soffoca.
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gb
Approfondimenti
BLATTE
R. Ho conosciuto la danza grazie a mia sorella che è stata la mia accompagnatrice alla prima lezione di danza. Inoltre, è stata lei a segnare la mia formazione futura perché mi ha “affidato” a Francesco Piro, suo insegnate di danza e direttore insieme ad Irma Opipari della Maison d’Art di Catanzaro. Francesco, con grandi sforzi, ha sempre mirato all’alta formazione contaminando la sua scuola con la presenza costante di grandi insegnanti della danza italiana che ho ritrovato poi nei miei studi fuori dalla Calabria.
D. Dal Balletto di Toscana alla Compagnia EgriBianco. Due nomi storici della danza italiana. Come è avvenuto il passaggio?
R. Da Bozzolini ad Egri attraverso la Francia! Circa otto anni fa decisi di iniziare il percorso di audizioni per passare dal Junior BdT ad una compagnia più stabile. Dopo vari tentativi arrivai in Fondazione Egri, l’audizione per le “Destin des images”, progetto del DAS di Elena Rolla con il coreografo lionese Harry Albert. Seppur il mio entusiasmo non era elevato per quella candidatura venni selezionato e a conclusione del progetto Raphael Bianco, che mi aveva visto in scena con il Balletto di Toscana, mi offrí un contratto per EgriBiancoDanza. Accettando la proposta di Bianco ho iniziato a tracciare il mio futuro di danzatore professionista e non solo.
R. Bianco ha sempre usato un atteggiamento neutro nell’insegnamento della coreografia, limitandosi a regale le sue conoscenze acquisite dagli studi e dall’esperienza sul campo. Il motivo di questa decisione è quello di formare coreografi, che possano da subito avere un proprio punto di vista privo di influenze con lo scopo di trovare subito una certa originalità. Essendo un danzatore di Bianco da 8 anni l’influenza è quasi obbligata, a prescindere dalle “precauzioni”.
L’ aspetto più interessante del Bianco coreografo è la capacità di rimanere saldo alla propria idea mantenendo una grande coerenza, questo è un aspetto al quale aspiro. Non trovo niente da cui allontanarmi ma qualcosa che ci differenzia molto, oltre ai 20 anni in più di esperienza a favore di Bianco, è che io preferisco essere più criptico seppur narrativo, mi piace la drammaturgia non ordinata.
D. A naca d'oja, 2016 e Haters over the rainbow, 2018 sono due coreografie short format ma ben strutturate. Stratificate nel loro guardare con ironia, e crudezza, all'uomo d'oggi. Da uno sguardo particolare, quello del folklore del sud nel 2016, a quello più generale di “coloro che odiano” nel 2018 le coreografie si accomunano per un desiderio narrativo, che fa del gesto quotidiano un elemento coreutico. Che tipo di ricerca in questo caso? Il messaggio sembra comune, può darsi?
R. L’ uomo è sempre più succube del potere, la voglia di supremazia alimenta la cattiveria di esseri sempre più crudeli. Il sentimento che ha smosso le mie idee per queste due coreografie è, infondo, il medesimo ma il messaggio, oltre ad altre differenze, non è comune. ‘A naca d’oja sfrutta la crudeltà del cammino di Gesù verso il Golgota in contrasto con la gioia e il calore del meridione, per raccontare di quel luogo che è sempre imbrigliato e ma mai enfatizzato: il mio amato SUD.
HATERS OVER THE RAINBOW, ispirandosi alla crudeltà dell’hater, vuole regalare un momento di spensieratezza al pubblico avendolo prima infastidito, ha lo scopo di far immaginare il web come un mezzo per migliorare la comunicazione e non per peggiorarla. Per la creazione di HATERS ho messo ogni danzatore davanti una persona o condizione immaginaria che scatenasse nel proprio animo e quindi nel proprio corpo odio, da qui sono nati i movimenti che ho poi deciso di declinare in due modi. Una schematica ed ad addizione come la struttura dei social network rappresentante dell’odio nel web e l’altra più morbida e rimbalzante per trasportare il pubblico in un’ atmosfera positiva un po’ “over the rainbow”.
R. INorOUT nasce per una commissione proprio sulla danza astratta e quindi priva di narrazione. Non è stata smossa, quindi, da mie pulsioni interiori ma unicamente costruita con il movimento. Qualsiasi tipo di coreografia astratta necessita di una prestazione molto convincente da parte dei danzatori ma soprattutto di una grande attenzione da parte del coreografo nella sua costruzione. È un lavoro puramente tecnico in cui bisogna cercare di maneggiare spazio, tempo ed energia con una certa accuratezza. Proprio per questo motivo, quando decisi di sottoporre il lavoro a Bianco prima di andare in scena, lui mi fece notare quanto fosse narrativa e poco astratta e per tale motivo ricostruì da zero tutta la coreografia. Ricostruirla sarà servito, visto che sarà replicata a Palcoscenicodanza.
D. Cosa non deve mancare ad un danzatore per essere scelto per una tua coreografia?
R. Grinta ed energia, ma soprattutto interesse verso il lavoro che gli viene proposto. Se l’artista ha interesse è sicuramente stimolato e di conseguenza può stimolare colui che deve/vuole creare.
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APPROFONDIMENTI
SHOWCASE
R. Il mio percorso come danzatore inizia a 15 anni. Un'età già avanzata per chi ambisce alla carriera del ballerino professionista. Una piccola scuola di paese quella in cui ho mosso i miei primi passi, ma che vantava validi maestri in diverse discipline. Un luogo in cui la danza si praticava in modo professionale e dove la tecnica veniva messa in primo piano, sia nel classico che nel modern-jazz. Una scuola che si prendeva cura dei propri allievi, non solo dal lato artistico ma anche da quello psicologico, che li accompagnava attraverso un percorso di preparazione volto ad affrontare il mondo delle audizioni.
Cercando di trasmettere il messaggio che la danza è un'arte viaggiatrice, infatti, furono proprio i miei maestri a spingermi verso una formazione ancor più professionale lontana dal mio paese d'origine, consigliandomi la scuola del Balletto di Toscana. Ringrazio il mio primo maestro che, dopo 4 anni di formazione, mi accompagnò personalmente per sostenere l'audizione a Firenze. Entrai così a far parte di una delle migliori scuole di alta formazione nel panorama della danza italiana, nella quale si alternavano lezioni di vario stile.
Questa grande varietà permetteva di sperimentare vari generi di danza e di capire quale fosse lo stile più affine alle proprie capacità e al proprio talento. Si contavano centinaia di allievi e si formavano classi che, se nel piccolo centro di formazione del Sud arrivavano ad un numero di circa 15 danzatori, qui contavano numeri nettamente maggiori. Ogni ragazzo ambiva a realizzare il proprio sogno.
Tante ore di allenamento, tanta competizione e tanto giudizio. L'insegnamento era decisamente ad un livello più avanzato e, in una classe dove il livello degli allievi era differente e non omogeneo, spettava al danzatore con delle carenze tecniche mettersi in pari con il resto della classe. Scuola dal forte impatto psicologico dove, molti rinunciano alle proprie ambizioni perché non si sentono all'altezza degli standard richiesti, altri perché realizzano che non è la vita che si aspettavano di fare, mentre coloro che riescono a sostenere la pressione imposta dal duro lavoro di formazione, riescono a diventare dei danzatori qualificati in grado di affrontare il mondo del lavoro.
Una scuola dove ti insegnano a lottare quotidianamente per ottenere sempre il massimo e che forgia nel profondo il carattere. Quindi, se da un lato abbiamo un Sud che si prende cura del singolo allievo, dall'altro abbiamo un Nord quotatissimo che mostra il lato più competitivo, più duro e, per certi versi, più vero della danza, lasciando spesso l'allievo in balia del proprio destino.
R. Un occasione persa quella con Zappalà. Purtroppo, causa motivi di lavoro che mi legavano a Firenze, ho dovuto rinunciare ad un corso di formazione che credo sia molto qualificante per un danzatore che oggigiorno affronta il panorama della danza contemporanea europea.
D. 2011 | Entri a far parte della Compagnia EgriBianco. Quanto della tua personale esperienza trova spazio all'interno del gruppo?
R. L'anno 2011 è stato un anno importante per me poiché vedevo realizzarsi un sogno e vedevo ripagati tutti i sacrifici fatti fino a quel momento. E' stato l'anno in cui sono entrato a far parte della compagnia Egribiancodanza, tappa importante per la mia carriera da danzatore. Quello che fin da subito ho cercato di offrire alla compagnia era esattamente quello che io ero e che rappresentavo, non solo come danzatore ma anche come artista attraverso le mie esperienze.
Ero l'ultimo arrivato in un gruppo che si stava consolidando, che aveva trovato un proprio spazio, ma che allo stesso tempo lasciava aperte le porte a nuovi elementi che potessero condividere non solo le proprie competenze tecniche come nelle fasi di creazione di un nuovo lavoro, ma anche il lato più umano del danzatore in quanto persona, con un vissuto da raccontare e con qualcosa da trasmettere.
Tutto questo grazie all'impronta artistica della compagnia delineata dalla figura del Direttore e Coreografo Raphael Bianco, una persona capace di cogliere da ogni danzatore, nella sua diversità, gli aspetti tecnici e umani che è in grado di offrire, e farne componenti di lavori sempre differenti. Questo ha permesso che tutto di me, negli anni, abbia trovato spazio all'interno della compagnia.
R. Spesso i ballerini vengono visti come macchine e spesso vengono educati proprio a questo: alla pura esecuzione. Immaginiamo invece la magia di un danzatore che riesce a prendere coscienza di sé e gestire con consapevolezza le proprie emozioni, incanalandole nel corpo e, attraverso il movimento, condividerle con un pubblico pronto ad emozionarsi guardandolo.
L’uomo, di per sé, non è un essere asettico, non è una macchina. Di conseguenza anche nell’immobilità o in una semplice posizione neutra l’uomo esprime un emozione, suscita un pensiero e, in qualità di danzatore, ho sempre cercato di fare della trasmissione di un messaggio il mio credo. Forse proprio questo mi ha spinto a cimentarmi nell’arte della coreografia.
