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QUEER | INCHIESTA                            GRANDAQUEER CUNEO                                          SIMONE BALOCCO                                            INTERVISTA

4/9/2018

 
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Simone Balocco in posa per i social a favore del DDL ZAN
​D. C'è differenza, secondo te, fra l'uso della tecnologia fra provincia e città?
​


R. Penso che non ci sia alcuna differenza. Molte volte l’uso di applicazioni o siti d’incontri vengano usati per creare una selezione iniziale. Esempio, un gay scarica grindr e non badoo perchè su grindr sa che tutti sono gay o bisex o suoi simili, si sente accettato insomma. Da trentenne posso dire che una volta era più difficile conoscere persone omosessuali, bisognava andare in discoteca o in un locale gay freendly. Oggi, purtroppo, con l’arrivo delle chat si è facilitato il percorso conoscitivo ma si è perso un po' quel senso di conquista e ricerca. Per non parlare del fatto che la comunità gay di provincia è la più pettegola: sanno con chi sei andato a letto chi frequenti e cosa fai. Informazioni che, poi, vengono usate per metterti in buona o cattiva luce. Anche nelle grandi città non aiuta molto, rischia di creare tanti piccoli "branchi" di persone senza portare ad una reale apertura. Spesso è proprio il contrario.


D. Le chat, i siti di annunci, le community hanno realmente aiutato nel fare coming out?
​


R. Dipende da cosa intendiamo per coming out. Se le persone vogliono rivelarsi a sé stesse acquistando in consapevolezza, consiglierei siti specifici come Arcigay e/o community. Se intendiamo invece, coming out come dichiararsi agli altri, direi che le community hanno aiutato un po', le chat non molto poiché, come detto prima, il rischio è la creazione di gruppi chiusi. Molti ventenni che ho conosciuto in chat, erano agguerriti virtualmente ma nella realtà mostravano molti più pregiudizi e paura di molti etero. Le community, credo siano più istruttive, dando la possibilità di leggere esperienze di vita vissuta e aiutando a non ripetere errori già fatti in passato. Non prendo in considerazione i siti di annunci, dal momento che non credo bisogna "prendere il pezzo migliore al prezzo più basso". Sui siti, purtroppo la maggior parte cerca solo sesso o lo sfogo di fantasie sessuali che abitualmente non farebbe con il/la proprio/a compagno/a.
​

D. Noti delle differenze d'approccio nell'intendersi queer fra la tua e le generazioni a cui parli?

​
​

R. Se prendiamo il termine queer nel vero senso della parola ovvero “strano” “eccentrico” non trovo differenze tra le generazioni. Se ci pensiamo, siamo tutti queer poiché dopo anni e anni di stereotipi e pregiudizi siamo stufi di esser categorizzati e catalogati. Oggi il termine queer viene usato un po' per tutto. A volte, il termine viene usato come uno schermo quando omofobia, bifobia e transfobia sono così interiorizzati che il singolo non si vuole esporre neanche con sé stesso. Oppure viene usato per un fattore di fluidità di genere e orientamento sessuale per chi - come detto prima - non ha voglia di appartenere a delle categorie o a gruppi da cui non si sente rappresentato. L’unica differenza che trovo non si limita ad un un termine o ad una espressione di genere, ma, sta nella voglia di affermarsi in qualcosa che ci appartiene e che ci rappresenta interamente. nei primi anni del 2000 si aveva voglia di far parte di qualcosa di importante, di creare un cambiamento e mettersi in gioco. I giovani d’oggi a mio giudizio non hanno più l’ambizione di imporre un cambiamento, quindi usano termini come queer per sentirsi parte di un qualcosa di non ben definito, per non esporsi troppo ma neanche nascondersi.


D. I social stanno producendo un'immagine di noi altra, iper-reale. Come poni la questione nelle scuole?


R. Purtroppo i social producono un’immagine iper-reale su tutto. Dovrebbero esser usati per il loro vero scopo: migliorare la "socialità" e la condivisione delle storie di vita. A me sembra invece che si faccia la gara a chi è più bella/o, a chi "ce l’ha più grosso", con l'effetto di creare ulteriori immagini e alimentando così un circolo vizioso. Agli studenti dico sempre che Facebook, i social, e tutto il contorno delle piattaforme sono canali fittizi, qualunquisti e al 70% inutili. Se uno vuole la "realtà" e la concretezza delle cose ad oggi ha la possibilità di cercarla tra associazioni, biblioteche e Wikipedia. Se sei curioso non ricorrere ai social, cerca qualcuno che possa rispondere alle tue domande. I social vanno trattati come tali. Ma la colpa non è tutta dei social, poiché molte volte è la comunità LGBT che vuol esser "iper-reale". Per fare un esempio, Mario Mieli che  negli 80 andava vestito da donna fuori dai cancelli delle fabbriche. la nascita dei movimenti LGBT durante gli anni 80 era di per sè iper-reale, ma le conquiste ci danno possibilità di essere altro. Noi LGBT possiamo essere "reali", "iper-reali", forse troppo reali, ma siamo qui e useremo soprattutto i social per fare capire che esistiamo come tutti.


D. Ti sembra corretto supporre che in provincia vige ancora l'idea, ma nella mente dell'omosessuale stesso, di essere parte di una minoranza e quindi autodiscriminarsi (nascondersi, vergognarsi, e non vivere una sana sessualità)?

