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6/9/2018

 
Foto
Girolamo Lucania, attore e regista
D.  Le scorse stagioni del Cubo, le scelte fatte con gli argomenti trattati, fino ad arrivare ad oggi con L'uomo pattumiera e Blatte, ad un occhio attento, si fanno portavoce di un interessante punto di vista. Forse l'unico che fa del teatro ancora un rito collettivo. Gli spettacoli - rivedendo le recensioni fatte - denunciano, fanno luce sulle ombre, vogliono fare chiarezza sull'uomo d'oggi. Insomma dicono - perché è necessario per gli artisti e per chi li sceglie, dirlo - qualcosa di nuovo sul contingente. Il tuo scopo del teatro è chiaro, come altrettanto chiaro sembra lo sguardo con cui guardi l'uomo d'oggi. Cosa ha perso questa generazione umana che, secondo le tue due opere, vive in uno stato di inedia aberrante?


R.
Intanto, grazie per la definizione del nostro teatro come "rito collettivo". E' proprio da qui che vorrei partire. La prima cosa che ha perso la nostra generazione è il senso della comunità, dello stare insieme. In generale si è perso il rapporto con l'altro e alcuni principi che riguardano soprattutto la solidarietà. Non ne voglio fare una critica, cerco di riportare ciò che osservo. L'esigenza del mio teatro nasce dall'esperienza. Da bambino mi ricordo che ci riunivamo tutti sotto il focolare ad ascoltare le storie che raccontava mia nonna, e ciascuno portava un suo racconto, un aneddoto, qualcosa.

Questo stare insieme a televisione spenta oggi non esiste. Ma lo cerco costantemente nelle nostre opere, e nei lavori che scegliamo. Oggi  viviamo al limitare di una solitudine corporea e visiva che sta ridefinendo la socialità umana. Mancando un'idea comune di stare insieme, un progetto collettivo, attorno a noi imperversa la violenza verbale, l'ignoranza, e l'orgoglio dell'ignoranza, e il senso frustrante dell'eterno. Credo, e perdonami la generalizzazione, che la nostra generazione di 30/40enni viva un difficile distacco dall'adolescenza, e dunque sia inadeguata all'insegnamento e all'educazione.

​Per questo le nuovissime generazioni non faranno altro che alimentare l'annientamento della comunità reale, a favore di una comunità virtuale o violenta dove tutto è più semplice, ma egocentrico. Il teatro dunque può tornare a farsi comunità, ricercando linguaggi e ricreando forti legami fra spettatori e attori, e fra gli spettatori stessi. 

D. Officina V.  Il focus di Parsec su Matei Visniec. Perchè proprio lui?

​
R. Conobbi Visniec quando iniziai a fare teatro, circa 10 anni fa. Il primo testo che vidi in scena fu proprio il Teatro Decomposto, o L'Uomo pattumiera. Quindi tutto parte da un amore per la sua opera e per il teatro dell'est europa in genere. Ciò che mi colpì in particolare furono due cose. La prima, è il suo sguardo: la visione che un cittadino rumeno della dittatura comunista di Ceausescu aveva dell'Occidente. La sua riflessione, una volta a Parigi, fu: la vostra libertà, il vostro privilegio, produce solitudine. Un paradosso, ma lucidissimo. La seconda cosa, è il linguaggio scelto per raccontare questa visione: la decomposizione del teatro, e quella piccola indicazione iniziale: prova a ricomporre ciò che si è rotto. Visniec ossia cercava di stimolare il recupero della comunità attraverso i cocci di uno specchio. In generale poi, Visniec è un autore di grande intelligenza e ironia. La nostra intenzione è senz'altro quella di esplorare ancora l'autore il prossimo anno con un testo nuovo per l'Italia che si ricollega al tema che abbiamo esplorato in Blatte.
​
D. Ponticelli | L'incontro con la grafic novel e la volontà di portarlo in scena.