Indubbiamente un ballerino che si applica non solo nella danza ma anche nella coreografia, diventerà uno strumento ancora più malleabile e ricettivo nelle mani di un coreografo. Un danzatore che riesce a cogliere il senso profondo del gesto immedesimandosi nei diversi ruoli, che si interroga su ogni gesto provando a dargli un significato, che analizza con occhio critico il lavoro cui è sottoposto e trova il modo di renderlo proprio pur mantenendo un rigore tecnico e drammaturgico, credo possa vivere e far vivere un'esperienza della danza più completa e più matura attraverso una serie d'insegnamenti e regole acquisite durante un percorso formativo che cerca di approfondire la conoscenza della gestualità e della trasmissione di un messaggio tramite diversi punti di vista.
Queste credo siano alcune delle ricchezze che un danzatore acquisisce nel seguire un buon percorso di formazione coreografica.
D. Io Sono. Ricordi? Dis-ordine. Le tue opere nascondo un'esigenza comunicativa forte e personale. Si piange a volte danzando le proprie emozioni?
R. La danza è un mezzo di comunicazione molto potente. Si piangono spesso le proprie emozioni danzando. A volte accade nel vero e proprio senso della parola, ma non sempre con un'accezione negativa. Poter vivere l’emozione di toccare la propria anima danzando smuove i pensieri più profondi, pensieri reconditi spesso soppressi. Può far scendere lacrime così come generare grandi sorrisi.
Questo, più di tutti, è ciò mi ha portato a fare della danza la mia vita ed è quello che, come coreografo, mi auguro di poter fare e tramandare con le mie opere. Esprimere un pensiero, aprire la mia mente e condividerla con un pubblico bisognoso e voglioso di vivere un esperienza, bella o brutta che sia.
Ho combattuto molto nella mia vita per ottenere dei risultati e raggiungere degli obiettivi e non sempre è stato facile. Quindi, quale migliore mezzo, se non la danza, per raccontare se stessi e porre o porsi delle domande permettendo ad un mondo sempre più frenetico di fermasi ed emozionarsi insieme.
R. Due lavori differenti, due differenti approcci alla creazione. “Wind” è un vento che genera movimento, dà vita al corpo e crea relazioni. Tutto il lavoro è basato sulla non staticità dettata da correnti d'aria (di un ventilatore in questo caso) che muovono i corpi in modo aleatorio, che genera gesti e dinamiche astratte che, rielaborate e assemblate, hanno dato vita a “Wind”.
Quindi è proprio il vento il protagonista di questa creazione, soprattutto nella ricerca gestuale e nell'utilizzo dello spazio. “Connessioni imprevedibili”, invece, ha seguito un percorso inverso. Mentre per “Wind” sono partito da quello che il titolo mi ispirava per creare l'intera coreografia, al contrario per “Connessioni imprevedibili” sono giunto al titolo solo alla fine del percorso di creazione, lasciandomi ispirare dal lavoro compiuto.
Partendo da un idea di rapporti, di relazioni, di incontri tra persone sconosciute e ricercando insieme ai ballerini, attraverso delle improvvisazioni, una gestualità del quotidiano che potesse incontrarsi e fondersi con l'idea stessa di relazione. Da questa ricerca è venuto fuori che tra questi individui si creavano delle connessioni sempre diverse, imprevedibili, dalla natura incerta, accomunate quasi sempre dal bisogno di contatto e di sostegno reciproco. Come anticipato prima, quindi, è proprio il lavoro che ha ispirato e suggerito il titolo.
gb
APPROFONDIMENTI
SHOWCASE
In Homosexuality: storie di vita quotidiana, un suo lavoro del 2013, omini Lego si abbracciavano, convolavano a nozze, andavano in vacanza col compagno e i figli. Quattro anni dopo, l'espediente che suggeriva l'esistenza di vite non ancora così rappresentate, è sostituito da persone che vivono quella vita, e la raccontano parlando di sé serenamente. Gli scatti mettono a fuoco la quotidianità, e sono privi di retorica o di intenti didascalici. L'epoca delle rivendicazioni sta lasciando il passo alla esigenza di raccontarsi per quello che si è, mettendo a disposizione degli altri il proprio vissuto quotidiano. Sta anche in questo la volontà di attivista di Alice Arduino: far sì che si esca allo scoperto. Non tanto per “rivendicazione” o “affermazione di sè”, ma perchè, al giorno d'oggi, c'è la possibilità per tutti di vivere, e viversi, serenamente, senza freni o filtri.
Un lavoro lungo e paziente ha trasformato l'urgenza di testimoniare di Alice in ritratti morbidi, che trasmettono la relativa sicurezza di persone che hanno trovato, nel continuo scorrere ed evolversi della vita, un loro posto e una loro dimensione.
R. Il tutto è iniziato nel 2013 quando ho partecipato ad un concorso indetto dal MAU “Leggi=Ama”. La mia foto dal titolo “There is a letter for you” aveva vinto ed era stata esposta alla BAM - Biennale d’Arte Moderna - Contemporary Photobox presso la sala espositiva dell'NH Lingotto Tech di Torino. La foto vincitrice apparteneva al progetto “Homosexuality: storie di vita quotidiana”. Lo stesso anno il MAU mi propose di esporre il progetto per intero con tutte le foto realizzate. Da allora è iniziata la collaborazione con il Museo e ogni anno espongo con loro.
D. Ti concentri molto su tematiche relative all'omosessualità, inoltre scattare delle foto per te è raccontare delle storie: in cosa ti rispecchi di più, come persona oltre che come fotografa e attivista, negli incontri che hanno portato agli scatti?
R. Nelle mie immagini c’è la volontà di raccontare delle storie e nei miei progetti metto la mia esperienza, vissuto, vita. Attraverso questo mi pongo delle domande e cerco di trovare risposte. La mia è una fotografia “ribelle” e “riflessiva” che ha lo scopo di far ragionare le persone che osservano i miei lavori. Per Celebrate Yourself sono partita dal mio attivismo negli anni a come ho affrontato il mio coming out, le difficoltà e le gioie. Mi sono chiesta quale fosse il percorso fatto da altri e l’importanza di “metterci la faccia” nel raccontarsi per dare l’esempio a chi ancora non è “uscito allo scoperto”. Allo stesso tempo non volevo parlare solo alla comunità lgbt ma a tutti/e portando il mio progetto a superare le etichette “lesbiche, gay, bisessuale, transessuale” facendo conoscere le persone con i loro hobby, passioni, lavori, principi, valori e vita quotidiana. Credo fortemente che le barriere e i pregiudizi si possano superare attraverso la conoscenza delle persone.
R. Cerco sempre di essere empatica, di capire le persone e immedesimarmi in loro. Ma il lavoro si svolge su piani diversi: negli eventi sportivi cerco di catturare le emozioni, fatiche e l’azione del gioco; nei matrimoni mi concentro sugli sguardi, situazioni, dinamiche e relazioni tra gli sposi (o le spose) e gli invitati. Diventa quindi un reportage che narra la storia del momento. In entrambi segui la scena e la fotografi devi quindi essere molto attento a ciò che capita davanti ai tuoi occhi. I miei progetti, invece, sono ragionati, pensati. Prima mi chiedo cosa voglio rappresentare, perché è necessario farlo e poi come tradurlo in immagini. C’è quindi uno studio a priori che dura molto tempo. L’obbiettivo è sempre far passare il messaggio nel modo più semplice e comunicativo possibile. Ciò che si vede in una immagine è il risultato di mesi di lavoro a tavolino, di contatti, diffusione e promozione del progetto.
D. Gli scatti avvenivano prima, durante o dopo l'intervista? È stato difficile costruire una atmosfera di fiducia e naturalezza?
R. Ho cercato di creare un rapporto di fiducia con le persone perché stavano parlando e raccontando di sé ad una estranea. Ho impiegato molto tempo a parlare del progetto a spiegarlo e solo dopo c’è stato l’incontro con gli intervistati. Prima dell’intervista incontravo le persone si parlava e scherzava un po’ per sciogliere la tensione, dopo iniziava l’intervista fatta in modo informale e attraverso una chiacchierata. Credo che questo abbia permesso di mettere le persone a proprio agio. Solo a fine intervista realizzavo la foto, gli intervistati erano più rilassati e spontanei, avevo avuto modo di conoscerle meglio e capire come fotografarle, in che posa metterle e dove, all’interno dello spazio in cui avveniva l’incontro. L’immagine, diventava la fase finale, il momento in cui catturavo la loro essenza, utilizzando talvolta lo sfondo come componente del racconto fotografico e relazione con l’individuo nel suo ambiente.
R. È entrambe le cose. Il mio percorso personale è fondamentale perché nei miei progetti mi interrogo su ciò che voglio rappresentare, sul tema da trattare e su come realizzarlo. La mia esperienza va di pari passo con il tempo in cui vivo, con le lotte che faccio e che avvengono in Italia. Sono una donna, lesbica, attivista, ribelle, anticonformista e queste componenti creano la base su cui si sviluppano i miei lavori, realizzati con sfumature e indagini sul corpo e la sessualità in modo differente.
D. Celebrate Yourself è un progetto chiuso o vorresti arricchirlo con altre interviste e altri scatti? C'è qualcos'altro che vorresti esplorare della vita e del percorso di persone LGBT?