​
R. Assolutamente Sì. Mi allaccio alla domanda di prima: l’omofobia interiorizzata è una delle piaghe più grandi per la comunità. Purtroppo nella provincia si ha ancora molta paura di "cosa possono dire”, dello “sparlare”.In provincia il problema più grande è apparire al meglio agli occhi dei concittadini e rispecchiare il ruolo di genere che fa comodo alla "cittadina". Arcigay da una possibilità di tutela, che non viene sfruttata perché il partecipare alle iniziative di Arcigay è visto come un outing, tralasciando il fatto che in queste realtà ci sono molti etero. Una cosa che io odio è il vittimismo: se sei gay e abiti ad esempio a Mondovì, e non riesci ad esser te stesso al 100%, ma non fai nulla per cambiare, allora in fondo la tua condizione ti fa anche comodo. A Torino e Milano la situazione è uguale seppur meno visibile, perché se un gay si nasconde altrettanti cento usciranno allo scoperto. Il bello è che le associazioni del territorio conquistano diritti per tutti, anche per chi si nasconde. Uscite dal guscio, vivete la vostra vita! ne avete una sola e solo quella, per quanti anni volete ancora vedervi passare la vita davanti? Per chi o cosa vi nascondete? Ricordatevi che vi nascondete perché amate - ripeto, AMATE una persona; cosa c’è di così spaventoso, aberrante e ghettizzante?


D. Il web. Dalla tua esperienza i confini fra etero e gay sono così netti? Secondo me più che differenza è parallelismo quando potrebbe esserci unione, ora non mi ricordo una pubblicità negli 80 dove c’erano uomini che pubblicizzavano l’asse da stiro, abbiamo dovuto aspettare 30 anni per farlo? E poi cosa fa un etero che un gay non può fare?


R. Più che confini si creano delle piccole “battaglie” sempre per la prevaricazione l’uno dell’altro. Diciamo pure che noi gay abbiamo aiutato gli etero a migliorarsi, o meglio l'uomo gay ha aiutato gli uomini etero ad emanciparsi. Tutti quei confini dei vecchi tempi oggi non ci sono più. Aiamo tutti abitanti liberi e felici, basta non pestarci i piedi.

gb 
​



​ApprofondiMENTI
QUEER FRA CENTRO E PERFERIA


GRANDAQUEER CUNEO INTERVISTA AD ELISABETTA SOLAZZI
ARCIGAYTORINO INTERVISTA A FRANCESCA PUOPOLO
ARCIGAYTORINO | INTERVISTA A RICCARDO ZUCARO
QUEER | RICONOSCERSI OLTRE I PROPRI "FILTRI" di DAVIDE MONETTO

QUEER | INCHIESTA                                              RICONOSCERSI OLTRE I PROPRI "FILTRI"                DAVIDE MONETTO

4/9/2018

 
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“QUEER STREET. Wrong. Improper. Contrary to one’s wish. It is queer street, a cant phrase, to signify that it is wrong or different to our wishes”
​
Parte della nostra vita è decisa da passi codificati dalla società in cui viviamo: la scuola, il lavoro, le relazioni famigliari sono tutti ambienti entro cui le nostre esperienze sedimentano andando a formare i mattoni della nostra identità. Siamo parte di un processo di accumulazione di cui pensiamo di essere il centro ma di cui siamo soltanto una parte fra tante altre che ci condizionano. Ci illudiamo di essere i protagonisti di una vita interiore che col tempo si arricchisce in complessità, che si ramifica silenziosamente, formando e modificando col tempo il nostro modo di pensare.

​Via via cambiano le forme di un futuro che percepiamo inavvicinabile ma che vezzeggiamo e desideriamo. Credo che la giovinezza consista nel farci plasmare da una serie di esperienze che, mentre ci passano attraverso, riponiamo disordinatamente, quasi sovrappensiero, oltre una porta chiusa. In una stanza via via più ampia che, una volta abitata, costituirà la vita adulta, il momento in cui il futuro immaginato diventerà un presente vissuto. Per molte persone questa rivoluzione avviene a cavallo dei trent’anni. 
Io, come molti miei amici, sono esposto a ciò che la mia individualità mi pone di fronte, e all’ansia che provo rendendomi conto di quanto io sia lontano da un me stesso che inevitabilmente avevo idealizzato. Perché questa età è quella del disorientamento, della frustrazione. Arrivati a cavallo dei fatidici trenta, ci rendiamo conto che siamo cambiati noi ed è cambiato il nostro punto di vista.

​Ci ritroviamo fra le mani esperienze che avevamo filtrato attraverso l’aspettativa del ricordo che ne avremmo avuto, o dell’utilità che ci è stato suggerito potessero avere. Prima o poi, volente o nolente, voluto o temuto questo futuro si avvicina, e noi ci disponiamo finalmente a prenderne possesso. Varchiamo quella porta che avevamo chiusa e percorriamo a tentoni i confini di questo luogo caotico. Cerchiamo di organizzare ciò che ci è utile e riponiamo quello che può essere messo da parte, scoprendo che non siamo in grado di farlo.
Ci sentiamo diversi rispetto alla persona che, da giovani, pensavamo di essere. Ci sentiamo privati del nostro potere su noi stessi. Viviamo con sofferenza lo scollamento fra ciò che è diventata la nostra vita e le aspettative su noi, imposte dalla società e dalla cultura che ne è l’immaginario. Viviamo urgenze, desideri, sensi di colpa “altri” rispetto a noi. Siamo abitati, in ogni fase della nostra vita, da attori con cui interagiamo senza che la loro presenza ci sia palese.

Ci scopriamo in una realtà sospesa, vischiosa; una nebbia in cui molte energie girano a vuoto e si disperdono. Il presente è privato di prospettive: il futuro immaginario che prima popolavamo di sogni e progetti è desertico. Al contempo scopriamo una vita interiore molto più affollata e caotica di quanto potessimo mai aspettarci. C’è un popolo sotterraneo che si muove e mormora sotto ciò che ci illudevamo di essere.