​
R. L'idea di prendere spunto dal fumetto di Alberto, Blatta, fu di uno dei nostri attori, Stefano Accomo, che in quel momento stava lavorando con una casa di produzione cinematografica - la Grey Ladder che stava ipotizzando una trasposizione cinematografica di questo fumetto. Quando lo lessi, vidi subito fra quelle pagine la possibilità di lavorare su un tema che mi appassionava dalla fine degli anni '90. All'epoca amavo i fumetti giapponesi, e la cultura nipponica, e così incontrai per la prima volta la parola Hikikomori. Il fenomeno mi colpì tantissimo, e mi ripromisi prima o poi di metterlo in scena. Non sapevo perché né come - all'epoca ero un adolescente che voleva fare l'ingegnere! Quando ho letto Blatta, ho capito che era giunto il momento. Quindi parlando con Alberto e con Michelangelo (Zeno, l'autore del testo), abbiamo deciso di raccontare una storia parallela al fumetto, ambientata nel passato rispetto alla graphic novel, e in un presente distopico. Poi, l'idea di incrociarlo con l'Amleto scespiriano e la sua riscrittura, l'Hamletmachine di Heiner Muller. 
​
​​
D. Crossmedialità | Come mantenersi legati alla tradizione attualizzando, realmente, il linguaggio teatrale?

​
R.
Credo che oggi la crossmedialità sia parte del linguaggio. Non possiamo fare finta che il teatro resti legato alla tradizione. O meglio, il teatro di tradizione è necessario. Il teatro d'innovazione, o comunque il teatro contemporaneo, deve fare i conti con la realtà. Oggi viviamo in un universo di stimoli, di segnali, di dottrine, di valori mis-creduti, di nuove identità possibili. Allora il teatro deve domandarsi come interagire con il presente. Non è fondamentale a mio avviso che il teatro sia incubatore di crossmedialità. Anzi. A esempio, l'Uomo Pattumiera prevede proprio il contrario, ovvero annullare la tecnologia e far comunicare gli spettatori attraverso lo sguardo e l'immaginazione. Però è fondamentale che la crossmedialità sia parte del linguaggio. Ovvero, che l'uso dello strumento tecnologico o dei nuovi media, sia parte fondamentale del linguaggio: banalmente, la presenza della tecnologia deve raccontare qualcosa di per sé, e non essere un mero strumento estetico. In linea di principio la crossmedialità deve essere figlia di un'idea. 
​

D. Hikikomori e nichilismo. Quale può essere il motivo se una grande percentuale di giovani, come Alex, preferisce vivere, nella società odierna, una vita virtuale e non una reale?

​
R.
Domanda complessa, difficile rispondere in poche righe. Carla Ricci, una studiosa del fenomeno che vive a Tokio, descrive gli Hikikomori come "corpi sovversivi", "inconsapevoli". Ossia, attuatori di una rivoluzione di cui non si rendono conto. La pressione sociale che vivono le nuove generazioni, la perdita totale di punti di riferimento, unita a una libertà pressoché assoluta e allo stesso tempo alle infinite possibilità del mondo virtuale, creano di fatto un grande senso di inadeguatezza.

Ascoltando un'intervista a un Hikikomori, alla domanda "che cosa provi quando sei per strada?", "Paura", "Ti fanno paura gli altri? Le persone che incroci?", "No. Ho paura di non riuscire a diventare come loro". Ecco: credo che le nuove generazioni vivano un processo di crescita in cui non si sentono parte di nulla, non fanno parte di alcun progetto. Quindi il rischio di annichilimento culturale e sociale diventa sempre più forte.

​Ma c'è da dire che la storia dell'uomo parla di continue rinascite. Siamo di fronte a un processo socio-culturale di grandi proporzioni. Nel presente sono intuibili centinaia di possibili futuri distopici, tanto che - a mio avviso - si può parlare di presente distopico.


D. Blatte | All'interno della storia, l'insetto assume vari significati quante sono le metafore di cui è portatore. Quale, secondo te, il significato con le valenze più forti?


R. E' verissimo, alla Blatta abbiamo dedicato un moltitudine di segni, tant'è che è invisibile allo spettatore, e se ne sente solo l'audio. Una voce distorta, come se arrivasse da un cavo mangiucchiato, con frequenze disturbate. La voce del nostro insetto l'abbiamo resa così per significare il mondo tecnologico, quel sottile mondo che permea nelle nostre vite e che ci condiziona, a tal punto da pensare - talvolta - che le persone che vediamo in video, i personaggi di un videogioco, siano reali interlocutori. Ma la Blatta ha altri significati, e soprattutto, per me, rappresenta l'altrove. Quell'altrove a cui si tende sempre, ma per il quale si ha paura di partire, proprio perché intangibile, non ci sono strumenti, e si resta soli. La Blatta è la solitudine, la noia, il buio nel quale la voglia di vivere soffoca. 


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