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QUEER E ARTE                                                        PRIMO NOVECENTO                                                  ART CHEZ LES FOUS

1/3/2022

 
Foto
Adolphe Julien Fouéré | Rothéneuf, 1910


​L'INTERESSE DEI MEDICI

Non poche collezioni, a partire dalla fine del XIX secolo, hanno raccolto le produzioni plastiche e letterarie degli alienati. La psichiatria era una disciplina ancora giovane, e l'arte dei folli suscitava l'interesse dei medici.

Marcel Réja, ad esempio, pubblicò L'art chez les fous. L'intento del libro, come è chiaramente indicato nell'introduzione, è quello di studiare un'“arte” specifica, o, più precisamente, un'infanzia dell'arte, per riuscire a illuminare i meccanismi del genio. A tale scopo l'autore esamina anche i “disegni dei bambini e dei primitivi”, ne rileva le differenze e constata che hanno in comune un certo “disprezzo” della realtà: non mirano a “evocare le forme in sé, ma solamente la loro idea”.


​HANS PRINZHON

​Hans Prinzhorn, che lavorava presso la clinica universitaria di Heidelberg, scrisse un testo dal titolo Espressioni della follia pubblicato nel 1922. Prinzhorn apprezzava l'arte del suo tempo e incoraggiava i malati a esprimere sé stessi mediante la pittura e la scultura. Dalle sue analisi emersero temi comuni:
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E' assai proficuo rilevare i tratti comuni alla sensibilità artistica contemporanea. Constatiamo infatti che l'avversione a un'idea semplicistica del mondo, un disconoscimento sistematico delle apparenze esteriori alle quali l'arte occidentale era rimasta da sempre fedele, in definitiva un deciso ritorno all'Io, sono i tratti fondamentali della nuova ricerca artistica. Ebbene, tali termini ci sono stati resi familiari grazie agli sforzi dello schizofrenico per descrivere il suo sentimento del mondo.


​ARTE E FOLLIA

​Il libro e i lavori di Prinzhorn testimoniano sia una approccio nuovo alla creatività, destinato a propiziare sia una maggiore comprensione dell'arte moderna, sia un mutato atteggiamento nei confronti della follia. Ne seguirono mostre, attentamente visitate dagli artisti, in particolare gli espressionisti tedeschi. E ne seguì un maggiore interesse per l'arte dei malati di mente.

Artisti e poeti hanno sempre manifestato, dunque, interesse per le opere prodotte da una creatività sregolata, ma nessuno è mai sembrato preoccuparsi della loro conservazione. Possiamo vedere ancora oggi i disegni spiritici di Victor Hugo o le figure scolpite nel granito dall'abate Adolphe-Julien Fourè sulla scogliera di Rothéneuf perché molto resistenti, ma la maggior parte delle opere marginali è scomparsa. Le collezioni psichiatriche, in questo senso, hanno avuto un ruolo determinante.


​DUBUFFET E L'ART BRUT

​Jean Dubuffet ne visitò parecchie quando pensava di scrivere un'opera sulle creazioni degli irregolari. Dopodiché il suo progetto iniziale si modificò. E il pittore decise di farsi promotore di una collezione che consentisse la conservazione e lo studio dell'art brut, che egli definì questi termini:

Noi intendiamo con ciò opere eseguite da persone prive di cultura artistica, nelle quali il mimetismo, contrariamente a quanto accade negli intellettuali, ha dunque scarsa o nessuna importanza, dal momento che i loro autori attingono tutto quanto (soggetti, scelta dei materiali adoperati, mezzi di trasposizione, ritmi, modelli di scrittura, ecc.) dal fondo di se stessi e non dagli stereotipi dell'arte classica o dell'arte alla moda. Noi assistiamo qui all'atto artistico assolutamente puro, bruto, reinventato dall'autore nella totalità delle sue fasi, muovendo unicamente dai propri impulsi. Arte, dunque, dove si manifesta la sola funzione dell'invenzione e non quella, costante nell'arte colta, del camaleonte e della scimmia.