​Ci vediamo finalmente come delle goffe creature piene di malfunzionamenti; strani mostri: Queers. Scegliere per noi la nostra identità implica il ragionare sulla distanza fra ciò che realmente ci rende felici e i modi di vivere messi a disposizione dal mondo in cui viviamo.


​TEORIA VS PRASSI

I miei coetanei, almeno quelli con cui parlo, raccontano di una lenta transizione di fase, in cui diventano spettatori giudicanti del proprio presente e del proprio passato. Difficile riuscire a passarne attraverso senza rimanerne almeno in parte disorientati o peggio traumatizzati.

Molti si ritrovano di fronte ad un presente cresciuto in forme e direzioni inaspettate. Si aspettavano che, gettando radici sulle cose che più sentivamo proprie, crescesse e si irrobustisse un presente stabile. Fatto di un lavoro, una serie di passioni, una vita di relazione, magari di famiglia.

La maggior parte dei trentenni oggi si ritrova invischiata nella sterpaglia, persa
in una macchia dura e ostile, o assiste impotente al lento avvizzirsi di un presente tanto agognato, ma che non viene nutrito a sufficienza.

Davide Monetto 
​



​APPROFONDIMENTI
QUEER FRA CENTRO E PERIFERIA


QUEER | TORINO | ALICE ARDUINO | INTERVISTA DI DAVIDE MONETTO
QUEER | TORINO | FRANCESCA PUOPOLO | INTERVISTA DI DAVIDE MONETTO
QUEER | TORINO | MONETTO COMMENTA ZUCARO
QUEER | TORINO | RICCARDO ZUCARO | INTERVISTA

QUEER | INCHIESTA                                            CASA ARCOBALENO TORINO                                      MONETTO COMMENTA ZUCARO

4/9/2018

 
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Casa Arcobaleno, Logo
Riccardo Zucaro oltre ad essere vicepresidente di Arcigay Torino cura l'ufficio stampa di Casa Arcobaleno, un "polo integrato di servizi alla comunità" che al momento raccoglie in sé 18 associazioni. È costantemente immerso in una serie di progetti che differiscono per forma, argomento, concezione, e destinazione d'uso. Questa mole di impegni e informazioni viene amministrata in parallelo ad un lavoro e a una vita di relazione: un sacco di carne al fuoco per un giovane uomo di trent'anni.

Le parole che più emergono dalle sue risposte sono "servizio", "alternative", "diritti". L'attenzione si concentra su tutte le possibilità di crescita personale e di incontro che vengono fornite agli interlocutori delle associazioni. L'idea stessa di Queer, così come la categorizzazione delle persone LGBT, sono viste come strumento per la crescita sociale e psicologica, e in definitiva per realizzazione di sé in una società con consuetudini rigide e fisse..

In qualche maniera la parte umana e personale, dunque la fatica che una vita da attivista comporta, rimangono nascoste dietro le iniziative descritte in questa breve intervista. Per fare tutto questo ci devono essere motivazioni forti.

​L'impressione che emerge nell'ascoltarlo è che Riccardo sia cresciuto, come persona oltre che come attivista, all'interno di questo ambiente, e che lo abbia scelto per conoscersi e per scegliere le parti di sé da coltivare. In un certo senso Casa Arcobaleno è Arcigay Torino "Ottavio Mai" sono emanazioni dirette della sua vita personale e della sua crescita.
​
​Eppure questa volontà di accogliere e fornire servizi non rischia di raccogliere fruitori, e non persone con una mente autonoma, o ancora non parti attive di un rinnovamento sociale? Lo scopo dell'associazionismo, oltre all'ottenimento di diritti e al miglioramento delle condizioni di vita di determinate categorie, è di formazione, raccolta e potenziamento di una visione di comunità, alternativa a quella fornita dalla società.

​Casa Arcobaleno e i volontari che la formano si impegnano a distribuire queste alternative sotto forma di servizi, ma quanto di questo lavoro è percepito dalla comunità? Quanto essa è umanamente partecipe delle vite che si strutturato sotto il tetto di casa Arcobaleno?

Il fattore umano è la chiave per superare i muri che la società oppone all'emancipazione delle persone. La partecipazione emotiva, al di qua di qualsiasi categorizzazione, è il motore che da la spinta ai progetti, soprattutto ai più grandi. Muovere da Movere, ovvero trasformare, e commuovere. 

Davide Monetto 
​



APPROFONDIMENTI
QUEER FRA CENTRO E PERIFERIA

​

QUEER | TORINO | INTERVISTA A RICCARDO ZUCARO
QUEER | TORINO | INTERVISTA A FRANCESCA PUOPOLO
QUEER | TORINO | INTERVISTA AD ALICE ARDUINO
QUEER | RICONOSCERSI OLTRE I PROPRI "FILTRI" di DAVIDE MONETTO

QUEER | INCHIESTA                                                  ARCIGAY TORINO                                              FRANCESCA PUOPOLO                                         

4/9/2018

 
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Corpus Dominae - Il Corpo della Signora | Shooting, 2016
​D. Quanto la tua arte ti ha portato ad esplorarti? O è la volontà di esplorarti e conoscerti che ti ha condotto alla drammaturgia e al teatro?