R. È stato difficile trovare 35 persone che volessero fotografarsi e raccontarsi. Non tutti/e sono disposti a metterci la faccia a dire apertamente chi sono. C’è ancora molta paura di essere giudicati e discriminati. Molte persone contattate si sono tirate indietro, altre avevano problemi sul lavoro o non lo avevano detto ai genitori e non ho trovato nessuna famiglia arcobaleno che volesse fare una foto con la famiglia, forse anche a causa dei figli minorenni. Credo ci sia ancora molto lavoro da fare sulle tematiche lgbt, molte sfumature da narrare e rappresentare. È necessario continuare a parlarne per sensibilizzare e portare l’attenzione su questi temi alle istituzioni. Celebrate Yourself potrebbe continuare qualora avesse le attenzioni di Comune e Regione che vogliano diffondere e promuovere il progetto attraverso i loro canali e spazi. In questo caso, potrei creare nuovi ritratti e pensare ad una mostra più grande, dinamica e interattiva inserendo le interviste complete anche con l’audio da ascoltare.
www.alicearduino.com
Davide Monetto
approfondimenti
queer fra centro e periferia
R. Penso che non ci sia alcuna differenza. Molte volte l’uso di applicazioni o siti d’incontri vengano usati per creare una selezione iniziale. Esempio, un gay scarica grindr e non badoo perchè su grindr sa che tutti sono gay o bisex o suoi simili, si sente accettato insomma. Da trentenne posso dire che una volta era più difficile conoscere persone omosessuali, bisognava andare in discoteca o in un locale gay freendly. Oggi, purtroppo, con l’arrivo delle chat si è facilitato il percorso conoscitivo ma si è perso un po' quel senso di conquista e ricerca. Per non parlare del fatto che la comunità gay di provincia è la più pettegola: sanno con chi sei andato a letto chi frequenti e cosa fai. Informazioni che, poi, vengono usate per metterti in buona o cattiva luce. Anche nelle grandi città non aiuta molto, rischia di creare tanti piccoli "branchi" di persone senza portare ad una reale apertura. Spesso è proprio il contrario.
D. Le chat, i siti di annunci, le community hanno realmente aiutato nel fare coming out?
R. Dipende da cosa intendiamo per coming out. Se le persone vogliono rivelarsi a sé stesse acquistando in consapevolezza, consiglierei siti specifici come Arcigay e/o community. Se intendiamo invece, coming out come dichiararsi agli altri, direi che le community hanno aiutato un po', le chat non molto poiché, come detto prima, il rischio è la creazione di gruppi chiusi. Molti ventenni che ho conosciuto in chat, erano agguerriti virtualmente ma nella realtà mostravano molti più pregiudizi e paura di molti etero. Le community, credo siano più istruttive, dando la possibilità di leggere esperienze di vita vissuta e aiutando a non ripetere errori già fatti in passato. Non prendo in considerazione i siti di annunci, dal momento che non credo bisogna "prendere il pezzo migliore al prezzo più basso". Sui siti, purtroppo la maggior parte cerca solo sesso o lo sfogo di fantasie sessuali che abitualmente non farebbe con il/la proprio/a compagno/a.
D. Noti delle differenze d'approccio nell'intendersi queer fra la tua e le generazioni a cui parli?
R. Se prendiamo il termine queer nel vero senso della parola ovvero “strano” “eccentrico” non trovo differenze tra le generazioni. Se ci pensiamo, siamo tutti queer poiché dopo anni e anni di stereotipi e pregiudizi siamo stufi di esser categorizzati e catalogati. Oggi il termine queer viene usato un po' per tutto. A volte, il termine viene usato come uno schermo quando omofobia, bifobia e transfobia sono così interiorizzati che il singolo non si vuole esporre neanche con sé stesso. Oppure viene usato per un fattore di fluidità di genere e orientamento sessuale per chi - come detto prima - non ha voglia di appartenere a delle categorie o a gruppi da cui non si sente rappresentato. L’unica differenza che trovo non si limita ad un un termine o ad una espressione di genere, ma, sta nella voglia di affermarsi in qualcosa che ci appartiene e che ci rappresenta interamente. nei primi anni del 2000 si aveva voglia di far parte di qualcosa di importante, di creare un cambiamento e mettersi in gioco. I giovani d’oggi a mio giudizio non hanno più l’ambizione di imporre un cambiamento, quindi usano termini come queer per sentirsi parte di un qualcosa di non ben definito, per non esporsi troppo ma neanche nascondersi.
D. I social stanno producendo un'immagine di noi altra, iper-reale. Come poni la questione nelle scuole?
R. Purtroppo i social producono un’immagine iper-reale su tutto. Dovrebbero esser usati per il loro vero scopo: migliorare la "socialità" e la condivisione delle storie di vita. A me sembra invece che si faccia la gara a chi è più bella/o, a chi "ce l’ha più grosso", con l'effetto di creare ulteriori immagini e alimentando così un circolo vizioso. Agli studenti dico sempre che Facebook, i social, e tutto il contorno delle piattaforme sono canali fittizi, qualunquisti e al 70% inutili. Se uno vuole la "realtà" e la concretezza delle cose ad oggi ha la possibilità di cercarla tra associazioni, biblioteche e Wikipedia. Se sei curioso non ricorrere ai social, cerca qualcuno che possa rispondere alle tue domande. I social vanno trattati come tali. Ma la colpa non è tutta dei social, poiché molte volte è la comunità LGBT che vuol esser "iper-reale". Per fare un esempio, Mario Mieli che negli 80 andava vestito da donna fuori dai cancelli delle fabbriche. la nascita dei movimenti LGBT durante gli anni 80 era di per sè iper-reale, ma le conquiste ci danno possibilità di essere altro. Noi LGBT possiamo essere "reali", "iper-reali", forse troppo reali, ma siamo qui e useremo soprattutto i social per fare capire che esistiamo come tutti.
R. Assolutamente Sì. Mi allaccio alla domanda di prima: l’omofobia interiorizzata è una delle piaghe più grandi per la comunità. Purtroppo nella provincia si ha ancora molta paura di "cosa possono dire”, dello “sparlare”.In provincia il problema più grande è apparire al meglio agli occhi dei concittadini e rispecchiare il ruolo di genere che fa comodo alla "cittadina". Arcigay da una possibilità di tutela, che non viene sfruttata perché il partecipare alle iniziative di Arcigay è visto come un outing, tralasciando il fatto che in queste realtà ci sono molti etero. Una cosa che io odio è il vittimismo: se sei gay e abiti ad esempio a Mondovì, e non riesci ad esser te stesso al 100%, ma non fai nulla per cambiare, allora in fondo la tua condizione ti fa anche comodo. A Torino e Milano la situazione è uguale seppur meno visibile, perché se un gay si nasconde altrettanti cento usciranno allo scoperto. Il bello è che le associazioni del territorio conquistano diritti per tutti, anche per chi si nasconde. Uscite dal guscio, vivete la vostra vita! ne avete una sola e solo quella, per quanti anni volete ancora vedervi passare la vita davanti? Per chi o cosa vi nascondete? Ricordatevi che vi nascondete perché amate - ripeto, AMATE una persona; cosa c’è di così spaventoso, aberrante e ghettizzante?
D. Il web. Dalla tua esperienza i confini fra etero e gay sono così netti? Secondo me più che differenza è parallelismo quando potrebbe esserci unione, ora non mi ricordo una pubblicità negli 80 dove c’erano uomini che pubblicizzavano l’asse da stiro, abbiamo dovuto aspettare 30 anni per farlo? E poi cosa fa un etero che un gay non può fare?
R. Più che confini si creano delle piccole “battaglie” sempre per la prevaricazione l’uno dell’altro. Diciamo pure che noi gay abbiamo aiutato gli etero a migliorarsi, o meglio l'uomo gay ha aiutato gli uomini etero ad emanciparsi. Tutti quei confini dei vecchi tempi oggi non ci sono più. Aiamo tutti abitanti liberi e felici, basta non pestarci i piedi.
gb
ApprofondiMENTI
QUEER FRA CENTRO E PERFERIA
Via via cambiano le forme di un futuro che percepiamo inavvicinabile ma che vezzeggiamo e desideriamo. Credo che la giovinezza consista nel farci plasmare da una serie di esperienze che, mentre ci passano attraverso, riponiamo disordinatamente, quasi sovrappensiero, oltre una porta chiusa. In una stanza via via più ampia che, una volta abitata, costituirà la vita adulta, il momento in cui il futuro immaginato diventerà un presente vissuto. Per molte persone questa rivoluzione avviene a cavallo dei trent’anni.
Ci ritroviamo fra le mani esperienze che avevamo filtrato attraverso l’aspettativa del ricordo che ne avremmo avuto, o dell’utilità che ci è stato suggerito potessero avere. Prima o poi, volente o nolente, voluto o temuto questo futuro si avvicina, e noi ci disponiamo finalmente a prenderne possesso. Varchiamo quella porta che avevamo chiusa e percorriamo a tentoni i confini di questo luogo caotico. Cerchiamo di organizzare ciò che ci è utile e riponiamo quello che può essere messo da parte, scoprendo che non siamo in grado di farlo.
Ci scopriamo in una realtà sospesa, vischiosa; una nebbia in cui molte energie girano a vuoto e si disperdono. Il presente è privato di prospettive: il futuro immaginario che prima popolavamo di sogni e progetti è desertico. Al contempo scopriamo una vita interiore molto più affollata e caotica di quanto potessimo mai aspettarci. C’è un popolo sotterraneo che si muove e mormora sotto ciò che ci illudevamo di essere.
Ci vediamo finalmente come delle goffe creature piene di malfunzionamenti; strani mostri: Queers. Scegliere per noi la nostra identità implica il ragionare sulla distanza fra ciò che realmente ci rende felici e i modi di vivere messi a disposizione dal mondo in cui viviamo.
TEORIA VS PRASSI
Molti si ritrovano di fronte ad un presente cresciuto in forme e direzioni inaspettate. Si aspettavano che, gettando radici sulle cose che più sentivamo proprie, crescesse e si irrobustisse un presente stabile. Fatto di un lavoro, una serie di passioni, una vita di relazione, magari di famiglia.
La maggior parte dei trentenni oggi si ritrova invischiata nella sterpaglia, persa in una macchia dura e ostile, o assiste impotente al lento avvizzirsi di un presente tanto agognato, ma che non viene nutrito a sufficienza.
Davide Monetto
APPROFONDIMENTI
QUEER FRA CENTRO E PERIFERIA
Le parole che più emergono dalle sue risposte sono "servizio", "alternative", "diritti". L'attenzione si concentra su tutte le possibilità di crescita personale e di incontro che vengono fornite agli interlocutori delle associazioni. L'idea stessa di Queer, così come la categorizzazione delle persone LGBT, sono viste come strumento per la crescita sociale e psicologica, e in definitiva per realizzazione di sé in una società con consuetudini rigide e fisse..