L'arte accademica, in quanto tecnica, veniva messa al bando. Si favorivano al contrario, quei gesti artistici scaturiti da nessuna mediazione, dove erano gli impulsi ad essere il motore scatenante, divenendone cosi sia il punto da cui si originava certa arte, sia il significante dell'arte stessa. Si parte dagli istinti per spiegarli e conoscerli.
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Fonti

1 M. Réja, L'art chez les fous (1907), Z' éditions, Nice 1994
2 H. Prinzhorn, Expressions de la folie (1922), Gallimard, Paris 1984
3 Cfr. D. Riout, in Riferimenti e modelli, in L'arte del Ventesimo secolo. Protagonisti, temi, correnti, Einaudi, Torino 2002
4 J. Dubuffet, L'art brut préféré aux arts culturels (1949), in L'homme du commun, Museum of Fine Arts, Montreal, 1970


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ApprofondiMENTI
QUEER E ARTE


QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | ART BRUT
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QUEER E ARTE                                                      PRIMO NOVECENTO                                                ART BRUT

1/3/2022

 
Foto
Adolf Wolfli | Musicisti, 1913


​ACCOGLIERE LA VITA   

​La riflessione sul brutto si sviluppa quando il concetto di bello e la sua definizione vengono messe in discussione e al brutto è riconosciuto un “significato estetico”. Si rivendica, dunque, la positività di determinati valori che fanno capo al brutto acquisendo lentamente una propria autonomia, fino ad essere inserito a pieno titolo in un sistema pluricategoriale.

In effetti dopo il Romanticismo - a cavallo fra Ottocento e Novecento – l'arte non può più venire equiparata all'inestetico o all'extra estetico (vedi Il brutto e le avanguardie). Come ricorda Dessoir “nella violenta rottura delle norme di ogni grandevolezza e di ogni superficiale appagamento formale si svela “un regno che non è di questo mondo”. Il brutto prende il significato di “espressivo”, come positivo valore estetico, contro un bello che nell'armonia delle sue forme e nell'equilibrio dell'apparenza, si fa superficiale conciliazione e non permette di guardare in faccia alle cose”.

Il brutto diventa, per usare un'espressione di Feldman, “una vera struttura del mondo” e l'arte che non fa consistere la propria dignità nella cesura o nella neutralizzazione del brutto o del negativo in generale, recupera la propria vitalità proprio attraverso un confronto costante e proficuo con le tematiche del deforme, del mostruoso e della caricatura.


​IL BRUTTO ESTETICO

Non l'esorcizzazione del brutto, ma una sua attenta analisi mette in discussione i limiti e il significato dell'arte e il ruolo del bello. A partire dal Romanticismo l'arte ha ricercato una molteplicità di strade possibili in una continua messa in discussione del proprio statuto. Dunque l'oggetto artistico si vanifica perdendo la propria identità categoriale e il suo ordine antico. All'interno dei suoi eterogenei sviluppi, l'arte accoglie la vita, ma nello stesso tempo disgrega fino a invadere campi che non le appartengono. Anche i contenuti perdono il loro riferimento a valori universali e rimandano l'arte nella causalità del quotidiano, nella soggettività delle singole passioni ed emozioni.

Per questo, concettualmente, all'interno dell'Art Brut rientrano un variegato gruppo di opere, espressioni di propri, autonomi, criteri estetici, e non è possibile paragonare l'Art Brut a un movimento o a una corrente artistica. Il creatore d'Art Brut, per definizione marginale e autodidatta, elabora una sintassi tematica, iconografica, stilistica e tecnica, che testimonia una peculiare inventiva e uno spirito indipendente.


​ESTETIZZARE L'OSCURITà

​Lavora in solitudine e nell'anonimato, come se stesse compilando le pagine di un personale diario intimo. Idealmente ignora l'esistenza di un potenziale destinatario ed è totalmente svincolato dall'aspettativa di un riconoscimento sociale. Non è neppure consapevole di operare nel contesto della creazione e la sua produzione si compie al di fuori di un qualsiasi ambito istituzionale. Potremmo dire che il suo operare non è mediato, se pur non totalmente, dalla cultura.

Proprio questa assenza di informazioni permette loro di sperimentare tutte le potenzialità espressive del proprio processo creativo. La creazione, nell'Art Brut, raggiunge la sua massima intensità generando un'“esteriorizzazione dei moti d'umore più intimi e più profondi dell'artista”. L'indagine rivolta all'essenza “degli strati più nascosti” della personalità, impegna Wolfli o Jeanne Tripier a confrontarsi con le sfere più oscure dello stato selvaggio e della violenza.