​
R. Non credo di avere avuto scelta. A partire dalla prima infanzia tutto ciò che costituiva il “dialogo interiore”, quell'insieme di suggestioni, impressioni, immagini, decodificazioni della realtà si costituiva in volontà di esplorazione di me e dell'Altro da me. Alle elementari la lettura ad alta voce era per me un momento in cui tutto ciò che percepivo del mondo finalmente si traduceva in messaggio; recitavo le poesie a memoria con tale coinvolgimento che l'insegnante spesso commentava con un “il teatro è la tua strada”. La scrittura per la scena è venuta da sé, con la necessità di esprimere un messaggio, più che per volontà di narrazione.
​
D. In "Pupeide - Bettina balla il Boogie" il protagonista condensa e realizza in Bettina la sua spinta vitale, anche carnale e sessuale. Nella società odierna le persone sentono il bisogno di identificarsi in categorie. Seppur con retroterra opposti ci si affida in entrambi i casi ad un "personaggio", una caratteristica presa e resa altra da sè per esplorarsi e viversi più apertamente. Che significato ha per te, come artista e come persona sensibile alle tematiche queer, l'uso del personaggio e il rapporto con esso?


R. Il personaggio per me è il medium. Il fine scenico, nel mio lavoro, non è mai una narrazione fine a se stessa (sempre che una qualsivoglia narrazione possa esserlo), ma un canale portatore di uno o più messaggi. A volte, il medium, il tramite, è il messaggio stesso.

​In “Pupeide”, Bruno/Bettina è un carattere ispirato ad una persona che è esistita, un ragazzo dell'entroterra siciliano arrivato a Torino giovanissimo, in cerca di fortuna. Bruno è morto nel 1979, io sono nata nel 1980, ma la sua voce è arrivata al mio orecchio oltre il tempo e lo spazio, e un grande senso di appartenenza mi ha legata a lui, da subito. L'ho percepito sempre presente, come se utilizzasse la mia scrittura per tornare nel mondo. Alla fine degli anni Settanta, ricono
scersi come omosessuali e vivere con orgoglio non era certamente scontato, data la cultura eteronormata e machista che tanto affligeva ed affligge la società occidentale.

Attrave
rso la costruzione del carattere, cerco di esprimere la necessità di guardare all'Altro da noi come ad un universo da esplorare: mi piace pensare che dovrebbe essere la meraviglia a guidarci nell'apprendimento emotivo e cognitivo, come accade nella prima infanzia. Purtroppo viviamo in un sistema che esprime in se stesso la necessità di omologazione, rifiutando tutto ciò che propaga la propria unicità rivendicandola come tale. Ripeto spesso che siamo tutt* pezzi unici, con una radice comune. Sguardi multidirezionali appartenenti allo stesso occhio.

La società è intrappolata nel simulacro di un'unica visione, di uno sguardo monodirezionale: nelle mie drammaturgie denuncio la pericolosità della Norma e la necessità di superarla, di rivendicare una libertà di esistenza e di espressione.

D. In molte delle tue produzioni si descrive qualcosa che che non ha definizione e sta oltre le parole. IL non luogo, la realtà proteiforme- come il "letto di sotto" ne "corpus dominae - il corpo della signora" si realizza nei corpi e nelle maschere. Questa ineffabilità si concentra soprattutto nella carnalità per te? Cosa c'è nel rapporto con il corpo, e per te con la tua corporeità, di così profondo e difficile da imbrigliare?


R. Vivo nella trascendenza, con tutte le difficoltà del caso. Il corpo è un medium splendido, quasi un manifesto di per sé, che però subisce spesso mortificazioni a causa della non aderenza agli standard comuni. Ognun* di noi ha una percezione interiorizzata del proprio corpo, che a volte si scontra con la percezione che l'esterno, l'Altro da noi, ha dello stesso.

Mettere il proprio corpo al servizio della scena costringe l'attore a lasciare da parte se stesso: il corpo scenico non è più una tua proprietà, è qualcosa di inafFer
rabile, che si esprime nell'istante e che può mutare lungo il percorso, arrivando anche ad avere una propria “identità separata”. La mia corporeità, l'espressione del mio corpo scenico è per me un momento di arte assoluta: divento il mezzo del mezzo stesso, a volte trovandomi a scoprire e percorrere vie di espressione corporea non convenzionali, avulse anche alle regole teatrali – per questo a volte diventa inafferrabile. Anche la carne può essere trascendente.



D. Osceno ha molte etimologie; oltre che o-skene, ovvero al di fuori della norma, anche ob cœnium: proprio del fango, della melma. Streghe, prostitute, omosessuali in un epoca in cui vi era solo condanna. Tutte figure di esclusi oltre che (o in quanto?) portatori di umanità. Quanto della tua ricerca  -  umana  e  artistica  -  parla  di  scoperta  e  messa  a  nudo,  e  quanto  di  accettazione  e riconciliazione? Quanto questi aspetti sono legati fra di loro e a te?

​
R. Moltissimo. L'archetipo della Strega, per esempio, è l'espressione queer per eccellenza: donne che rivendicavano la propria unicità e che hanno rifiutato  il  controllo,  oppure  donne  sapienti, vere e proprie esperte di erboristeria medica, epurate da una società in cui la logica di profitto ed il controllo dei corpi erano priorità assoluta. Streghe,  prostitute e persone LGBTQIA+ sono state perseguitate,  torturate  ed  uccise  perchè  esprimevano qualcosa  che  si  discostava  dalla Norma; è così ancora oggi, purtroppo.

Ma chi ha deciso che l'autodeterminazione debba avere un prezzo? La  mia ricerca verte sicuramente sulla scoperta e sulla messa a nudo, ma non sull'accettazione: accettare qualcosa presuppone uno standard di partenza con cui fare un confronto, per poi decidere se il soggetto è “all'altezza” dell'esame. No, grazie. Forse sono un'idealista, ma realmente perseguo l'obiettivo di una società in cui ci sia sana curiosità e sete di conoscenza dell'Altro, costituzione collettiva di voci e di corpi difformi, anime libere.