In qualche maniera la parte umana e personale, dunque la fatica che una vita da attivista comporta, rimangono nascoste dietro le iniziative descritte in questa breve intervista. Per fare tutto questo ci devono essere motivazioni forti.
L'impressione che emerge nell'ascoltarlo è che Riccardo sia cresciuto, come persona oltre che come attivista, all'interno di questo ambiente, e che lo abbia scelto per conoscersi e per scegliere le parti di sé da coltivare. In un certo senso Casa Arcobaleno è Arcigay Torino "Ottavio Mai" sono emanazioni dirette della sua vita personale e della sua crescita.
Casa Arcobaleno e i volontari che la formano si impegnano a distribuire queste alternative sotto forma di servizi, ma quanto di questo lavoro è percepito dalla comunità? Quanto essa è umanamente partecipe delle vite che si strutturato sotto il tetto di casa Arcobaleno?
Il fattore umano è la chiave per superare i muri che la società oppone all'emancipazione delle persone. La partecipazione emotiva, al di qua di qualsiasi categorizzazione, è il motore che da la spinta ai progetti, soprattutto ai più grandi. Muovere da Movere, ovvero trasformare, e commuovere.
Davide Monetto
APPROFONDIMENTI
QUEER FRA CENTRO E PERIFERIA
R. Non credo di avere avuto scelta. A partire dalla prima infanzia tutto ciò che costituiva il “dialogo interiore”, quell'insieme di suggestioni, impressioni, immagini, decodificazioni della realtà si costituiva in volontà di esplorazione di me e dell'Altro da me. Alle elementari la lettura ad alta voce era per me un momento in cui tutto ciò che percepivo del mondo finalmente si traduceva in messaggio; recitavo le poesie a memoria con tale coinvolgimento che l'insegnante spesso commentava con un “il teatro è la tua strada”. La scrittura per la scena è venuta da sé, con la necessità di esprimere un messaggio, più che per volontà di narrazione.
R. Il personaggio per me è il medium. Il fine scenico, nel mio lavoro, non è mai una narrazione fine a se stessa (sempre che una qualsivoglia narrazione possa esserlo), ma un canale portatore di uno o più messaggi. A volte, il medium, il tramite, è il messaggio stesso.
In “Pupeide”, Bruno/Bettina è un carattere ispirato ad una persona che è esistita, un ragazzo dell'entroterra siciliano arrivato a Torino giovanissimo, in cerca di fortuna. Bruno è morto nel 1979, io sono nata nel 1980, ma la sua voce è arrivata al mio orecchio oltre il tempo e lo spazio, e un grande senso di appartenenza mi ha legata a lui, da subito. L'ho percepito sempre presente, come se utilizzasse la mia scrittura per tornare nel mondo. Alla fine degli anni Settanta, riconoscersi come omosessuali e vivere con orgoglio non era certamente scontato, data la cultura eteronormata e machista che tanto affligeva ed affligge la società occidentale.
Attraverso la costruzione del carattere, cerco di esprimere la necessità di guardare all'Altro da noi come ad un universo da esplorare: mi piace pensare che dovrebbe essere la meraviglia a guidarci nell'apprendimento emotivo e cognitivo, come accade nella prima infanzia. Purtroppo viviamo in un sistema che esprime in se stesso la necessità di omologazione, rifiutando tutto ciò che propaga la propria unicità rivendicandola come tale. Ripeto spesso che siamo tutt* pezzi unici, con una radice comune. Sguardi multidirezionali appartenenti allo stesso occhio.
La società è intrappolata nel simulacro di un'unica visione, di uno sguardo monodirezionale: nelle mie drammaturgie denuncio la pericolosità della Norma e la necessità di superarla, di rivendicare una libertà di esistenza e di espressione.
R. Vivo nella trascendenza, con tutte le difficoltà del caso. Il corpo è un medium splendido, quasi un manifesto di per sé, che però subisce spesso mortificazioni a causa della non aderenza agli standard comuni. Ognun* di noi ha una percezione interiorizzata del proprio corpo, che a volte si scontra con la percezione che l'esterno, l'Altro da noi, ha dello stesso.
Mettere il proprio corpo al servizio della scena costringe l'attore a lasciare da parte se stesso: il corpo scenico non è più una tua proprietà, è qualcosa di inafFerrabile, che si esprime nell'istante e che può mutare lungo il percorso, arrivando anche ad avere una propria “identità separata”. La mia corporeità, l'espressione del mio corpo scenico è per me un momento di arte assoluta: divento il mezzo del mezzo stesso, a volte trovandomi a scoprire e percorrere vie di espressione corporea non convenzionali, avulse anche alle regole teatrali – per questo a volte diventa inafferrabile. Anche la carne può essere trascendente.
D. Osceno ha molte etimologie; oltre che o-skene, ovvero al di fuori della norma, anche ob cœnium: proprio del fango, della melma. Streghe, prostitute, omosessuali in un epoca in cui vi era solo condanna. Tutte figure di esclusi oltre che (o in quanto?) portatori di umanità. Quanto della tua ricerca - umana e artistica - parla di scoperta e messa a nudo, e quanto di accettazione e riconciliazione? Quanto questi aspetti sono legati fra di loro e a te?
R. Moltissimo. L'archetipo della Strega, per esempio, è l'espressione queer per eccellenza: donne che rivendicavano la propria unicità e che hanno rifiutato il controllo, oppure donne sapienti, vere e proprie esperte di erboristeria medica, epurate da una società in cui la logica di profitto ed il controllo dei corpi erano priorità assoluta. Streghe, prostitute e persone LGBTQIA+ sono state perseguitate, torturate ed uccise perchè esprimevano qualcosa che si discostava dalla Norma; è così ancora oggi, purtroppo.
Ma chi ha deciso che l'autodeterminazione debba avere un prezzo? La mia ricerca verte sicuramente sulla scoperta e sulla messa a nudo, ma non sull'accettazione: accettare qualcosa presuppone uno standard di partenza con cui fare un confronto, per poi decidere se il soggetto è “all'altezza” dell'esame. No, grazie. Forse sono un'idealista, ma realmente perseguo l'obiettivo di una società in cui ci sia sana curiosità e sete di conoscenza dell'Altro, costituzione collettiva di voci e di corpi difformi, anime libere.
R. Nel momento in cui il pubblico si riconosce in ciò che accade in scena, il messaggio è giunto a destinazione. Credo che le questioni queer si esprimano proprio nell'unicità di chi ne rivendica gli aspetti ed I messaggi : se ancora oggi qualcun* si sente minacciat* dalla mia unicità (data l'espressione del mio orientamento sessuale, della mia identità di genere, del mio ruolo o dalla mia espressione di genere, oltre che da tutti gli aspetti che compongono la personalità) e crede di avere il diritto di prescrivere ciò che dovrei o non dovrei fare, allora nel rito collettivo si libera, almeno per qualche istante, l'antidoto: l'annullamento della paura.
Il teatro è nell'Altrove che tutt* neghiamo, sempre più inscritt* in una collettività legata all' apparenza. Attraverso il teatro, l'essere umano riacquista il senso del sacro, e si libera dal timore. Purtroppo, poi torna alla quotidianità e ricade nella paura, vittima di quella “ratio a tutti I costi” che ci ha privat* di ogni aspetto di accompagnamento – e quindi di elaborazione – dei riti di passaggio (nascita, morte, etc.).
Per me essere queer significa esprimere, nell'arte e nella vita, il diritto all'unicità, senza che per questo qualcun* si senta minacciat*. Potremmo vivere realmente liber*, ma il controllo della cosiddetta “società civile” richiede ancora che si rivendichino I diritti umani, oltre che civili, fondamentali – e lo dico con amarezza.
R. Beh, diciamo che devo organizzarmi con molta precisione! Casa Arcobaleno è un progetto voluto da Arcigay Torino proprio nell'ottica di creare qualcosa di nuovo, di sperimentare un melting pot tra realtà eterogenee. Arcigay è un'associazione con una storia alle spalle, ma il lavoro del comitato non si esaurisce nei servizi forniti ai cittadini.
La creazione e l'organizzazione di eventi culturali, ad esempio, è parte integrante del percorso del comitato di Torino; il lavoro delle volontarie e dei volontari dei diversi gruppi spazia dalla gestione di eventi all'offerta di servizi come lo sportello Accoglienza, che fornisce ascolto e supporto, oltre al sostegno per le persone richiedenti asilo politico; il gruppo Giovani è molto partecipato e organizza attività di formazione e aggregazione tese all'inclusività e alle buone pratiche; il Gruppo Scuole e Formazione porta le testimonianze delle ragazze e dei ragazzi che ne fanno parte nelle scuole superiori di Torino e Provincia, in un'ottica di lotta costante alle discriminazioni (tutte) e al bullismo omotransfobico.
E così tutti I gruppi tematici che costituiscono il corpus del comitato. Il mio percorso prosegue in parallelo, spesso ho potuto mettere a disposizione la mia professionalità in percorsi culturali, anche grazie alla squadra che lavora alacremente affinché l'associazione cresca giorno dopo giorno. Abbiamo un obiettivo comune, che si traduce nella creazione di una reale inclusività e un di un buon accompagnamento alla scoperta della propria individualità e condivisione delle alterità.
Davide Monetto
APPROFONDIMENTI
QUEER FRA CENTRO E PERIFERIA
R. Sottoscrivere la tessera di una associazione porta con se alcune responsabilità: da una parte, si sposano le lotte e le rivendicazioni mosse dalla realtà associativa, che possono andare in varie direzioni; dall’altra, si sostiene un progetto di cittadinanza attiva che produce i suoi frutti attraverso i servizi, gratuiti, messi a disposizione della cittadinanza.
Nello specifico, con la tessera di Arcigay si sostengono servizi curati da volontarie e volontari che mettono a disposizione la loro professionalità nell’ascolto empatico per fornire sostegno a chi chiede aiuto per affrontare questioni legate all’orientamento sessuale, alle identità di genere, alla consulenza psicologica e legale, al sostegno di fasce di popolazione migrante che chiedono asilo politico, a giovani che cercano un luogo frequentato da pari per confrontarsi e crescere.
