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RECENSIONE
Quante persone possono vivere in un M²? Lo scopriranno i partecipanti la performance, che una volta accettato l'invito degli agenti di volo, fidandosi ciecamnete, scopriranno piano piano, l'impossibilità di fare le più semplici azioni fisiche, quando dovranno condividere il metro quadro con sei o nove altri partecipanti.
Un gioco, una performance partecipativa che sfrutta linguaggi comprensibilissimi - come quello sugli aerei - per condurre ad una riflessione non filtrata da uno schermo, dove tutto appare lontano, quasi non ci riguardasse, ma vissuta direttamente o indirettamente nello svolgersi della performance.
Non è bombardamento mediatico come in televisione, ma condivisione teatrale. Serissimo insomma il loro gioco e la loro ricerca del vero, che per Dynamis si fa esigenza di raccontare il presente, di comprenderlo e sviscerarlo, comunicarlo. Capire se qualcosa può migliorasi..
INTERVISTA
D. Quando nasce Dynamis e qual è il movente della compagnia?
Dynamis in questa formazione nasce nel 2011, alcuni di noi già si conoscevano, arrivando da una scuola romana di teatro dove avevano bazzicato per alcuni anni. Alla sporca dozzina che siamo oggi approdiamo però sei anni fa appunto. L'intento primo del nostro percorso è lavorare assieme, cosa sempre più rara. Nel mondo iper individualista di oggi immaginare percorsi collettivi è difficile, per noi è invece obiettivo primario della quotidianità. Lavorare assieme quindi, con i linguaggi performativi come intento e pretesto della ricerca sulle dinamiche umane.
D. Il teatro Vascello di Roma. Partenza ed arrivo.
R. Il Teatro Vascello aveva manifestato interesse anni fa verso le prime proposte artistiche di alcuni componenti Dynamici. Le prime regie ospitate hanno fortificato la fiducia del Teatro nei nostri confronti, tanto da spingerli a proporci una permanenza stabile da loro. L'offerta che il Teatro Vascello si impegna a sostenere, cioè la produzione di giovani compagnie, è un contributo fondamentale per il nostro lavoro. È una pratica preziosissima in una città come Roma dove anche trovare spazi è una questione spinosa, e non perché non ve ne siano.
R. Il teatro dovrebbe essere connesso con la vita e con il contemporaneo. Questo per noi è un pensiero quotidiano. Lavorando con gli adolescenti, sopratutto con l'obiettivo di formarli e avvicinarli alle arti performative, dobbiamo chiederci costantemente in che modo possono trovare in uno spettacolo qualcosa che li riguarda. Siamo nell'era di Netflix non è un processo facile e non riguarda solo loro ovviamente, ma anche e soprattutto, trattandosi della prossima generazione di pubblico. Diciamo che gli adolescenti sono un buon promemoria, perché questo scollamento tra la vita delle persone e il teatro riguarda tutti, è parte della crisi più profonda che sentono oggi i settori artistici.
Qualche tempo fa, entrando in teatro di prima mattina siamo incappati in una scolaresca che attendeva l'inizio di una matinèe. Una ragazza appoggiata al muro con aria svogliata ha proclamato carica di noia "oddio quando vedo il teatro me prende un'angoscia". Ci siamo fermati e abbiamo guardato anche noi l'ingresso, le locandine, l'insegna di quello che in effetti è troppo spesso ridotto a un grosso pachiderma spiaggiato, un luogo distante per la maggior parte delle persone. Non si entra in teatro, non così spontaneamente. Bisogna rieducarci ad attraversarlo, a viverlo, non solo portando il teatro fuori ma anche le persone dentro.
Insomma il teatro dovrebbe occuparsi della vita universalmente parlando, contemplando criticamente le luci e le ombre del contemporaneo per esserlo veramente. Se facesse questo, sfida complessa, non ci sarebbe dubbio che sarebbe sempre anche un teatro politico, come per sua natura è, inteso cioè come qualcosa che si occupa delle persone e delle questioni della polis.
Si usano i mezzi della società dello spettacolo, scimmiottandolo, senza prendersi troppo sul serio nelle forme (del resto sono ciò in cui siamo più immersi). Il contenuto invece è molto serio. Quando si scherza bisogna essere seri diceva qualcuno, ecco è vero anche l'inverso e se si riesce nell'intento l'obiettivo può arrivare con più forza.
D. "Grazie per aver giocato con noi". Possiamo affermare che l'arte, almeno da Duchamp in poi, è, e deve continuare ad essere, un gioco serissimo?