D. Il teatro, privato della dimensione dell'intrattenimento, al di fuori della scena, diventa momento di condivisione quasi sacrale, in cui il pubblico diventa da spettatore a parte integrante di ciò che avviene. IL discorso queer può liberarsi della parte normativa e di rivendicazione? Dove ci porterebbe? Cosa vuol dire essere queer per te, come persona oltre che come artista?
​


R. Nel momento in cui il pubblico si riconosce in ciò che accade in scena, il messaggio è giunto a destinazione. Credo che le questioni queer si esprimano proprio nell'unicità di chi ne rivendica gli aspetti ed I messaggi : se ancora oggi qualcun* si sente minacciat* dalla mia unicità (data l'espressione del mio orientamento sessuale, della mia identità di genere, del mio ruolo o dalla mia espressione di genere, oltre che da tutti gli aspetti che compongono la personalità) e crede di avere il diritto di prescrivere ciò che dovrei o non dovrei fare, allora nel rito collettivo si libera, almeno  per  qualche  istante,  l'antidoto:  l'annullamento  della  paura. 

Il  teatro  è  nell'Altrove  che tutt* neghiamo, sempre più inscritt* in una collettività legata all' apparenza.    Attraverso il teatro, l'essere  umano  riacquista  il  senso  del  sacro,  e  si  libera  dal  timore.  Purtroppo,  poi  torna  alla quotidianità e ricade nella paura, vittima di quella “ratio a tutti I costi” che ci ha privat* di ogni aspetto di accompagnamento – e quindi di elaborazione – dei riti di passaggio (nascita, morte, etc.).     

​Per me essere queer significa esprimere, nell'arte e nella vita, il diritto all'unicità, senza che per questo qualcun* si senta minacciat*. Potremmo vivere realmente liber*, ma il controllo della cosiddetta “società civile” richiede ancora che si rivendichino I diritti umani, oltre che civili, fondamentali – e lo dico con amarezza.
​

D. Come  riesci  a  conciliare  il  tuo  percorso  con  la  presidenza  di  una  grande  associazione  come arcigay  Torino  "ottavio  mai",  che  con  casa  Arcobaleno  si  declina  in  servizi  forniti  ai  cittadini? Quanto  le  persone  sono  sensibili  al  tema  della  scoperta  della  propria  individualità,  e  quanto cercano semplice rassicurazione?


R. Beh,  diciamo  che  devo  organizzarmi  con  molta  precisione!  Casa  Arcobaleno  è  un  progetto voluto  da  Arcigay  Torino  proprio  nell'ottica  di  creare  qualcosa  di  nuovo,  di  sperimentare  un melting  pot  tra  realtà  eterogenee.  Arcigay  è  un'associazione  con  una  storia  alle  spalle,  ma  il lavoro  del comitato   non   si   esaurisce   nei   servizi   forniti   ai  cittadini.   

La   creazione   e l'organizzazione di eventi culturali, ad esempio, è parte integrante del percorso del comitato di Torino; il lavoro delle volontarie e dei volontari dei diversi gruppi spazia dalla gestione di eventi all'offerta  di  servizi  come  lo  sportello  Accoglienza,  che  fornisce  ascolto  e  supporto,  oltre  al sostegno  per  le  persone  richiedenti  asilo  politico;  il  gruppo  Giovani  è  molto  partecipato  e organizza  attività  di  formazione  e  aggregazione  tese  all'inclusività  e  alle  buone  pratiche; il Gruppo Scuole e Formazione porta le testimonianze delle ragazze e dei ragazzi che ne fanno parte   nelle scuole   superiori   di   Torino   e   Provincia,   in   un'ottica   di lotta costante   alle discriminazioni (tutte) e al bullismo omotransfobico.

E così tutti I gruppi tematici che costituiscono  il  corpus del  comitato. Il  mio percorso  prosegue  in  parallelo,  spesso  ho  potuto mettere a disposizione la mia professionalità in percorsi culturali, anche grazie alla squadra che lavora alacremente affinché l'associazione cresca giorno dopo giorno. Abbiamo un obiettivo comune,  che  si  traduce  nella  creazione  di una reale  inclusività e un di un buon accompagnamento alla scoperta della propria individualità e condivisione delle alterità.

Davide Monetto 
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APPROFONDIMENTI

QUEER FRA CENTRO E PERIFERIA


QUEER | ALICE ARDUINO | INTERVISTA DI DAVIDE MONETTO
ARCIGAY TORINO | INTERVISTA A RICCARDO ZUCARO
GRANDAQUEER CUNEO | SIMONE BALOCCO
GRANDAQUEER CUNEO | INTERVISTA A ELISABETTA SOLAZZI

QUEER | INCHIESTA                                                  ARCIGAY TORINO                                            RICCARDO ZUCARO                                    INTERVISTA

4/9/2018

 
Foto
Riccardo Zuccaro fotografato da Alice Arduino per "Celebrate Yourself" nel 2018
D. Associarsi oggi, con internet e le global community, quale significato assume?


R. Sottoscrivere la tessera di una associazione porta con se alcune responsabilità: da una parte, si sposano le lotte e le rivendicazioni mosse dalla realtà associativa, che possono andare in varie direzioni; dall’altra, si sostiene un progetto di cittadinanza attiva che produce i suoi frutti attraverso i servizi, gratuiti, messi a disposizione della cittadinanza.