Inoltre, quel ritaglio di plastica colorata, che a prima vista può essere privo di significato, porta con sé il lavoro di decine di volontarie e volontari che si spendono quotidianamente nell’ideazione di momenti aggregativi, formativi e culturali, nella rivendicazione della visibilità, dei diritti che ci spettano per essere tutte e tutti uguali davanti alla legge, con l’ònere di consegnare un bagaglio di conoscenze ed esperienze nell’incontro con l’altra persona. Quindi, nonostante una buona parte della comunicazione finalizzata alla conoscenza reciproca sia passata su canali informatici, l’incontro vis-à-vis detiene ancora l’energia che genera movimento e, quindi, socializzazione e creazione di senso di gruppo.
R. CasArcobaleno è un polo integrato di servizi di interesse pubblico rivolti alla popolazione LGBTQI* e di servizi diretti alla popolazione cittadina tutta. Nasce in un quartiere di costanti conflitti e dialoghi, di incontri e necessità, Porta Palazzo, e cerca di rispondere ad alcune esigenze della città e della sua popolazione LGBTQI*.
Si tratta di un luogo di sovrapposizioni e contaminazioni, dove hanno sede molte associazioni e gruppi della variegata galassia LGBTQI* e non; è un luogo di cittadinanza attiva che vive l’incontro come apertura a nuove dinamiche e punti di vista, in modo che le battaglie per i diritti siano davvero di tutte e tutti, fuori dai confini ristretti e ghettizzanti dei limiti costruiti dalle proprie mission.
CasArcobaleno è, dunque, una crisi cercata, positiva; è, soprattutto, una casa, un luogo pubblico e privato abitato da molte associazioni in base al momento scelto per visitarlo. Al momento aderiscono al progetto 18 associazioni, quindi il tipo di utenza varia in base al contesto associativo: troviamo genitori, amici e parenti di persone LGBTQI*, giovani, sportivi, gruppi di forze dell’ordine LGBTQI*, genitori omosessuali, comunicatori multimediali, atei, agnostici, di tutte le fedi.
R. Le socie e i soci che si avvicinano alle realtà che abitano CasArcobaleno entrano in contatto con contesti che propongono una visione differente da quella prevalente della società che ci circonda. Fornire un’alternativa, che può avvicinarsi alle peculiarità di ogni persona, tende a creare un ambiente il più variegato possibile, dove nell’incontro con l’altr* si genera conoscenza e si abbattono quei muri di paura e ostilità.
CasArcobaleno, frequentata dalle socie e dai soci delle 18 associazioni che la abitano, basa la sensibilizzazione sulle tematiche della salute e del benessere, sull’approfondimento cinematografico e culturale, sulla mobilità internazionale e sui diritti europei, sull’accoglienza delle persone migranti, l’ascolto dei famigliari e amici delle persone LGBTQI*, su ragionamenti sul concetto di famiglia allargata, ricomposta e formata da persone dello stesso sesso, sul potenziale delle e dei giovani, sull’abbattimento di stereotipi e pregiudizi attraverso lo sport, su credi religiosi non maggioritari, o su ateismo e agnosticismo, su turismo LGBT, giornalismo e comunicazione innovativa, e molto altro.
R. Parto dal presupposto che le categorie, in base alle modalità con cui vengono utilizzate, possono essere un’arma a doppio taglio. Per fare un esempio, che reputo negativo, utilizzare l’etichetta gay per giustificare la presunta incapacità di una persona omosessuale di poter crescere un/a figlio/a, o di non aver accesso al matrimonio, è sicuramente un uso scorretto e stigmatizzante, visto che dovremmo essere tutt* uguali davanti alla legge; al contrario, per usare un esempio che reputo positivo, utilizzare l’etichetta gay per autodeterminarsi e comunicare ciò che piace, ciò da cui siamo attratti, ma anche i soprusi che una categoria ha subito nella storia o la letteratura ad essa dedicata, è un modo interessante per non dimenticare quanto sia fondamentale decantare le differenze, senza oscurarle.
La letteratura omosessuale ci ha regalato autori e autrici interessanti, basti pensare ad Allen Ginzberg con il fenomeno della Beat generation e l’esplorazione delle sessualità, il libertinaggio eversivo descritto da Pier Vittorio Tondelli, ma non solo letteratura, anche l’attivismo scritto e manifesto di Judith Butler, le canzoni di Alfredo Cohen, i testi e le azioni queer-rompenti di Mario Mieli: pensare di inserire tutte e tutti loro in un unico calderone potrebbe significare non restituirne dignità.
Per tentare di rispondere con più precisione alla domanda, l’essere umano è abituato, forse per comodità, a classificare tutto in confini ben definiti, sicuri e rassicuranti. Tentare di rompere quei confini è uno dei compiti più complessi che conosca, ed è uno sforzo che richiede molto lavoro su se stess*. Quindi, sapere che a un certo tipo di caratteristiche e comportamenti corrisponde la definizione gay ne facilita la comprensione, riducendo al tempo stesso la possibilità di “uscire dagli schemi” e di autodeterminarsi, liberandosi dalle imposizioni della società.
R. A Torino esiste un contesto queer interessante e stimolante, che rivede in chiave contemporanea il significato del termine. Tra assemblee e luoghi di incontro e confronto, festival cinematografici indipendenti e intersezionali, eventi ricreativi stimolanti e liberi, i temi trattati sono molti, dal contrasto alla schiavitù all’assistenza sessuale per disabili, dal tema del consenso all’etica negli allevamenti, dalla fluidità di genere all’antispecismo, generando dibattito, attualità e stimolando coscienze politiche.
Anche in CasArcobaleno, nel nostro piccolo, insieme ad alcune attiviste, si sta portando avanti un discorso queer attraverso serate di approfondimento quali Bed Time Stories, un contenitore ideato da me e da Francesca Puopolo, Presidente di Arcigay Torino, progetto di ricerca accurata di raccolta della memoria orale, attraverso la narrazione delle persone LGBTQI* che non hanno mai avuto occasione di raccontare particolari emotivamente significativi della loro storia: in passato abbiamo avuto ospite un marchettaro di Torino, che ha portato all’attenzione delle molte persone presenti la vita spesso celata di un ragazzo che si prostituiva negli alloggi del centro città, ma anche autrici, autori e attivist* di lunga data. E poi serate di approfondimento su Mario Mieli, su bisessualità e bifobia, proiezioni di film d’essai, mostre fotografiche a tematica trans*, poliamore e molto altro.
R. Ammetto di essere in una fase di conoscenza e studio della realtà queer, quindi quanto dirò resterà una mia opinione personale. Credo che il disagio che una persona può provare in un contesto sociale venga ribaltato, in chiave queer, trasformandolo in rivendicazione.
Per definizione, queer significa eccentrico, sia sessualmente, sia socialmente, sia etnicamente, ovvero distaccato dalla normalità della cultura egemone: nell’eccentricità troviamo la ribellione a un comportamento imposto e non condiviso, l’allontanamento da precisi dettami che non tengono conto delle particolarità di ogni individuo, che respingono le differenze e le etichettano come negative.
La favolosità quale strumento di rivendicazione del diritto a far uscire allo scoperto checche, frocie, travestite, trans* e chiunque non si senta a proprio agio nel binarismo di genere uomo-donna, che porta con sé l’imposizione di un comportamento preciso che vuole maschi e femmine cisgender calati nello stereotipo machista e sessista, e con modalità personalizzabili che tendono a liberarsi da ideologie maschiliste, ecclesiastiche, politicamente corrette, autocratiche e legate a una culture intolleranti. Il disagio, dunque, non viene assorbito passivamente e lamentato, ma viene trasformato, o trans-formato, così da diventare movimento, in direzioni ostinate e contrarie.
gb
ApprofondiMENTI
QUEER FRA CENTRO E PERIFERIA
D. Come vivi il tuo essere queer?
R. Adesso rilassata e con consapevolezza, ma non è stato sempre così. Avevo continuamente l’impressione di essere doppia e non trovavo una parte dominante che mi indicasse la direzione da seguire, poi lavorandoci su, insieme alla psicoterapista ho delineato là i contorni fisici e mentali della mia persona. Probabilmente non sono giunta ad un “punto di arrivo”, ma nel “divenire” sono a mio agio.
D. Essere queer. Ieri come oggi quali pregiudizi?
R. Essere queer oggi è come ieri. “La mia è una fase” come tanti pensano, e come “maschiaccio ci sta che faccio le cose cosi”, tanto è “passeggera”! I pregiudizi vanno a braccetto con i preconcetti, e questi insieme sono sempre di moda. E per smontarli ci vuole tempo e voglia. Quando passo molto tempo con delle persone e tengo alla loro compagnia ad esempio, spendo parole e racconti sul mio vissuto, per comunicare l'unicità delle singole personalità, e come può essere fluida la vita una volta scavalcati gli schemi.
R. A ripensarci, difficilissimo, perché il mio percorso personale inizia in torno ai 4 anni. Ci sono stati tanti momenti in cui cercavo dei punti di riferimento, delle persone che dessero ispirazione al mio “essere” per incominciare e poi proseguire come sentivo. Non trovandoli, spesso rimandavo le mie domande pensando di non saper confrontarmi e rispondere ai miei punti interrogativi.
D. Pensi che vivere in provincia influisca sul modo in cui la gente ti percepisce?
R. Le province hanno un grosso difetto, fanno da contorno a grosse città dove succedono cose e dove c’è il passaggio di molte persone e culture. E questo determina una messa in discussione della società locale e con l’attivismo, noi di Grandaqueer abbiamo sperimentato che collaborando col e sul territorio, affrontando temi caldi, la percezione di chi sei e perché desideri auto affermarti diviene importante per chi ti ascolta. E' nello scambio di esperienze che il tessuto sociale, messo a confronto può cambiare.
