D. Quanto la tua arte ti ha portato ad esplorarti? O è la volontà di esplorarti e conoscerti che ti ha condotto alla drammaturgia e al teatro? R. Non credo di avere avuto scelta. A partire dalla prima infanzia tutto ciò che costituiva il “dialogo interiore”, quell'insieme di suggestioni, impressioni, immagini, decodificazioni della realtà si costituiva in volontà di esplorazione di me e dell'Altro da me. Alle elementari la lettura ad alta voce era per me un momento in cui tutto ciò che percepivo del mondo finalmente si traduceva in messaggio; recitavo le poesie a memoria con tale coinvolgimento che l'insegnante spesso commentava con un “il teatro è la tua strada”. La scrittura per la scena è venuta da sé, con la necessità di esprimere un messaggio, più che per volontà di narrazione. D. In "Pupeide - Bettina balla il Boogie" il protagonista condensa e realizza in Bettina la sua spinta vitale, anche carnale e sessuale. Nella società odierna le persone sentono il bisogno di identificarsi in categorie. Seppur con retroterra opposti ci si affida in entrambi i casi ad un "personaggio", una caratteristica presa e resa altra da sè per esplorarsi e viversi più apertamente. Che significato ha per te, come artista e come persona sensibile alle tematiche queer, l'uso del personaggio e il rapporto con esso? R. Il personaggio per me è il medium. Il fine scenico, nel mio lavoro, non è mai una narrazione fine a se stessa (sempre che una qualsivoglia narrazione possa esserlo), ma un canale portatore di uno o più messaggi. A volte, il medium, il tramite, è il messaggio stesso. In “Pupeide”, Bruno/Bettina è un carattere ispirato ad una persona che è esistita, un ragazzo dell'entroterra siciliano arrivato a Torino giovanissimo, in cerca di fortuna. Bruno è morto nel 1979, io sono nata nel 1980, ma la sua voce è arrivata al mio orecchio oltre il tempo e lo spazio, e un grande senso di appartenenza mi ha legata a lui, da subito. L'ho percepito sempre presente, come se utilizzasse la mia scrittura per tornare nel mondo. Alla fine degli anni Settanta, riconoscersi come omosessuali e vivere con orgoglio non era certamente scontato, data la cultura eteronormata e machista che tanto affligeva ed affligge la società occidentale. Attraverso la costruzione del carattere, cerco di esprimere la necessità di guardare all'Altro da noi come ad un universo da esplorare: mi piace pensare che dovrebbe essere la meraviglia a guidarci nell'apprendimento emotivo e cognitivo, come accade nella prima infanzia. Purtroppo viviamo in un sistema che esprime in se stesso la necessità di omologazione, rifiutando tutto ciò che propaga la propria unicità rivendicandola come tale. Ripeto spesso che siamo tutt* pezzi unici, con una radice comune. Sguardi multidirezionali appartenenti allo stesso occhio. La società è intrappolata nel simulacro di un'unica visione, di uno sguardo monodirezionale: nelle mie drammaturgie denuncio la pericolosità della Norma e la necessità di superarla, di rivendicare una libertà di esistenza e di espressione. D. In molte delle tue produzioni si descrive qualcosa che che non ha definizione e sta oltre le parole. IL non luogo, la realtà proteiforme- come il "letto di sotto" ne "corpus dominae - il corpo della signora" si realizza nei corpi e nelle maschere. Questa ineffabilità si concentra soprattutto nella carnalità per te? Cosa c'è nel rapporto con il corpo, e per te con la tua corporeità, di così profondo e difficile da imbrigliare? R. Vivo nella trascendenza, con tutte le difficoltà del caso. Il corpo è un medium splendido, quasi un manifesto di per sé, che però subisce spesso mortificazioni a causa della non aderenza agli standard comuni. Ognun* di noi ha una percezione interiorizzata del proprio corpo, che a volte si scontra con la percezione che l'esterno, l'Altro da noi, ha dello stesso. Mettere il proprio corpo al servizio della scena costringe l'attore a lasciare da parte se stesso: il corpo scenico non è più una tua proprietà, è qualcosa di inafFerrabile, che si esprime nell'istante e che può mutare lungo il percorso, arrivando anche ad avere una propria “identità separata”. La mia corporeità, l'espressione del mio corpo scenico è per me un momento di arte assoluta: divento il mezzo del mezzo stesso, a volte trovandomi a scoprire e percorrere vie di espressione corporea non convenzionali, avulse anche alle regole teatrali – per questo a volte diventa inafferrabile. Anche la carne può essere trascendente. D. Osceno ha molte etimologie; oltre che o-skene, ovvero al di fuori della norma, anche ob cœnium: proprio del fango, della melma. Streghe, prostitute, omosessuali in un epoca in cui vi era solo condanna. Tutte figure di esclusi oltre che (o in quanto?) portatori di umanità. Quanto della tua ricerca - umana e artistica - parla di scoperta e messa a nudo, e quanto di accettazione e riconciliazione? Quanto questi