R. Appunto sì, come dicevamo sopra.
D. Laboratori, workshop, formazione ed infanzia. Quanto è necessaria, cito le vostre parole sul sito, "la formazione del pubblico di domani" e quale ruolo il teatro deve assumere nel presente?
Anche a questo forse abbiamo in parte già risposto, abbiamo mischiato tutto come al solito, ma il punto è proprio questo: difficilmente riusciamo a scindere i piani. I progetti che trovano una forma performativa raramente nascono da un'intuizione pensata a tavolino. Sono il frutto di percorsi generati da un intento formativo, dall'intento cioè di utilizzare il linguaggio teatrale come pretesto di esplorazione e studio delle dinamiche dell'essere umano.
M2 ad esempio nasce da un progetto portato avanti con la ONLUS Asinitas, impegnata con rifugiati politici e migranti. Quando la ONLUS ci ha chiesto un contributo per i festeggiamenti dei suoi 10 anni è nata l'idea di questo gioco performativo, una sintesi adatta alla relazione intercorsa negli anni tra noi, loro e i ragazzi incontrati, un quadro ludico di quel percorso. Spesso succede questo: da un cammino formativo arriva uno stimolo, un suggerimento umano, e noi ne annusiamo lo sviluppo e lo seguiamo.
www.dynamisteatro.it
gb
approfondimenti
per un teatro contemporaneo
PER UN TEATRO CONTEMPORANEO LE COMPAGNIE nO (Dance first. Think later) | ROMA CITTA' INFERNO
12/10/2016
RECENSIONE
Loro sono i nO (Dance first. Think later), compagnia ibrida con sede a Roma, che negli spazi delle Officine mette in scena Città Inferno. Il richiamo al film Nella città l’inferno, di Renato Castellani con la grandissima Anna Magnani, è dichiarato, mentre appaiono in sordiana altri riferimenti come Chiagaco di Rob Marshall - con cui forse si convivide l'impostazione sotto forma di musical e probabilmente il numero delle donne, nonchè alcune scene - Le sorelle Macaluso di Emma Dante e la serie televisiva The Orange is the new black di Jenji Kohan che dal 2013 porta nelle case italiane la quotidianità delle carceri femminili.
Città Inferno è un punto di vista altro sulle donne. Senza demagogia e privo di pietismo. Non una questione di genere ma consapevolezza che l'orrorre e la tragedia, così come la follia, appartengano all'essere umano tutto, Città Inferno, rende il crimine una cosa comprensibile e l'amore un virus che uccide.
Ironico e ammaliate, così come crudo e coinvolgente, lo spettacolo segue la regia di Elena Gigliotti, giovane attice autrice, che mostra una precoce consapevolezza nel dosare momenti e sensazioni, narrazione e partecipazione, empatia e orrore. E queste sono sfumature di una sensibilità che per prima é spettatrice pretenziosa dei suoi lavori, e che in secondo luogo riesce ad avere la capacità di tradurre e comunicare i diversi stati d'animo, ad un pubblico incuriosito ed affascinanto per tutte le due ore di spettacolo.
Entriamo, adesso, nel mondo della compagnia e dello spettacolo e scopriamo la Città Inferno di Elena Gigliotti. A domanda, risposta!
INTERVISTA
R. Sono stata una ragazza fortunata, perché subito dopo il diploma, lasciata Catanzaro, ho passato le selezioni alla Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Genova. Gli anni della Scuola sono sempre protetti, e il tuo compito è quello di apprendere quanto più puoi. Il problema è il dopo, l’abbandono. A Roma, nell’attesa di una scrittura, si rischia di restare indietro, di trascorrere la maggior parte del tempo a vagare confusi o a lamentarsi della condizione presente, senza prendere finalmente in mano la propria creatività e mettersi in gioco. Così, è nata la Compagnia nO (Dance first. Think Later).
Dalla necessità di dare una risposta che fosse un’azione a quella condizione del “sentirsi abbandonati” o del “e adesso che facciamo?”, un gruppo di giovani della Scuola, coadiuvati dall’insegnante di danza del corso , si sono incontrati per trovare un linguaggio espressivo che li rappresentasse in quel momento di fragilità artistica e al tempo stesso di libertà assoluta. Inutile dire che a causa di troppe difficoltà, il gruppo si è allargato, si è ristretto , si è rotto ed aggiustato. Abbiamo scommesso su un teatro fatto da tante persone contro ogni strategia economica e organizzativa, quindi i Teatri spesso non possono stare dalla nostra parte (loro malgrado), i cachet devono per forza di cose adeguarsi, e diventa difficile permettersi diverse figure che facciano la parte della produzione, della distribuzione e della promozione.