D. Quanto l'essere queer è solo una questione politica in Italia?
R. Personalmente non so dire. Come idea generale le nuove generazioni, cioè chi è alle prese con l’adolescenza e domande esistenziali, si interessano in maniera approfondita dell’argomento, cogliendo da altri percorsi spunti per intraprendere nuove riflessioni. Certo è che le riflessioni delle persone queer nel Regno Unito non sono le stesse in Italia.
gb
APPROFONDIMENTI
QUEER FRA CENTRO E PERIFERIA
Ponticelli
Opere molto diverse che in comune, oltre una visione lucida e allucinata della condizione umana, hanno la volontà di superare i limiti del medium. Ponticelli, crea così una graphic novel lontana dai canoni bonelliani abolendo qualsiasi tipo di gabbia, grafica e narrativa, espandendo al limite le possibilità tipografiche del concetto di splash page.
Consapevolezza narrativa accompagnata ad un tratto inquietante costituiscono il racconto claustrofobico di un futuro non molto lontano. Nel 2008, pubblicato dalla Bloom Edizioni, Blatte vince il premio Boscarato come miglior fumetto e Ponticelli il premio Micheluzzi come miglior disegnatore. Riedito nel 2014 per Lineachiara, Blatte, oggi si trasforma per diventare una serie televisiva prodotta dalla Grey Ladder.
lucania
Qui Lucania si unisce idealmente a Ponticelli nella necessità di svecchiare il proprio medium. E contestualizzata, la messa in scena, all'interno de Il cielo su Torino, “progetto attento ai linguaggi del contemporaneo” promosso dallo Stabile di Torino, fa della regia di Lucania l'unico dei cinque spettacoli a parlare un linguaggio attuale.
Per Lucania, questa, sembra essere l'unica via possibile, già tracciata all'interno del Cubo con Schegge, stagione da lui diretta, in cui le tematiche forti e contingenti sono presentate al pubblico come una brezza fresca.
Non solo, ma anche per le sue regie Lucania non si allontana da temi quali denuncia del presente, disvelamento della condizione del singolo, scelta di autori nuovi (L'Uomo pattumiera di Matei Visniec, Schegge 18), uso ed intersezione dei mezzi contemporanei.
Lui come tanti oggi sono 'inghiottiti dalla rete' e vivono nell'auto-reclusione. Unico contatto con il mondo quello virtuale che tra chat, social newtork e giochi online, determina, negli Hikikomori così definiti, la perdita delle competenze sociali e comunicative. Problema sempre più serio che nel 2012, secondo il CNEL, vede l'Italia seconda, dopo il Messico, con una percentuale, nella fascia 25-30 anni, del 28,8% della popolazione totale. Blatte e Hikikomori, TeatroDue 2014, sono due spettacoli che fanno luce sul fenomeno.
Riflessione sulle relazioni, personali ed inter-personali che in Lucania si fa lucida nostalgia. La blatta, metafora del ripugnante e del diverso (che dovrebbe motivare) e insieme della speranza e del ricordo, non basta ad Alex. Privo di comunic-azione si scaricherà come una batteria.
Non commettiamo lo stesso errore di Alex ci dice Lucania. Apriamo la valigetta, compiamolo questo atto di volontà che ci renderà di nuovo umani. Riappropriamoci del nostro libero arbitrio!
gb
approfondimenti
Blatte
Klaus Obermaier
Digital Amplified Video Engine
La tecnologia interviene sugli organi: strati di immagini video vanno a depositarsi direttamente sul corpo del danzatore - quasi come un “innesto” - proiettando membra, occhi e bocche che deformano il corpo ma non lo intaccano. Il corpo diventa così, figura mitologica: metà uomo e metà animale, metà donna e metà uomo, metà uomo e metà macchina. Mutazione come seconda natura, “felice” alienazione dell’uomo nella sfera tecnologica, passaggio indolore ad una nuova realtà, a una nuova artificialità naturale. Il video fa parte del corpo, o meglio, il danzatore fa parte del video.
La difficoltà nell’affrontare spettacoli come D.A.V.E., in cui l’intenzione è quella di riuscire a coniugare la danza performativa con le nuove tecnologie, sta proprio nel riuscire ad ottenere una perfetta integrazione tra le diverse componenti: proiezioni video, danzatore, musica, spettatore. In D.A.V.E i performer sono costretti a reagire in relazione al video, essendo le parti programmate in stretta relazione con la forma dei loro corpi. Per questo la progettazione del software deve seguire dei parametri molto precisi.
La transizione tra i due status, tra immagine e corpo, è fondamentale: una segue l’altra armonicamente, anche se il limite è dato dall’impossibilità di improvvisazione da parte del danzatore. Il movimento del corpo reale diventa un attimo dopo una proiezione video, interrogandosi sull'essere di fronte ad un corpo reale o ad un corpo virtuale.
Vivisector
Il sistema digitale diventa, così, il terzo elemento della performance e ha gli stessi limiti e le stesse potenzialità di una drammaturgia teatrale o di una coreografia.
Le Sacre du Printemps
Grazie a 32 microfoni, l’intera orchestra è integrata nel processo interattivo perché sia i motivi musicali sia le voci individuali e gli strumenti influenzano la forma, il movimento e la complessità sia delle proiezioni 3D dello spazio virtuale sia quelle della danzatrice. La musica non è più solo un punto di partenza ma anche un completamento stesso della coreografia.
Apparition
Lo scopo è di creare un sistema interattivo che fosse qualcosa di più di una semplice estensione del performer, addirittura un suo partner. Tre sono i parametri fondamentali nell’interazione dei danzatori: la vicinanza, la velocità e l’ampiezza del movimento.
www.exile.at
Avventure in Elicottero Prodotti
La sperimentazione fra corpo e macchina, intrapresa da AiEP, si è sviluppata e perfezionata nel corso degli anni. All’inizio si è manifestata con la semplice presenza di video nello spazio dei corpi danzanti.
Exp
Nel 1996, con Exp per la prima volta si sperimenta la danza interattiva, con l’uso del mandala system - realtà virtuale 2D che utilizza la telecamera come dispositivo di input. Affinato in seguito con l’utilizzo della motion capture, modalità che permette mediante sensori applicati al corpo e l’uso di un campo magnetico, la clonazione dei gesti del danzatore.
Dall’uso della motion capture e di altre tecnologie interattive, come la computer-grafica, sono nati spettacoli di grande suggestione, pensiamo a MOV e Cromosonics - che vedevano il corpo, non più nella sua accezione materica, ma in un'accezione amplificata, dilatata.
www.aiep.org
Claire Bardainne e Adrien Mondot
Il loro approccio pone l'umano al centro delle sfide tecnologiche e il corpo al centro delle immagini, con la specificità dello sviluppo su misura dei suoi strumenti informatici, alla ricerca di una vita digitale, mobile, artigianale, effimera e sensibile.
Sette anni sono passati dal loro Cinématique, 2010, un'esplorazione disseminata di insidie immaginarie e poetiche, piccoli piaceri irrisori e esplosioni dell'infanzia, condotta attraverso una partitura digitale suonata dal vivo, mettendo in movimento corpo e oggetti digitali. Il viaggio è un incrocio di materiali virtuali: linee, punti, lettere, oggetti digitali proiettati su superfici piane, tessono spazi che sposano il corpo e il gesto e giungono a rivelare la parte dell'infanzia. E gli strumenti tecnologici consentono la presenza dell'errore, la fragilità la poesia dell'infanzia.
Dopo il grande successo di Cinématique è la volta di Hakanaï nel 2013, e de Le mouvement de l’air nel 2015. Presentate in Italia grazie al RomaEuropa Festival, anche in queste due opere, la magia della performance nasce dall’incontro del corpo con le entità virtuali prodotte dal computer. Un botta e risposta continuo tra materia e luce, peso e leggerezza, sogno e realtà.
Un susseguirsi di paesaggi virtuali composti da elementi naturali, numeri, linee, punti, lettere e figure astratte interagiscono in tempo reale con i corpi di una danzatrice e un giocoliere, grazie ai sofisticati software sviluppati dagli stessi autori. La colonna sonora, anch’essa molto suggestiva, è firmata da Christophe Sartori e Laurent Buisson.
www.am-cb.net
Mourad Merzouki
Il corpo umano, dunque, ancora una volta è posto al centro delle sfide tecnologiche e artistiche, e la tecnologia è utilizzata per creare una poesia senza tempo, attraverso un linguaggio visivo basato sull'interazione e la creatività generata dall’immaginazione.
All’interno di un mondo digitale, fatto di pixel sensibili ai movimenti, i corpi dei danzatori scorrono sulle superfici creando effetti visivi, alternando alle proiezioni astratte, le illusioni ottiche, facendo dello spettacolo il limen tra realtà fisica e virtuale.
Pixel
Proposto per la prima volta in Italia ad inizio del 2015 - progettato dal programmatore informatico Adrien Mondot, dall’artista multidisciplinare, scenografa e designer Claire Bardainne, e le coreografie di Merzouki - Pixel presenta effetti speciali realizzati grazie all’uso di eMotion, un software creato appositamente, in grado di realizzare animazioni grafiche composte da oggetti e di specificare come farli muovere in combinazione con i movimenti fisici dei danzatori.
Basato su un sistema di animazione fisico, eMotion indaga il movimento in rapporto alle emozioni. Si tratta di un editor che consente di definire un universo grafico composto di oggetti a forma di punti, linee, immagini, video, e di stabilire il modo in cui si interagisce con loro attraverso il suono, la parola, un Kinect, un Wiimote.
Tutte le immagini vengono quindi generate, calcolate e proiettate dal vivo, al fine di creare una sintesi sensoriale, una realtà tangibile sul palcoscenico.
www.ccncreteil.com
BILLY COWIE
A Milano, per gli spazi della Fondazione Prada ha ideato un lavoro site-specific che include musiche, proiezioni video e coreografie dal vivo. Intitolato Attraverso i muri di bruma, le installazioni coreografiche coinvolgono undici danzatori neo-diplomati del Corso di Teatrodanza, diretto da Marinella Guatterini, advisor del progetto. Si tratta di sette interventi in totale, all’interno degli spazi della Fondazione - Noche de Quatro Lunas, Retrospettiva, Casa di Nebbia 1, Danza di Paura, BEH!, Herz, Casa di Nebbia 2 - che attraverso l'uso delle tecnologie producono una drammaturgia condivisa con lo spettatore, continuamente partecipe, alla ricerca del proprio senso.