Nello specifico, con la tessera di Arcigay si sostengono servizi curati da volontarie e volontari che mettono a disposizione la loro professionalità nell’ascolto empatico per fornire sostegno a chi chiede aiuto per affrontare questioni legate all’orientamento sessuale, alle identità di genere, alla consulenza psicologica e legale, al sostegno di fasce di popolazione migrante che chiedono asilo politico, a giovani che cercano un luogo frequentato da pari per confrontarsi e crescere.

​Inoltre, quel ritaglio di plastica colorata, che a prima vista può essere privo di significato, porta con sé il lavoro di decine di volontarie e volontari che si spendono quotidianamente nell’ideazione di momenti aggregativi, formativi e culturali, nella rivendicazione della visibilità, dei diritti che ci spettano per essere tutte e tutti uguali davanti alla legge, con l’ònere di consegnare un bagaglio di conoscenze ed esperienze nell’incontro con l’altra persona. Quindi, nonostante una buona parte della comunicazione finalizzata alla conoscenza reciproca sia passata su canali informatici, l’incontro vis-à-vis detiene ancora l’energia che genera movimento e, quindi, socializzazione e creazione di senso di gruppo.
​
​
D. Che tipo di utenza ha CasArcobaleno?


​R
. CasArcobaleno è un polo integrato di servizi di interesse pubblico rivolti alla popolazione LGBTQI* e di servizi diretti alla popolazione cittadina tutta. Nasce in un quartiere di costanti conflitti e dialoghi, di incontri e necessità, Porta Palazzo, e cerca di rispondere ad alcune esigenze della città e della sua popolazione LGBTQI*.

Si tratta di un luogo di sovrapposizioni e contaminazioni, dove hanno sede molte associazioni e gruppi della variegata galassia LGBTQI* e non; è un luogo di cittadinanza attiva che vive l’incontro come apertura a nuove dinamiche e punti di vista, in modo che le battaglie per i diritti siano davvero di tutte e tutti, fuori dai confini ristretti e ghettizzanti dei limiti costruiti dalle proprie mission.

CasArcobaleno è, dunque, una crisi cercata, positiva; è, soprattutto, una casa, un luogo pubblico e privato abitato da molte associazioni in base al momento scelto per visitarlo. Al momento aderiscono al progetto 18 associazioni, quindi il tipo di utenza varia in base al contesto associativo: troviamo genitori, amici e parenti di persone LGBTQI*, giovani, sportivi, gruppi di forze dell’ordine LGBTQI*, genitori omosessuali, comunicatori multimediali, atei, agnostici, di tutte le fedi. 
​
​

D. Su cosa si basa la sensibilizzazione degli associati?
​

R
. Le socie e i soci che si avvicinano alle realtà che abitano CasArcobaleno entrano in contatto con contesti che propongono una visione differente da quella prevalente della società che ci circonda. Fornire un’alternativa, che può avvicinarsi alle peculiarità di ogni persona, tende a creare un ambiente il più variegato possibile, dove nell’incontro con l’altr* si genera conoscenza e si abbattono quei muri di paura e ostilità.

CasArcobaleno, frequentata dalle socie e dai soci delle 18 associazioni che la abitano, basa la sensibilizzazione sulle tematiche della salute e del benessere, sull’approfondimento cinematografico e culturale, sulla mobilità internazionale e sui diritti europei, sull’accoglienza delle persone migranti, l’ascolto dei famigliari e amici delle persone LGBTQI*, su ragionamenti sul concetto di famiglia allargata, ricomposta e formata da persone dello stesso sesso, sul potenziale delle e dei giovani, sull’abbattimento di stereotipi e pregiudizi attraverso lo sport, su credi religiosi non maggioritari, o su ateismo e agnosticismo, su turismo LGBT, giornalismo e comunicazione innovativa, e molto altro.
​
​

D. Cosa muove, secondo te, l’esigenza di sottocategorizzare l’essere umano?


R. Parto dal presupposto che le categorie, in base alle modalità con cui vengono utilizzate, possono essere un’arma a doppio taglio. Per fare un esempio, che reputo negativo, utilizzare l’etichetta gay per giustificare la presunta incapacità di una persona omosessuale di poter crescere un/a figlio/a, o di non aver accesso al matrimonio, è sicuramente un uso scorretto e stigmatizzante, visto che dovremmo essere tutt* uguali davanti alla legge; al contrario, per usare un esempio che reputo positivo, utilizzare l’etichetta gay per autodeterminarsi e comunicare ciò che piace, ciò da cui siamo attratti, ma anche i soprusi che una categoria ha subito nella storia o la letteratura ad essa dedicata, è un modo interessante per non dimenticare quanto sia fondamentale decantare le differenze, senza oscurarle.

​La letteratura omosessuale ci ha regalato autori e autrici interessanti, basti pensare ad Allen Ginzberg con il fenomeno della Beat generation e l’esplorazione delle sessualità, il libertinaggio eversivo descritto da Pier Vittorio Tondelli, ma non solo letteratura, anche l’attivismo scritto e manifesto di Judith Butler, le canzoni di Alfredo Cohen, i testi e le azioni queer-rompenti di Mario Mieli: pensare di inserire tutte e tutti loro in un unico calderone potrebbe significare non restituirne dignità.


Per tentare di rispondere con più precisione alla domanda, l’essere umano è abituato, forse per comodità, a classificare tutto in confini ben definiti, sicuri e rassicuranti. Tentare di rompere quei confini è uno dei compiti più complessi che conosca, ed è uno sforzo che richiede molto lavoro su se stess*. Quindi, sapere che a un certo tipo di caratteristiche e comportamenti corrisponde la definizione gay ne facilita la comprensione, riducendo al tempo stesso la possibilità di “uscire dagli schemi” e di autodeterminarsi, liberandosi dalle imposizioni della società.
​
​

D. Com’è il contesto queer a Torino?


R.
 A Torino esiste un contesto queer interessante e stimolante, che rivede in chiave contemporanea il significato del termine. Tra assemblee e luoghi di incontro e confronto, festival cinematografici indipendenti e intersezionali, eventi ricreativi stimolanti e liberi, i temi trattati sono molti, dal contrasto alla schiavitù all’assistenza sessuale per disabili, dal tema del consenso all’etica negli allevamenti, dalla fluidità di genere all’antispecismo, generando dibattito, attualità e stimolando coscienze politiche.