Quindi ci ritroviamo a organizzarci in maniera autonoma in una ristrettezza di tempi che toglie energia al lavoro artistico. Siamo però ottimisti! Crediamo che ne valga la pena perché abbiamo notato una crescita da molti punti di vista. Quindi è necessario analizzare con lucidità il percorso, registrare i miglioramenti, correggere gli errori dovuti al fatto che: nessuno ce l’ha mai insegnato. Per il momento abbiamo un gran desiderio di puntare tutto su questa scommessa. Ognuno di noi, poi, ha un percorso lavorativo e formativo di tipo individuale che permette di ritornare al lavoro di gruppo in maniera più consolidata e matura.
D. Nè teatro nè danza ma sicuramente arte. Possiamo gridare che l'arte si alimenta d'arte e che ogni linguaggio artistico può essere utile e necessario a seconda delle esigenze drammaturgico/comunicative?
R. Né danza, ma Teatro sì. Sicuramente Arte. Se di buona Arte si tratta, lo deve dire il pubblico. E’ difficile trovare un’etichetta, una definizione adatta al nostro linguaggio. E forse non ci interessa, il linguaggio siamo noi. La danza nei nostri spettacoli è un’espressione di sopravvivenza all’idea stessa di danza. Ci commuove proprio questo: la potenzialità del corpo nel suo limite, la sua fantasia, il disordine, il fatto che sarebbe bene che non lo facesse e invece lo fa’.
La recitazione, seppure portata in un contesto atipico, rimane la nostra ancora con la tradizione, di cui non vogliamo minimamente liberarci. La difendiamo perché quando è buona, accade come accade lo slancio di un corpo o un’emozione o la vita stessa. Ogni linguaggio può quindi essere utile e necessario, dobbiamo gridarlo, ma a un patto: che venga capito, o che faccia emozionare; se le cose avvengono contemporaneamente, è il massimo. Ci battiamo per un teatro popolare, non per un teatro intellettuale (anche perché: gli intellettuali dove sarebbero? A poco a poco si stanno estinguendo e adesso tocca per forza a noi, con tutto il disagio che ne consegue. Che non sia la nostra fortuna?).
Ci battiamo per un Teatro che si fa insieme e la magia avviene quando ciò che è necessario per me diventa una liberazione per te. Tutti i registi, a mio avviso, dovrebbero tenerne conto. La sensazione peggiore che ricordo da spettatrice è il senso di colpa del non aver capito e la sensazione di esclusione da quella festa a cui sono stata invitata.
R. Sono una donna. E’ una parola molto faticosa e sorprendente da pensare, scrivere, dire. Ogni volta. Soprattutto quando decidi di parlare di donne, di lavorare con le donne. CITTA’INFERNO nasce da un alibi: la visione del film Nella città l’inferno di Renato Castellani, ambientato in un carcere femminile. CITTA’INFERNO però manda i suoi primi segnali in un momento di rottura con la figura maschile (temporanea, basti pensare che tutte le mie regie sono state condivise o assistite da Dario Aita - unico superstite della formazione originale di nO - e alla fine anche questa, per una scelta, però, più che per un dato di fatto), quando mi sono ritrovata a pensare se fosse possibile farcela, da sola come donna, insieme ad altre donne.
La selezione è quindi avvenuta così, attraverso la ricerca della specialità di ognuna. Le donne che ho scelto in questo percorso erano le più attive che avessi mai conosciuto, e raramente le donne che ho conosciuto, in mezzo al buio vero, si sono spente. E’ una caratteristica, un luogo comune? Forse (i luoghi comuni da qualche parte saranno pure saltati fuori). Le donne di cui parlo si sono prostituite, hanno ucciso, rubato, fatto del male. Le mettiamo dalla parte della violenza di quella cronaca spesso e volentieri coperta da un fiorellino al cimitero, da un referto psichiatrico che tende a farci stare tranquilli. Non siamo noi, non ci appartiene, pensiamo. Ciò che mi ha spinto a portare in scena questa storia è stato dunque il compito di indagare strettamente la causa di questo orrore: il debito d’amore, la nostra più grande ferita.