Nel suo libro Anarchic Dance (2006), Cowie scrive: la convenzione dello spazio buio del palcoscenico non è avvertita come piatta solo in termini visivi, ma anche in termini fisici. Una risposta quasi scontata all’onnipresente black box è un lavoro di danza site-specific in cui il coreografo può usare la dimensione verticale – scale, terrazze, salite – e dove una ricchezza di contesti visualmente interessanti può contraddistinguere il suo progetto.
E in effetti, gli spettatori “al posto di essere degli ostaggi passivi, diventano degli esploratori alla ricerca del migliore punto di vista, in perenne movimento con i danzatori, liberi di andarsene quando sono stanchi o di ritornare quando lo desiderano, di essere accompagnati dai propri amici, di conversare con loro”.
www.billycowie.com
wayne mcgregor
Il coreografo si é spesso focalizzato sul rapporto tra tecnologia e movimento: già dal 1998 con uno dei suoi primi spettacoli, Sulphur 16, comincia ad utilizzare figure digitali che si intrecciano ai danzatori sul palcoscenico, mentre in Aeon (2000) inserisce paesaggi computerizzati, suggestionando lo spettatore e conducendolo all’interno della creazione stessa in una sorta di realtà parallela.
Ataxia
Dal 2004, con lo spettacolo Ataxia, McGregor inizia a sviluppare un linguaggio personalissimo e originale caratterizzato dalla fluidità del movimento di un corpo apparentemente privo di ossa e articolazioni, con un ritmo scandito da musica elettronica, passando da Ben Frost, Olafur Arnalds ai Radiohead.
Entity
Sempre dal 2004 il coreografo diventa ricercatore all’Università di Cambridge, nel dipartimento di psicologia sperimentale, focalizzandosi sul rapporto corpo-cervello. Rapporto che viene indagato sempre più tramite lo studio sulla percezione, ripreso da McGregor anche nel 2008 per lo spettacolo Entity, avvalendosi di algoritmi di Intelligenza Artificiale per sviluppare sequenze coreografiche autonome, creando così una connessione tra funzionamento del cervello e schema di ogni passo.
Dyad
Lo studio della cognizione creativa risulta centrale nei lavori di McGregor: per Dyad 1909 (2009), l’intero processo viene mappato da un team di scienziati cognitivi dell’Università di San Diego. Una struttura coreografica senza limiti apparenti, analisi minuziose, ricerche complesse, il corpo come strumento che indaga e viene indagato, traiettorie di movimento, precisione e velocità, tutti elementi che si fondono alla tecnologia e alle nuove avanguardie.
Atomos
In ATOMOS – parola greca per indivisibile (vedi video sopra) – McGregor, a partire dal suo interesse verso la cellula – elemento strutturale, primordiale e vitale di tutti gli esseri viventi – crea un’opera coreografica che indaga la complessità delle strutture, “atomizzando” corpi, movimento, immagini video, audio e luci. L’intenzione è quella di partire dall’unità indivisibile di una coreografia per arrivare al suo sviluppo, considerandola come una struttura vivente, dando vita ad un flusso continuo di energia e tecnica che cattura lo sguardo, la mente, l’udito.
waynemcgregor.com
gb
APPROFONDIMENTI
TECNOLOGIA E DANZA
LOL, 2011
Internet ci da infatti l'illusione di quanto sia facile socializzare, conoscere partner a suon di click, cambiare identità modificando le nostre foto su facebook o cercandone le angolazioni più propizie alla stimolazione del desiderio della nostra preda.
Soliloquy Abaout Wonderland, 2011
Uno schermo gigante che all'occorrenza diventa quinta e volte soglia limite in cui è l'immagine di un automa a parlare con la voce del Grande dittatore di Chaplin, o a creare dei contrasti di luci che simulano dei limen in cui entrare e sperimentare. Le tecnologie montion capture accentuano la carica fiabesca di una storia che si percepisce per metà, ma che si carica di pathos.
Spettacolo che sorprende letteralmente, tanto poco abituati siamo in Italia a messe in scena semplicemente elaborate. Qui l'estro creativo si unisce alle competenze tecniche e il teatro non smette di essere teatrale.
Re-mapping the Body, 2012
L'insieme delle competenze ha dato vita ad un sistema interattivo che crea il suono dal movimento dei ballerini, dotati di piccoli sensori. Un mondo di suoni amplificato dalla complicità del compositore Christophe Calpini.
Make the switch from me, 2014
Un lavoro che trova la sua fonte d'ispirazione nel sistema MOTUS - un potenziatore del movimento creativo. Un sistema wireless di controllo delle prestazioni, che raccoglie i dati sui movimenti del ballerino e li trasforma in gesti e parametri di controllo per sintetizzatori audio ed effetti audio.
Lo spazio intorno al danzatore diventa una superficie senza contatto, una tela con cui il danzatore può interagire e poi ascoltare il feedback sonoro immediatamente.
Temporaeno Tempobeat, 2016
Una performance condivisa, creata ed elaborata in tempo reale, in cui il corpo e la voce sono elementi imprescindibili attraverso cui esprimere una condizione, uno stato intellettivo oltre che fisico. Una scrittura di danza che si barcamena fra il coreutico e il visuale e in cui forte è l'elemento ludico..
gb
APPROFONDIMENTI
TECNOLOGIA E DANZA
HYPERDRAMA
Pubblico che si ritrova oggi, non solo ad attivare i sensi in un eccesso percettivo fra corpi in scena e sullo schermo, suoni dal vivo e campionati, ma anche ad agire direttamente sullo spettacolo, riportando il teatro, con nuovi mezzi e nuovi modi, alla sua irriducibile qualità relazionale.
Andare a teatro o partecipare ad un evento teatrale, rappresenta ancora un appuntamento, anche se a distanza, fra attori e spettatori. Emblematico, il già citato The CIVIL warS: a tree is best measured when it is down di Robert Wilson, kolossal multimediale ideato per le Olimpiadi di Los Angeles del 1984 in cui l’utopia di opera totale si traduceva in una composizione seriale di lirica, danza, cinema, pittura da dilatare in cinque paesi diversi in sintonia temporale, attraverso la diretta televisiva via satellite. Progetto realizzato solo parzialmente, ma decisamente avveniristico per i tempi.
SIMULTANEITA' INTERATTIVA
WEB PERFORMANCE
Il debutto di Hamnet ad esempio è stato bloccato da un temporale che ha interrotto l'accesso online dei produttori. La seconda esibizione, invece, è stata animata da un "bot" che ha ucciso accidentalmente Hamlet a metà della produzione. La tecnica, con cui le opere degli Hamlet Players vengono realizzate, si basa sull'uso del software Internet Relay Chat (irc) e dei link mondiali. Ogni riga dello script completo è numerata in sequenza.Dopo il casting, gli attori ricevono le loro battute via e-mail e non è consentita alcuna prova. Quindi, nessuno, a parte il team di produzione, conosce la sceneggiatura completa finché non si sviluppa sulla rete.
Gli artisti che distribuivano le loro linee tramite tastiera, hanno trovato il modo non solo di suggerire emozioni teatrali, ma di adattare (anche migliorare) le loro linee.
DIGITAL PUPPET THEATRE
Icone grafiche rappresentano non solo Didi e Gogo - Estragone e Vladimiro - ma anche personaggi improbabili come Mister Muscle, che appaiono ogni qual volta entra in chat un nuovo utente. Il pubblico, oltre gli spettatori on line, si formava dagli spettatori reali del festival grazie alle video-proiezioni.
WEBCAM THEATRE | PER UN USO POLITICO
Le oper’azioni di Verde, come scrive Anna Monteverdi in Il Tecnoteatro di Giacomo Verde, sono da sempre variazioni in low tech sul tema della necessità di un uso politico dei mezzi tecnologici. “Nelle opere interattive, afferma Verde, il vero soggetto è il comportamento dei fruitori, e la grafica è solo l’interfaccia necessaria a suggerire i possibili diversi comportamenti di creazione, esplorazione o comunicazione, che sono il vero cuore dell’opera”.
Tematiche sviluppate anche, in Cercando utopie: contagio del 2005. La performance nasce dalla condivisione dell'Etica Hacker per cui l'informazione deve essere a disposizione di tutti e i saperi devono essere condivisi. Ogni replica quindi, era preceduta da momenti di laboratorio in modo da "preparare" alcuni spettatori a diventare i performer. Ognuno di loro diventava così un "replicatore contagiante" della performance, a cui si affidavano le informazioni e i software necessari al contagio.
HACKTIVISM
Punti di riferimento della comunità artistica digitale mondiale, si ispirano per le loro oper’azioni performative al Living theatre e al movimento situazionista. Le loro azioni - sit in virtuali, scioperi della rete - rientrano nell’ambito del cosiddetto hacktivism, etichetta usata per definire pratiche di attivismo, sabotaggio e controinformazione attraverso le nuove tecnologie.
gb
APPROFONDIMENTI
TECNOLOGIA E TEATRO
VERSO GLI 80
Ad esempio Gabriele Lavia e Giorgio Albertazzi hanno l'idea del Teatro come luogo dove nulla è necessario se non l’attore, il testo e gli spettatori, ripudiando qualsiasi uso tecnologico.
L'uso delle tecnologie però, fa parte della storia del teatro e soprattutto della nuova drammaturgia novecentesca, quando al testo teatrale si integrava il linguaggio filmico nella prima metà del secolo, per poi svilupparsi dagli anni Ottanta, con l’uso del video in teatro e poi con la nascita del teatro tecnologico.
Prendendo in esame quest’ultimo, che negli ultimi anni ha avuto un notevole sviluppo, bisogna capire come il multimediale interagisca con il teatro
IBRIDAZIONE
Le varie forme di ibridazione si collocano all’incrocio di due strade diverse: da un lato si può sviluppare la possibilità che lo spettacolo vada a costituirsi come un evento di massa, secondo un percorso già iniziato dal teatro in televisione, in questo modo la divulgazione sarà fatta ad un pubblico vasto ed indistinto.