DEVIANZA E ROTTURA

​Descritti come autori o persone, le produzioni di Art brut sono qualificate come opere o come lavori. Questo vocabolario si differenzia, volutamente, dalla terminologia tradizionale che mette in primo piano i maitre (maestri) e i loro chefs-d'oeuvres (capolavori).

I principali protagonisti dell'Art Brut saranno Adolf Wolfli, Heinrich Anton Muller e Aloise e le loro opere costituiranno il nucleo fondamentale delle collezioni di Dubuffet. L'eclettismo che caratterizza tali collezioni dimostra quanto le “direttive” dell'Art Brut non fossero ancora definite. Inizialmente le sue scelte riflettono ancora i gusti e gli interessi degli intellettuali dell'avanguardia europea. Tuttavia è già possibile scorgervi una chiara predilezione per le creazioni di carattere deviante ed estranee alle norme dettate dalla tradizione estetica occidentale.

L'
Art Brut precedeva, dunque, il concetto stesso e la sua definizione e la nascita della nozione fu postuma all'esistenza delle opere. Questo duplice paradosso era intrinsecamente legato al particolare concetto dell'Art Brut e, in sostanza, costituì il primo segno di una rottura nell'ambito culturale occidentale.


ART BRUT OGGI

Adolf Wolfli, Aloise o Podestà, ci informa Lucienne Peyri, non rappresentano soltanto le loro biografie o le loro memorie, anche se lavorano in uno stato di assoluto ripiegamento su se stessi. Essi danno anche prova di un vero superamento e di una sublimazione della loro personalità, realizzando una produzione tutta visionaria.

Per questo, continua Peyri a proposito della Art Brut di oggi: “La crociata che aveva condannato tutta l'arte moderna e contemporanea a favore dell'Art Brut non avrebbe più senso oggi. La tendenza dualistica e ieratica, che considerava la prima come espressione di una creazione intellettuale e sofisticata e la seconda come espressione della purezza emozionale e primitività naturale, non si rivela soltanto non pertinente, ma totalmente sbagliata. Le produzioni dell'Art Brut sono certamente cariche di emozione ma scaturiscono anche da una elaborato sistema espressivo.”

L'autore di Art Brut, oggi, si situa dunque a mille miglia dall'innocenza e dall'inesperienza che si ricercavano alle origini del movimento. Il suo impegno personale – spesso le opere vengono realizzate nel corso di molti anni – così come il suo spirito contestatario, umoristico, che sfocia nella parodia, ne sono una prova evidente. Infatti le opere di Hofer, Mets o Santoro si rivolgono allo sguardo dello spettatore stimolandolo tanto sul piano emozionale quanto su quello intellettuale.
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Fonti

1 Cfr. E. Franzini, M. Mazzacoult-Mis, in Brutto. Un valore estetico positivo, 2010
2 M. Dessoir, Estetica e scienza dell'arte, L. Pennecchi, G. Scaramuzza, Unicopli, Milano 1986
3 V. Feldman, Estetica francese contemporanea, a c. e trad. it. di D.Formaggio, Minuziano, Milano 1945
4 K. Rosenkraz, Estetica del brutto, Aesthetica, Palermo 2004, p. 36; si veda anche T.W. Adorno, Teoria estetica, a cura di G. Adorno e R. Tiedemann, trd. it. di E. De Angeli, Einaudi, Torino 1981
5 L. Peiry, in L'art brut, in Arte, genio Follia. Il giorno e la notte dell'artista, catalogo della mostra (31 gennaio-25 maggio), Mazzota, Siena, 2009
6 J. Dubuffet, Honneur aux valeurs sauvants, in Prospectus et tous écrits suivants, 1967
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1/3/2022

 
Foto
Günter Brus, Peter Weibel, Otto Muehl e Oswald Wiener | Kunst und Revolution, 1968


​REAGIRE AL MONDO

​Nel secondo Novecento, il corpo acquista sempre più potere all'interno del sistema dell'arte, divenendo mezzo - di denuncia - e fine insieme, con la comprensione di aspetti che la ragione, nel corso dei secoli, ha trattato come immonde, non appartenenti, cioè, al mondo che razionalmente aveva creato. Non si guarda più al mondo ma, adesso, si reagisce al suo contatto.

L'arte ha avuto a lungo per emblema l'occhio e il suo potere, dopo le guerre non è più la vista, il più intellettuale dei sensi, e appagarla non è nelle preoccupazioni degli artisti. Sarebbe la nausea a renderli lucidi e nella loro arte importante sarà il disapprendimento di quel disgusto pazientemente inculcato.