Ed è inusuale, effettivamente, la posizione di queste criminali che ci sforziamo di capire, come lo è quella di alcuni uomini che subiscono invece la violenza sempre più diffusa di alcune donne le quali attraverso la loro posizione (difesa da mille associazioni rosa, numeri verdi, e sportelli d’ascolto) agiscono una violenza passiva e sfruttano la loro condizione per portare alla rovina i padri dei loro figli, con un susseguirsi di cause e processi che ingiustamente – delle volte - sono sostenute dalla giustizia sempre e comunque a favore della donna.
D. Città inferno. Un grande film con una grande Anna Magnani. Quale difficolta e quale sfida nella trasposizione teatrale?
R. Nella città l’inferno è un grande film perché riesce a rimanere attuale pur parlando di un carcere femminile senza nemmeno far ricorso (a causa della censura di quei tempi) alle parolacce. Questo è curioso. ed ha sorpreso molto gli sceneggiatori nel momento in cui l’hanno rivisto a distanza di tempo. Tuttavia, non si tratta di un film “completo”, esattamente come piace a me. Offre una storia dalla trama lineare, eppure tanti personaggi si muovono intorno senza che venga detto troppo di loro, molto si immagina sia del prima che del dopo.
In realtà, è stata già portata in scena una trasposizione teatrale del film, ma non ci ho dato molto peso, dal momento che il cinema ci ha dato tutto quello che poteva servirci, senza cadere nell’imitazione che in questi casi è un rischio in cui ci si imbatte. In più la Magnani è la Magnani. Questo è il suo più grande merito. Per noi attrici, un limite che non dovrebbe farci sentire schiacciate, ma grate. Nel mio caso, dopo aver detto grazie, ho pensato che la sua parte avesse molto a che fare con la vita di mia nonna, arrestata negli anni 50 per adulterio. Questo mi sembrava veramente innovativo!
La fusione di personaggi che si assomigliano incredibilmente dai fianchi alla mentalità, dalle sottane alla durezza dei tratti. La stessa cosa è stata fatta per gli altri personaggi. In modo particolare, abbiamo restituito a Giulietta Masina la centralità che meritava e che Castellani non aveva potuto donargli per via della Magnani. La cosa più interessante è stata quella di risolvere le dissolvenze del film, i passaggi da una scena all’altra. Al cinema è la cosa più naturale del mondo, mentre nella creazione dello spettacolo, è stato molto stimolante pensare a delle possibili soluzioni.
Il film viaggia comunque molto vicino alla storia. E mischiare tradizionale al popolare emoziona, come credo faccia piglio sul pubblico, vedere in maniera dichiarata da dove veniamo e verso dove vogliamo dirigerci. Ciò che mi piace ancora di più è che, nello spettacolo, si intuiscano i due mesi passati a guardare film sul carcere che – per chi è appassionato - non è diffivile riconoscere l’influenza dei miei preferiti.
R. Il rituale del carcere è stato alla base della mia ricerca proprio perché la danza è pura espressione necessaria per questi personaggi che trasformano la loro quotidianità in un’ estetica, con slanci inaspettati all’interno però della realtà che il carcere offre, sulla quale non abbiamo potuto evitare di porci delle domande. Abbiamo letto libri scritti dalle detenute, lettere, testimonianze, guardato documentari.
Inizialmente speravo che il linguaggio dei personaggi potesse essere quanto più vicino a un realismo che tuttavia non conoscevo, perchè non lo avevo vissuto. Carlo De Marino, il mio scenografo e costumista, mi ha fatto invece riflettere sull’utilità del carattere. Ognuna di loro aveva un personalissimo costume d’epoca (non semplice, se parliamo di detenute, differenziarle) e di conseguenza, dentro quei costumi, le attrici hanno iniziato ad indagare le particolari differenze e gli spigoli che, per l’appunto, le caratterizzavano.
La gestualità unica per ognuna, all’interno di coreografie identiche basate sul rituale del caffè in cella, sulla sigaretta rubata, sui bisogni primari, sulle insonnie notturne, ha donato un tocco di specialità allo spettacolo che le attrici si portano dietro anche nelle scene recitate, nei piani d’ascolto e soprattutto a contatto col pubblico, senza sentirsi mai decisamente grottesche, caricate, eccessive. A noi sembra sempre tutto troppo. Il mondo è pieno di carattere. E’ l’aspetto interessante della vita su cui amo soffermarmi di più.
D. La regia. Dosata nelle emozioni e sapiente nel sviscerare le storie dei personaggi catturando l'attenzione del pubblico, la regia subisce, almeno per chi conosce il teatro, il fascino del teatro di Emma Dante: l'uso del dialetto, la frontalità delle sette donne che parlano (pensa alle sorelle Macaluso) un fisicità molto marcata, non ultimo l'esigenza di parlare del nascosto. Ti rivedi nel teatro della siciliana o un percorso a cui sei arrivata autonomamente?