​Anche in CasArcobaleno, nel nostro piccolo, insieme ad alcune attiviste, si sta portando avanti un discorso queer attraverso serate di approfondimento quali Bed Time Stories, un contenitore ideato da me e da Francesca Puopolo, Presidente di Arcigay Torino, progetto di ricerca accurata di raccolta della memoria orale, attraverso la narrazione delle persone LGBTQI* che non hanno mai avuto occasione di raccontare particolari emotivamente significativi della loro storia: in passato abbiamo avuto ospite un marchettaro di Torino, che ha portato all’attenzione delle molte persone presenti la vita spesso celata di un ragazzo che si prostituiva negli alloggi del centro città, ma anche autrici, autori e attivist* di lunga data. E poi serate di approfondimento su Mario Mieli, su bisessualità e bifobia, proiezioni di film d’essai, mostre fotografiche a tematica trans*, poliamore e molto altro.
​
​

D. Il disagio, che può lamentare un individuo queer, è sociale o individuale oggi come oggi? 

​
R.
Ammetto di essere in una fase di conoscenza e studio della realtà queer, quindi quanto dirò resterà una mia opinione personale. Credo che il disagio che una persona può provare in un contesto sociale venga ribaltato, in chiave queer, trasformandolo in rivendicazione.

Per definizione, queer significa eccentrico, sia sessualmente, sia socialmente, sia etnicamente, ovvero distaccato dalla normalità della cultura egemone: nell’eccentricità troviamo la ribellione a un comportamento imposto e non condiviso, l’allontanamento da precisi dettami che non tengono conto delle particolarità di ogni individuo, che respingono le differenze e le etichettano come negative.

​La favolosità quale strumento di rivendicazione del diritto a far uscire allo scoperto checche, frocie, travestite, trans* e chiunque non si senta a proprio agio nel binarismo di genere uomo-donna, che porta con sé l’imposizione di un comportamento preciso che vuole maschi e femmine cisgender calati nello stereotipo machista e sessista, e con modalità personalizzabili che tendono a liberarsi da ideologie maschiliste, ecclesiastiche, politicamente corrette, autocratiche e legate a una culture intolleranti. Il disagio, dunque, non viene assorbito passivamente e lamentato, ma viene trasformato, o trans-formato, così da diventare movimento, in direzioni ostinate e contrarie. 

gb 
​



​ApprofondiMENTI
QUEER FRA CENTRO E PERIFERIA

​

QUEER | INCHIESTA | MONETTO COMMENTA ZUCARO
ARCIGAY TORINO | INTERVISTA A FRANCESCA PUOPOLO
GRANDAQUEER CUNEO | INTERVISTA A ELISABETTA SOLAZZI
GRANDAQUEER CUNEO | INTERVISTA A SIMONE BALOCCO

QUEER | INCHIESTA                                                  GRANDAQUEER CUNEO                                            ELISABETTA SOLAZZI                                    INTERVI

4/9/2018

 
Foto
Elisabetta Solazzi in prima fila al Cuneo Pride 22 in uno scatto di Felice Marra


​D. Come vivi il tuo essere queer?

​

R. Adesso rilassata e con consapevolezza, ma non è stato sempre così. Avevo continuamente l’impressione di essere doppia e non trovavo una parte dominante che mi indicasse la direzione da seguire, poi lavorandoci su, insieme alla psicoterapista ho delineato là i contorni fisici e mentali della mia persona. Probabilmente non sono giunta ad un “punto di arrivo”, ma nel “divenire” sono a mio agio.

D. Essere queer. Ieri come oggi quali pregiudizi?

R. Essere queer oggi è come ieri. “La mia è una fase” come tanti pensano, e come “maschiaccio ci sta che faccio le cose cosi”, tanto è “passeggera”! I pregiudizi vanno a braccetto con i preconcetti, e questi insieme sono sempre di moda. E per smontarli ci vuole tempo e voglia. Quando passo molto tempo con delle persone e tengo alla loro compagnia ad esempio, spendo parole e racconti sul mio vissuto, per comunicare l'unicità delle singole personalità, e come può essere fluida la vita una volta scavalcati gli schemi.
​
D. Quanto è stato difficile nella tua esperienza personale non essere ingabbiata in una categoria precisa?

R. A ripensarci, difficilissimo, perché il mio percorso personale inizia in torno ai 4 anni. Ci sono stati tanti momenti in cui cercavo dei punti di riferimento, delle persone che dessero ispirazione al mio “essere” per incominciare e poi proseguire come sentivo. Non trovandoli, spesso rimandavo le mie domande pensando di non saper confrontarmi e rispondere ai miei punti interrogativi.

D. Pensi che vivere in provincia influisca sul modo in cui la gente ti percepisce?

R. Le province hanno un grosso difetto, fanno da contorno a grosse città dove succedono cose e dove c’è il passaggio di molte persone e culture. E questo determina una messa in discussione della società locale e con l’attivismo, noi di Grandaqueer abbiamo sperimentato che collaborando col e sul territorio, affrontando temi caldi, la percezione di chi sei e perché desideri auto affermarti diviene importante per chi ti ascolta. E' nello scambio di esperienze che il tessuto sociale, messo a confronto può cambiare.