aspetti sono legati fra di loro e a te? R. Moltissimo. L'archetipo della Strega, per esempio, è l'espressione queer per eccellenza: donne che rivendicavano la propria unicità e che hanno rifiutato il controllo, oppure donne sapienti, vere e proprie esperte di erboristeria medica, epurate da una società in cui la logica di profitto ed il controllo dei corpi erano priorità assoluta. Streghe, prostitute e persone LGBTQIA+ sono state perseguitate, torturate ed uccise perchè esprimevano qualcosa che si discostava dalla Norma; è così ancora oggi, purtroppo. Ma chi ha deciso che l'autodeterminazione debba avere un prezzo? La mia ricerca verte sicuramente sulla scoperta e sulla messa a nudo, ma non sull'accettazione: accettare qualcosa presuppone uno standard di partenza con cui fare un confronto, per poi decidere se il soggetto è “all'altezza” dell'esame. No, grazie. Forse sono un'idealista, ma realmente perseguo l'obiettivo di una società in cui ci sia sana curiosità e sete di conoscenza dell'Altro, costituzione collettiva di voci e di corpi difformi, anime libere. D. Il teatro, privato della dimensione dell'intrattenimento, al di fuori della scena, diventa momento di condivisione quasi sacrale, in cui il pubblico diventa da spettatore a parte integrante di ciò che avviene. IL discorso queer può liberarsi della parte normativa e di rivendicazione? Dove ci porterebbe? Cosa vuol dire essere queer per te, come persona oltre che come artista? R. Nel momento in cui il pubblico si riconosce in ciò che accade in scena, il messaggio è giunto a destinazione. Credo che le questioni queer si esprimano proprio nell'unicità di chi ne rivendica gli aspetti ed I messaggi : se ancora oggi qualcun* si sente minacciat* dalla mia unicità (data l'espressione del mio orientamento sessuale, della mia identità di genere, del mio ruolo o dalla mia espressione di genere, oltre che da tutti gli aspetti che compongono la personalità) e crede di avere il diritto di prescrivere ciò che dovrei o non dovrei fare, allora nel rito collettivo si libera, almeno per qualche istante, l'antidoto: l'annullamento della paura. Il teatro è nell'Altrove che tutt* neghiamo, sempre più inscritt* in una collettività legata all' apparenza. Attraverso il teatro, l'essere umano riacquista il senso del sacro, e si libera dal timore. Purtroppo, poi torna alla quotidianità e ricade nella paura, vittima di quella “ratio a tutti I costi” che ci ha privat* di ogni aspetto di accompagnamento – e quindi di elaborazione – dei riti di passaggio (nascita, morte, etc.). Per me essere queer significa esprimere, nell'arte e nella vita, il diritto all'unicità, senza che per questo qualcun* si senta minacciat*. Potremmo vivere realmente liber*, ma il controllo della cosiddetta “società civile” richiede ancora che si rivendichino I diritti umani, oltre che civili, fondamentali – e lo dico con amarezza. D. Come riesci a conciliare il tuo percorso con la presidenza di una grande associazione come arcigay Torino "ottavio mai", che con casa Arcobaleno si declina in servizi forniti ai cittadini? Quanto le persone sono sensibili al tema della scoperta della propria individualità, e quanto cercano semplice rassicurazione? R. Beh, diciamo che devo organizzarmi con molta precisione! Casa Arcobaleno è un progetto voluto da Arcigay Torino proprio nell'ottica di creare qualcosa di nuovo, di sperimentare un melting pot tra realtà eterogenee. Arcigay è un'associazione con una storia alle spalle, ma il lavoro del comitato non si esaurisce nei servizi forniti ai cittadini. La creazione e l'organizzazione di eventi culturali, ad esempio, è parte integrante del percorso del comitato di Torino; il lavoro delle volontarie e dei volontari dei diversi gruppi spazia dalla gestione di eventi all'offerta di servizi come lo sportello Accoglienza, che fornisce ascolto e supporto, oltre al sostegno per le persone richiedenti asilo politico; il gruppo Giovani è molto partecipato e organizza attività di formazione e aggregazione tese all'inclusività e alle buone pratiche; il Gruppo Scuole e Formazione porta le testimonianze delle ragazze e dei ragazzi che ne fanno parte nelle scuole superiori di Torino e Provincia, in un'ottica di lotta costante alle discriminazioni (tutte) e al bullismo omotransfobico. E così tutti I gruppi tematici che costituiscono il corpus del comitato. Il mio percorso prosegue in parallelo, spesso ho potuto mettere a disposizione la mia professionalità in percorsi culturali, anche grazie alla squadra che lavora alacremente affinché l'associazione cresca giorno dopo giorno. Abbiamo un obiettivo comune, che si traduce nella creazione di una reale inclusività e un di un buon accompagnamento alla scoperta della propria individualità e condivisione delle alterità. Davide Monetto |
AutoreGiovanni Bertuccio Archivi
Gennaio 2022
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