R. La prima volta che ho visto uno spettacolo di Emma Dante a teatro ho pensato : il Teatro, per me, comincia oggi. Il suo immaginario mi appartiene completamente, mi rapisce. Adoro la sua fantasia e il suo coraggio. Una delle poche donne che c’è e si fa sentire. Non ho visto le sorelle Macaluso e l’ho incontrata per la prima volta dopo aver già presentato lo studio di CITTA’INFERNO, durante un laboratorio affrontato con grande libertà e fatica. Uno di quei laboratori che lasciano il segno. Ogni tanto le scrivo per raccontarle dove sono, cosa faccio e perché. Mi risponde sempre e mi incoraggia, questo è sorprendente per noi che cerchiamo sempre delle risposte in chi ci ha iniziati anche in maniera inconsapevole, e raramente poi accade il Grande Incontro. Quindi nell’ispirazione Emma Dante c’è, è un’artista a cui devo tanto.
Non è l’unica. Giancarlo Sepe è stato il primo regista con cui ho lavorato che mi ha parlato della Musica, del corpo di un attore, delle immagini, delle visioni. Ho recitato nello spettacolo più divertente della mia vita, e ho appreso da lui che il rischio in teatro è tutto, incluso il pericolo che ne deriva. E’ un outsider, ha una cultura vastissima sempre nutrita dall’influenza dei giovani a cui lui da un’immensa fiducia.
Infine, pur senza che nessuno possa accorgersene, perché i miei spettacoli sono apparentemente tutt’altro, Valerio Binasco è il mio grande maestro. Si arrabbierà se mai lo leggerà, eppure non c’è giorno della mia vita artistica in cui lui non sia presente: nella recitazione, nei linguaggi che indago, ma in modo particolare negli obiettivi. Nella grande onestà con cui si approccia all’Arte, nel mistero dell’incoerenza, nell’osservazione della vita, nella religiosità della disciplina, nel divertimento della festa. E poi ci sono io, che ho scritto su un quaderno questi nomi a vent’anni, e li porto dietro come una famiglia immaginaria che mi affianca nelle scelte, e dalla quale, in maniera del tutto inconsapevole, mi allontano. Con una risposta mia, soltanto mia.
gb
approfondimenti
per un teatro contemporaneo
RECENSIONE
Il suo Negri si compone di immagini, di ombre e di luce. Di esperienze vissute che si condividono. Di arte che si fa scambio perchè è nella relazione che trova il suo scopo. Arte teatrale che giocando sui contrasti vince, I Negri di Elena Rosa "ribatte, citando le sue parole, il valore dell’individuo, singolare e unico che di per sè si fa metafora di anti-colonialismo". Con queste parole, non resta che invitarvi a Catania, domenica 29 gennaio allo Zo Centro Culture Contemporanee, in cui I Negri andrà in scena, e vi lasciamo alle parole, sensibili e resistenti, della regista Elena Rosa. Conosciamola meglio e nella conoscenza, il suo universo artistico.
intervista
R. Studiavo pedagogia ma praticavo danza. Frequentavo il teatro e realizzavo performance. Successivamente ho incontrato gli esclusi della società e ho iniziato, con loro, a condurre un laboratorio di teatro danza mettendo insieme l’aspetto pedagogico ed estetico. Non so se definirlo teatro sociale, io vorrei chiamarlo nudamente teatro che, per me, è anche incontro, relazione. Un teatro che accoglie individui isolati, ai margini, ma che sul palco diventano performer, cancellando il ruolo sociale precedente, assunto in una società finta, perchè questi corpi che non esistono per la società e soprattutto li si rendono come fantasmi, nella nostra difficile isola. Comunque c’è stato un profondo spostamento del punto di vista, a distanza di anni, sia nelle scienze della formazione che nel teatro sociale e, oggi, so di avere scelto di lavorare con dei performer con disagio per fame di poesia. Gli esseri poetici sono rari e chi vive in una extra-ordinarietà, quella in cui vivono, è vicino allo stato dell’arte, lì dove io voglio stare.
D. Nel 2012, insieme a Benedetto Cardarella fondate Cuori Rivelati, progetto composito che unisce arti sceniche, disagio mentale e disabilità. Cosa, attraverso l'arte, secondo te, deve essere rivelato ai cuori contemporanei?