Se la lontananza dalla società era la caratteristica principale dell'Art brut, l'arte del corpo si proietta totalmente verso l'esterno. Il suo bersaglio diviene la società con i suoi finti valori, falsi profeti e infiniti tabù, facendo dell'arte il mezzo privilegiato per un ritorno all'ordine.


ARTE COME FETICCIO  

​Nell'arte del dopo guerra, il concetto di riti di passaggio formulato da Gennep, Lévi-Strauss e Turner è stato il punto di partenza di elaborazioni teoriche riguardanti la cultura e l'arte. Per riti di passaggio in etnologia si intendono gli adempimenti rituali con i quali si tenta di controllare e sostenere fasi di cambiamento rilevanti nell'ambito individuale e collettivo. Si parla di una fase di separazione, di una fase intermedia e infine di una fase di integrazione nella quale viene raggiunta un'identità nuova. E così nel processo creativo, all'inizio di un'opera artistica c'è spesso la dimostrazione, la trasvalutazione radicale dei valori, e, di conseguenza, un gesto grazie al quale si apre una nuova via.

Nel corso degli anni Sessanta le posizioni degli Aktionisten presentano strutture simili. Nei primi anni gli artisti si liberano di un concetto di arte tradizionale sentito come vuoto, e in una fase intermedia sperimentano la costruzione di un vocabolario performativo. Alla superficie figurativa gli Aktionisten muovevano la critica di essere un feticcio artistico a fondamento di una cultura della rappresentazione rigorosamente canonizzata.


SPERIMENTAZIONE

​E nel caso dei protagonisti viennesi questa dinamica prese avvio con la critica all'informale e al tachisme europei, e nel caso della scuola di New York, con un'estrema prosecuzione dell'action painting di Pollock.

Analogamente al gruppo giapponese Gutai,
anche ai Wiener Aktionisten riesce di ampliare, in modi espressivo-strutturali e rapportati al corpo, l'astrazione gestuale di Pollock (che già andava al di là della superficie figurativa), inserendola in uno spazio performativo, modificando il concetto di arte.

Questo mutamento di paradigma, dall'immagine all'azione corporea, tra il 1963 e il 1967 osserva una fase sperimentale di sviluppo di testi-immagine e forme d'azione individuale. Soprattutto in questo periodo, lo “sguardo chirurgico” dell'obbiettivo fotografico - come osservò Walter Benjamin -  fu impiegato come mezzo di controllo nello sviluppo delle strutture dei differenti linguaggi artistici. La cosiddetta “fotografia inscenata del Wiener Aktionismus” condusse ad affascinanti invenzioni figurative che ancora oggi influenzano le icone del dialogo tra arte figurativa, performance e fotografia.


​AGITAZIONE

​​Attorno al 1966, superata la fase sperimentale, gli artisti erano pronti per un ulteriore coinvolgimento pubblico e dopo la partecipazione al Destruction in Art Festival di Londra, tra il 1967 e i primi anni Settanta, aprirono la fase agitatoria, inserendosi come parte radicale all'interno del movimento del Sessantotto.

Muovendo da questa rivolta, al principio degli anni Settanta gli Aktionisten danno forma definitiva a posizioni del tutto originali. In questa fase, conclusiva e di integrazione, attorno al 1970, gli artisti raggiungono posizioni pienamente mature e un concetto di arte intensamente ampliato con fondamento performativo.

A partire da Fuoco Fatuo, Gunter Brus si muove in uno spazio soggettivo le cui forme dinamiche sono improntate al dialogo testo-immagine. Nelle cosiddette Bilddichtungen (Poesie-immagini), progetta ambientazioni drammatiche all'interno di un fantasmagorico spazio concettuale individuale, in cui la sua fantasia si effonde nel linguaggio e nell'immagine con illimitata libertà. Hermann Nitsch amplia in passi concentrici la sua opera d'arte totale costituita dal Teatro di Orge e Misteri in una, come egli la definisce, Festa esistenziale della durata di sei giorni. E Otto Muehl, il “mago della risata tragica”, inizia con un'opera figurativa, edonisticamente straripante, la cui involontaria libertà formale può essere rieseguita soprattutto sullo sfondo della già citata società alternativa della Aktions-Analystische Kommune (Comunità di analisi dell'azione) da lui elaborata.