D. Quanto l'essere queer è solo una questione politica in Italia?

R. Personalmente non so dire. Come idea generale le nuove generazioni, cioè chi è alle prese con l’adolescenza e domande esistenziali, si interessano in maniera approfondita dell’argomento, cogliendo da altri percorsi spunti per intraprendere nuove riflessioni. Certo è che le riflessioni delle persone queer nel Regno Unito non sono le stesse in Italia.

gb 


​APPROFONDIMENTI
QUEER FRA CENTRO E PERIFERIA

​

ARCIGAY TORINO | INTERVISTA A FRANCESCA PUOPOLO
ARCIGAY TORINO | INTERVISTA A RICCARDO ZUCARO
ALICE ARDUINO | INTERVISTA ALLA FOTOGRAFA
GRADAQUEER CUNEO | SIMONE BALOCCO

BLATTE                                                                  PARSEC TEATRO                                                    DA PONTICELLI A LUCANIA                       

4/6/2018

 
Foto
Blatte | Parsec Teatro, 2018


​Ponticelli

Convinto dai palombari, i personaggi creati per Genesi - mostra del 2003 - a diventare un fumetto, Ponticelli non sapeva ancora come raccontarli e la trama che tardava ad arrivare, trova poi, precisi riferimenti in due opere: Monarch di Akab e Post-Human Processing Center di Ausonia.

Opere molto diverse che in comune, oltre una visione lucida e allucinata della condizione umana, hanno la volontà di superare i limiti del medium. Ponticelli, crea così una graphic novel lontana dai canoni bonelliani abolendo qualsiasi tipo di gabbia, grafica e narrativa, espandendo al limite le possibilità tipografiche del concetto di splash page.

​Consapevolezza narrativa accompagnata ad un tratto inquietante costituiscono il racconto claustrofobico di un futuro non molto lontano. Nel 2008, pubblicato dalla Bloom Edizioni, Blatte vince il premio Boscarato come miglior fumetto e Ponticelli il premio Micheluzzi come miglior disegnatore. Riedito nel 2014 per Lineachiara, Blatte, oggi si trasforma per diventare una serie televisiva prodotta dalla Grey Ladder.​


​lucania

​La tematica attuale concede al regista Girolamo Lucania e a Parsec, sua giovane compagnia, terreno fertile per una trasposizione teatrale. Il grande impatto visivo di Blatte, conduce il testo e le immagini a trasformarsi, naturalmente, in un'opera crossmediale, nella volontà di attualizzare mezzi e narrazioni all'interno del Teatro.

Qui Lucania si unisce idealmente a Ponticelli nella necessità di svecchiare il proprio medium. E contestualizzata, la messa in scena, all'interno de Il cielo su Torino, “progetto attento ai linguaggi del contemporaneo” promosso dallo Stabile di Torino, fa della regia di Lucania l'unico dei cinque spettacoli a parlare un linguaggio attuale.

Per Lucania, questa, sembra essere l'unica via possibile, già tracciata all'interno del Cubo con Schegge, stagione da lui diretta, in cui le tematiche forti e contingenti sono presentate al pubblico come una brezza fresca.

​Non solo, ma anche per le sue regie Lucania non si allontana da temi quali denuncia del presente, disvelamento della condizione del singolo, scelta di autori nuovi (L'Uomo pattumiera di Matei Visniec, Schegge 18), uso ed intersezione dei mezzi contemporanei.
​
​
In Blatte, continuano le tematiche de l'Uomo pattumiera e se in Visniec l'uomo consumava e produceva scarti in una solitudine inconsapevole, in Ponticelli la solitudine è data. Alex, il protagonista, è isolato dal mondo esterno e dal suo stesso corpo. Una larva meccanica che vive in una società dove le nascite sono proibite e la clonazione l'unico strumento per la sopravvivenza. In cambio di un'immortalità disumana Alex rinuncia al libero arbitrio. E non è il solo.

​Lui come tanti oggi sono 'inghiottiti dalla rete'
e vivono nell'auto-reclusione. Unico contatto con il mondo quello virtuale che tra chat, social newtork e giochi online, determina, negli Hikikomori così definiti, la perdita delle competenze sociali e comunicative. Problema sempre più serio che nel 2012, secondo il CNEL, vede l'Italia seconda, dopo il Messico, con una percentuale, nella fascia 25-30 anni, del 28,8% della popolazione totale. Blatte e Hikikomori, TeatroDue 2014, sono due spettacoli che fanno luce sul fenomeno.
​
Vite elettrificate per cuori come schede madri. Il mondo ovattato di Alex si fa regia straniante - nelle luci e nelle musiche - e stratificata - nella narrazione e nell'uso di più media: video e motion comics – per suscitare nel pubblico l'alienazione emotiva del protagonista.

Riflessione sulle relazioni, personali ed inter-personali che in Lucania si fa lucida nostalgia. La blatta, metafora del ripugnante e del diverso (che dovrebbe motivare) e insieme della speranza e del ricordo, non basta ad Alex. Privo di comunic-azione si scaricherà come una batteria.

​Non commettiamo lo stesso errore di Alex ci dice Lucania.
Apriamo la valigetta, compiamolo questo atto di volontà che ci renderà di nuovo umani. Riappropriamoci del nostro libero arbitrio!

gb
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​approfondimenti
Blatte


BLATTE | INTERVISTA AL REGISTA G. LUCANIA
BLATTE | IL CIELO SU TORINO 18

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    Giovanni Bertuccio

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Magazine d'Arte e Cultura
​Teatro e Danza. Queer

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