Dall’altra parte, alcuni esperimenti ricercano la qualità e individuano un limitato gruppo di spettatori con i quali relazionarsi.
Nel primo caso si corre il rischio che l’opera teatrale trasferita in altro contesto, inevitabilmente modifichi il proprio linguaggio.
Esiste già un teatro per il video che ha costruito nel tempo un proprio stile, per esempio le produzioni RAI delle commedie di Edoardo De Filippo e guardandole sappiamo di trovarci di fronte ad un rifacimento per il nuovo mezzo, ma tutto ciò appartiene all’ambito della traduzione e della trasposizione (anche multimediale), riguarda la possibilità di documentare, riprodurre, commercializzare un evento.
gb
APPROFONDIMENTI
TECNOLOGIA E TEATRO
Riferimento per gli scenografi virtuali contemporanei, le sue opere rivelano più la funzione interpretativa che decorativa della scenografia. In Svoboda, il senso narrativo coincide con il senso della percezione spaziale, anticipando il significato che dovrebbe avere oggi il real time (modalità di realizzazione di un prodotto in diretta senza la necessità di post-produzione o finalizzazione).
Il set di Svoboda evolve in sequenze di configurazioni che seguono il ritmo delle emozioni utilizzando mezzi flessibili per la creazione di prospettive multiple. In sostanza, il teatro all’italiana (set live costituito da pavimento, soffitto, portale, palcoscenico e platea), che determina lo spazio drammatico e ne definisce i limiti, viene integrato con il set virtuale, definibile con punto di vista, prospettiva, spazio dell’immagine e dell’immaginario. Alla struttura architettonica teatrale, Svoboda, unisce l’immagine virtuale che esplora con materiali che esprimono “il dentro dello spazio”: superfici speculari, proiezioni e televisioni a circuito chiuso, uso creativo della pellicola e della luce.
COMPLETEZZA
Svoboda, attraverso le sue opere anticipa molte delle cose ancora visibili nei teatri contemporanei, affermando che non rinnovarsi, e non mettersi in discussione, fa si che la scena sia statica e senza alcun valore aggiunto anche se farcita di immagini, videoproiezioni e filmati in movimento.
TRIDIMENSIONALITA'
Non solo fondale e proiezioni su schermo che rievocano un passato di scenografie dipinte, ma l’inserimento dell’immagine virtuale in Svoboda, segue una progettazione di strutture sceniche concepite tridimensionalmente per ricevere l’immagine e superare la proiezione bidimensionale. Una nuova concezione scenografica di realtà virtuale (VR) che fonde spazio reale (set live), pixel (proiezione), attore fisico per la creazione dell’ambiente virtuale (set virtuale).
POLYéCRAN
Il pubblico percepisce le immagini globalmente in una sorta di pre-realtà virtuale con immagini filmiche fisse e mobili inviate da sette proiettori cinematografici e otto per diapositive, gestite da un sistema tecnico di circuito memorizzante che comanda tutte le funzioni dello spettacolo in sincronia con il suono.
MULTIVISIONE
“Lo scopo, afferma Svoboda ne I segreti dello spazio teatrale, era di creare immagini intere, ma nello stesso tempo di disintegrare la superficie di proiezione ricomponendola poi in un modo diverso e rendendo evidente anche il rilievo”.
gb
APPROFONDIMENTI
TECNOLOGIA E TEATRO
VIDEO PROMO
Caratterizzato da elementi musicali e visionarietà post-moderna, la fortuna del videoclip è stata possibile grazie al progresso della computer grafhic. Negli anni Ottanta non è difficile sorprendere intrecci fra queste forme videoartistiche, soprattutto quando alcuni coreografi vengono coinvolti nella realizzazione di videomusicali e di spot pubblicitari.
Si tratta, come scrive Elisa Vaccarino, in La Musa dello schermo freddo, di “un cortocircuito di creatività, che passa agilmente da un settore all'altro.” E la genesi di questo coinvolgimento, può essere rintracciata nel recupero, da parte delle generazioni degli anni Settanta e Ottanta, della dimensione del corpo in movimento.
Fenomeno ben testimoniato dall'ondata di musical o film incentrati sul tema della danza di quegl'anni, pensiamo a Saturday night fever, a Grease, ancora Footloose, Due vite, una svolta, e All that jazz.
COREOGRAFARE LE STELLE
O a coreografi come Daniel Ezralow, che ha creato coreografie per video musicali di U2, Pat Metheny, Andrea Bocelli, Ricky Martin, Josh Groban e Faith Hill. Ha curato, inoltre, le coreografie del The Glass Spider Tour di David Bowie, e le azioni danzate di They dance alone di Sting.
Ancora, Prilippe Decouflé che ha collaborato con i New Order in True Faith del 1987, o alle sue produzioni video, short format, che in quegli anni gettavano le basi per il un gusto che oggi caratterizza le sue creazioni. Caramba del 1986, ad esempio, o Codex del 1987, e il capolavoro Le p'tit bal del 1994.
E per l'accuratezza e la grande qualità dei video, bisogna ricordare, un'altra autrice francese, Régine Chopinot, e i suoi “corti”, fra i più importanti, Le defilé 1986 e Kok del 1988.
IN ITALIA
Vale la pena ricordare alcuni gruppi di artisti, come Magazzini Tiezzi e Lombardi, Falso movimento di Mario Martone, il collettivo Studio Azzurro nel periodo di collaborazione con Giorgio Barbiero Corsetti, che in quel decennio cominciano a lavorare sul concetto di enviroment producendo ibridazioni artistico-comunicative che trasmigrano da un linguaggio all'altro e si basano sull'interazione fra performer e scena tecnologica, tra corpo reale e tecnologie del suono e dell'immagine.
gb
Approfondimenti
TECNOLOGIA E DANZA
R. Per me Il patto col diavolo di oggi non si discosta da quello di sempre: fermare il corso degli eventi, il naturale divenire delle cose. Ma sono manovre che rimangono in superficie da qualche parte nel profondo la vita continua, il corpo si trasforma. Forse oggi più che mai si è tentati dall'apparenza, da essere ciò che non si può o non si riesce ad essere. L’istantaneità del web stuzzica il desiderio di onnipotenza e onnipresenza.
D. Marina Abramovich (The artist is present, Impoderabilia). Cosa condividi con la grande artista e perché citi proprio quelle performance?
R. Marina Abramovich nella semplicità di uno sguardo mette a nudo ogni individuo o meglio lo sollecita a confrontarsi con uno specchio. Credo che questo sia il punto comune. nella visione di Matteo Stocco e del sottoscritto. Faust è il pubblico, confrontato con differenti livelli di conoscenza nel multiforme abisso del web. Nella mia personale interpretazione il mistero più oscuro che nasconde anche verità scomode, è l’animo umano. Se di conoscenza si
parla nel Faust, questo è il livello più profondo e scomodo. Ecco perché il confronto con gli artisti della performance è cosi ravvicinato e a volte estremo e per certi aspetti rimanda all’intensa, poetica e feroce performance della Abramovich, anche se gli intenti e la struttura sono distanti..
R. Credo che la quotidianità, nasconda un universo di stimoli per la creazione coreografica, e questa non è una novità, però in questo caso si è partiti dalla stilizzazione di certi comportamenti per poi deformare, trasfigurare il gesto quotidiano stilizzato in altro, per vederne aspetti indicibili, per mostrare sfaccettature diverse di una stessa condizione psicofisica. Abbiamo cominciato con delle improvvisazioni sui diversi capitoli del progetto da cui sono scaturiti una serie di temi di movimento assemblati con il materiale raccolto. Su quei temi i danzatori hanno poi sviluppato diverse frasi, modulando e adattando la gestualità secondo le esigenze e lo spirito del momento. Faust è uno spettacolo che si rigenera di volta in volta a seconda del pubblico che si ha di fronte e non è mai uguale a se stesso. Ho lasciato molto più libera la struttura coreografica perché il pubblico è il protagonista e cambia sempre. La scelta ha privilegiato movimenti o atteggiamenti che potessero essere evocativi e allo stesso tempo facilmente trasformabili in altro.
R. Il pianto appartiene all’unica figura positiva della perfomance: una sorta di Margherita. anche se non abbiamo voluto definire propriamente i personaggi. Margherita riesce a provare com–passione, a commuoversi, è pura cosi come la danzatrice che piange scrutando volti da cui traspare comunque una verità di cui forse non sono a conoscenza nemmeno loro. La donna in bianco è un personaggio salvifico che accompagna Faust pur nel dolore e nella privazione, e ne è la salvatrice.
D. L'uomo nudo scaraventato per terra. Quale senso profondo nasconde questa provocazione?
R. In realtà più che una provocazione è il modo di sottolineare l’ultima verità nel percorso della conoscenza proibita: Dopo l’illusione di onnipotenza, la menzogna dell’apparenza, il corpo nudo e crudo trova il suo spazio e ci riporta alla verità della sua corruttibilità. Nulla si può contro il tempo e, la macchina, che sembrerebbe lo strumento infallibile per conoscere e perpetuarsi all’infinito, si ritorce contro l’uomo implodendo. Lascia una verità amara quella del corpo inerte che non può mentire a se stesso ma che può trovare una sorta di speranza accanto alla positività di “Margherita” anima che eleva oltre ogni apparenza.
D. L'installazione di Matteo Stocco, fra i mille volti e la spersonalizzazione dell'essere umano, amplifica il senso che l'uomo è, o sta diventando, una merce da consumare?
R. Diciamo che attraverso il web, che per altro permette straordinarie possibilità di conoscenza, comunicazione e contatti, dilaga la voracità del voyerismo, la ricerca, spasmodica a volte, di osservare e scrutare sempre nuovi casi umani, e dilaga anche la produzione di storie e casi umani ideati per essere cannibalizzati e soddisfare il desiderio di cui sopra. Forse questa è la merce da consumare di cui l’uomo è il protagonista e che nascosto dietro l’anonimato può cannibalizzare senza giudizio, senza colpa. Rimane solo un’apparente normalità che rende tutto più facile nel modo dei like e ci solleva da qualsiasi responsabilità morale o meno.
gb
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TECNOLOGIA E DANZA
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Giovanni Bertuccio
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