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Fonti
1 H. Klocker, Wiener Aktionismus, Wien, 1960-1971, in Genio e follia, 2009
2 Cfr. D. Riout, in Ai confini con il teatro, 2002

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QUEER E ARTE                                                        NOVECENTO                                                          DUBUFFET E LE SORTI DELL'ART BRUT

1/3/2022

 
Foto
J. Dubuffet | Paolo Monti, Italia 1960


​CREAZIONI MARGINALI E CLANDESTINE

A partire dal 1945, l'artista francese Jean Dubuffet (1902-1985) è interessato ad un tipo di creazione anonima, senza una denominazione precisa e per la quale, ancora, non aveva trovato una definizione. Sarà nel luglio dello stesso anno, nel corso dei suoi viaggi fra Francia e Svizzera, che Dubuffet codificherà le sue ricerche coniando il termine Art Brut. 
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Rientrato dalla Svizzera, Dubuffet abbozza un primo testo teorico: “Disegni, dipinti, opere d'arte di ogni tipo, create da tenebrose personalità, da maniaci, scaturite da impulsi spontanei, animate dalla fantasia o dal delirio, ed estranee alle regole dell'arte ufficiale”. Dubuffet descrive dettagliatamente questa specifica tematica: “Opere d'arte come dipinti, disegni, statue e statuette, oggetti di natura diversi e in nessun modo legate (o il meno possibile) all'imitazione delle opere d'arte che si possono incontrare nei musei, nei saloons e nelle gallerie. Opere che, al contrario, si appellano a una originaria materia umana e a un'invenzione il più possibile spontanea e personale”.

Il suo compito sarà quello di nominare, raccogliere, esporre e descrivere la specificità di questo tipo di creazione marginale e clandestina.


​SOTTRAZIONE E RICERCA

Dall'Art Brut Dubuffet escluderà l'arte primitiva, l'arte popolare, l'arte naïve, così come l'arte infantile. Parimenti gli autori provenienti da una formazione accademica e tradizionale, preferendo opere nate in clandestinità, in situazioni di esclusione e di censura. Per questo, in un primo tempo, l'ambito principale nel quale Dubuffet troverà i suoi reperti sarà l'ospedale psichiatrico.

All'inizio del XX secolo l'internamento si configura come una sorta di sequestro. L'isolamento, la promiscuità, l'inoperosità e l'esclusione, accentuati dall'oppressione e dalla disperazione, provocano in alcuni pazienti una condizione favorevole allo sviluppo dell'immaginario. 

Dubuffet resta stupito difronte alle straordinarie creazioni di Aloise e Wolfli accorgendosi di come collimassero perfettamente con le sue ricerche. Tuttavia, Dubuffet non limita il suo campo di indagine agli ambienti psichiatrici e non considera la malattia mentale come unico criterio. Oltre alle opere nate negli ospedali psichiatrici, Dubuffet inizia a raccogliere anche opere appartenenti alla sfera dell'arte popolare, reperti etnici provenienti dall'Oceania, dipinti creati da autodidatti, disegni di bambini e tatuaggi.


​FOYER DELL'ART BRUT

​Inaugurato nel 1947 a Parigi, negli scantinati della Galerie René Drouin, il Foyer dell'Art Brut presenta le figure reali e principesche dei disegni di Aloise, i silex intagliati di Juva e i bassorilievi scolpiti in liège di Gironella. Nel clima artistico di quegli anni, una mostra di questo tipo era destinata inevitabilmente a creare nello spettatore uno scompiglio visivo ed emozionale. Le opere presentate nel Foyer avevano tutte un carattere sovversivo.

Un anno più tardi, 1948, venne fondata a Parigi la compagnia dell'Art Brut. Essa riuniva sei membri, tra i quali André Breton 
e Jean Paulhan. Dopo dieci mesi negli scantinati della Galerie Drouin, il Foyer venne trasferito in un piccolo padiglione situato nel cuore di Parigi e messo gentilmente a disposizione dall'editore Gaston Gallimard.


Le prime manifestazioni si svolgono in un clima di riservatezza e clandestinità, regola che viene infranta dalla Compagnia già nel 1949, quando una grande mostra di Art Brut, viene organizzata in place Vendome, nel centro di Parigi, presso la Galerie René Drouin, mettendo in evidenza le prime contraddizioni. L'esposizione incontra un notevole successo, attirando artisti, scrittori, editori, etnologi e critici come Jean Cocteau, Claude Lévi-Strauss, Johannes Itten, Pierre Matisse, Tristan Tzara, Joan Mirò e Francis Ponge. Dubuffet, scriverà per il catalogo della mostra un testo che ne diventerà il manifesto: L'art brut préféré aux arts culturels e ne assumerà la direzione.


ESILIO E RITORNO

Con gli anni, tuttavia, il fervore andò scemando. Le ricerche rallentarono e le acquisizioni divennero meno numerose. Il Foyer perse la sua vitalità e la Compagnia sciolta nel 1951. 

Alfonso Ossorio, un pittore amico di Dubuffet, gli propone di trasferire la collezione nella sua residenza, The Creeks, nei pressi di New York. Dubuffet accetta e l'Art Brut andrà dieci anni in esilio.


Nel 1962, undici anni dopo il suo scioglimento, la Compagnia dell'Art brut rinasce a Parigi, ancora una volta per opera di Dubuffet che acquista un Grand Hotel a Parigi per trasformarlo nella nuova sede dell'Art Brut.
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Come nel periodo della prima Compagnia decide di porre le produzioni sotto l'egida della riservatezza, al fine di preservarle da ogni sorta di corruzione. Le opere vengono create in stato selvaggio o di rivolta, in carcere, in una mansarda di periferia o in un fienile, e i creatori hanno in comune un'origine spesso modesta o un'istruzione assai rudimentale. Si tratta perlopiù di manovali, postini, fioristi, parrucchieri, conducenti di tram o minatori.


Ognuno di loro patisce una cesura nel proprio percorso esistenziale. Carlo Zinelli per l'esperienza della guerra, Aloise e Laure Pigeon per fine di una relazione amorosa, Magde Gill per morte di un figlio, Eugenio Santoro e Giovanni Battista Podestà per un'emigrazione imposta. Un destino troppo pesante che li ha trasformati in persone intimamente esiliate.


​LOSANNA | MUSEALIZZAZIONE

​Nel 1972 dopo varie vicissitudini, la collezione dell'Art brut fu trasferita a Losanna, dove, per la sua tutela e conservazione venne acquisito e trasformato in museo, un palazzo del XVIII secolo. Le opere che vengono realizzate all'interno di questa corrente - perché di fatto non costituisce un movimento – vengono raggruppate obbedendo a precisi schemi culturali, vi si scorge, cioè, il segno di una creatività che si manifesta a dispetto dell'esclusione sociale di cui soffrono i loro autori. 
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La nozione di “art brut” si fonda dunque sullo statuto personale del creatore e non sui criteri stilistici delle sue opere – come accade per l'arte naïve, ad esempio. Viene applicata alle arti plastiche ma, comportando spesso la mescolanza dei generi, coinvolge anche altri settori, in particolare quello della scrittura. E non sono mancate altre denominazioni per qualificare meglio questo subcontinente della creazione. Michel Thévoz, direttore del museo, vedeva nell'Art brut, e potremmo dire potenzialmente in tutta l'arte contemporanea, la possibilità di una liberazione che abolirebbe i modelli di pensiero consolidatisi in Occidente. A tal proposito cosi si esprimeva:


E' possibile che, sulle macerie della cultura, rinasca una creatività artistica nuova, orfana, popolare, estranea a ogni circuito istituzionale e a ogni definizione sociale, deliberatamente anarchica, intensa, effimera, affrancata da qualsiasi presunzione di genio personale, prestigio, specializzazione, appartenenza o esclusione, distinzione tra produzione e consumo. Sarebbe il crollo di modelli, radicalmente irrispettoso e di conseguenza creativo, capace di realizzare l'utopia del “Prospectus aux amateurs de tout genere”.
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Fonti

1 J. Dubuffet, Lettera a Charles Ladame, Parigi, 9 agosto 1945
2 J. Dubuffet, Prospectus et tous écrits suivant, Gallimard, Paris, 1967
3 L. Peiry, L'avventura dell'art brut: dalla clandestinità alla consacrazione, 2009
4 J. Dubuffet, L'art brut préféré aux arts culturels, 1970
5 ​M. Thévoz, L'art brut, Skira-Flammarion, Ginévre 1980

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    Giovanni Bertuccio

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Magazine d'Arte e Cultura
​Teatro e Danza. Queer

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Direttore Giovanni Bertuccio
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