R. Ciò che deve essere rivelato è il mistero, il miracolo, l’errore. La rivelazione non come svelamento di una verità tangibile bensì come visione misterica. Un performer con disagio mentale non può che rivelare un mistero sulla natura umana: il suo corpo non è come se fosse (come il corpo di una persona che recita o come il corpo che ricopre un ruolo sociale) ma è corpo natura. Essere in natura come ready made, quindi già opera d’arte. E quando questo corpo appare come rivelazione ci mette in relazione con la parte mancante, fragile e diversa di noi stessi. In scena tutto questo viene rivelato come mistero che ci pone domande su qualcosa di incomprensibile e oscuro. Nella nostra vita quotidiana non c’è spazio per l’oscurità, tutto è illuminato, visibile, con parvenza di efficienza e perfezione. L’errore, il differente, non è contemplato. In scena ci auguriamo che emerga l’errore perché da slancio alla vitalità di questa rivelazione scenica, e spesso un errore diventa un miracolo, esprime l’istante, il qui e ora della performance. Il rischio e l’imprevedibile mobilità della vita.
O meglio, come abbiamo reagito noi alla comunità catanese?! Catania è una città teatrale che storicamente ha partorito tanti teatranti. E noi siamo giovani, ancora, forse incompresi, incatalogabili. Qui fare arte è dura, farlo con persone con disagio è impossibile. Parlare di territorio, ahimè, significa parlare di problemi: non ci sono interlocutori nè nel sistema culturale che è paralizzato, né tantomeno nei servizi sociali. e questa impossibilità per noi si fa linfa, motivo di rivolta, desiderio di autogestione. Sguardo verso la trasformazione, libertà e ricerca di un proprio intimo percorso, difesa di una zona poetica intoccabile. Significa non lasciarsi sedurre dal fascino delle compiacenze, restare con un uno spirito felicemente underground.
D. Il testo. I Negri di J. Genet nel tuo spettacolo si fa metafora di che tipo di colonialismo?
R. Del testo di Genet non rimane praticamente nulla, restono visioni, immagini. Tutto è scarnificato. E la stessa metafora di colonialismo è cancellata. Non bianchi che colonizzano negri, nessuno contro nessuno. Ma esistenze che appaiono, differenze che si svelano. La questione sul colonialismo è posta a priori, e riguarda lo sfruttamento che operiamo sui diversi, sulla loro condizione e sulle loro culture, coniando nuove e sempre più attente parole per definire il disagio, la paura e la voglia di annullare, rendendola così simile a noi fino a nobilitarla, la diversità. E questo tentativo di normalizzare, non può che farci ribattere il valore dell’individuo, singolare e unico che di per sè si fa metafora di anti-colonialismo.
R. Chi sono oggi i nuovi negri? Rispondo alla domanda con la domanda di Genet..e per prima cosa di che colore sono i negri? Quella zona grigia è la cenere a cui tutti torneremo. Nè negri, nè bianchi, ma cenere. Siamo tutti destinati alla cenere. Sulla scena non si lavora sull’esaltazione della diversità nel senso di esaltazione della disabilità o di condizione di disagio sociale, ma rivelazione delle singolarità, di esseri poetici. In scena vedere questi corpi altri, lontani ci fa vedere la nostra di lontananza, quella lontananza da noi stessi, perduti in una società ugualizzante, normalizzante. In fondo in teatro si manifesta il desiderio del performer di dire “io esisto, sono qui singolare, unico, guardatemi”. Qui c’è desiderio di esistere in un mondo e in un destino che ha escluso. Questo urgenza, questa motivazione, non fa altro che mostrarci un processo di trasformazione, ovvero un atto che scuote un’immobilità da cui si desidera liberare. Tutto questo come non può mostrarci la diversità?
D. La bellezza. Negri mostra l'esigenza di scovare il bello, di ritrovare la poesia dell'ascolto, l'esigenza della condivisione che sulla scena si traducono con la sensibilità per la musica e la creazioni di forme estetizzate, in cui non mancano le ombre. Quale ideale di bellezza, può salvare oggi? Etico, estetico o tutt'e due?
R. Etica, estetica e aggiungo relazione insieme. L’ideale di bellezza? Non esite. Vogliamo opporci a qualsiasi ideale, sarebbe imporre un punto di vista. Vorrei concentrarmi sulle infinite bellezze da scoprire, mai uguali e in ombra. Quelle bellezze in ombra mi affascinano e in scena quando la luce svela è perché l’ombra ha preso il suo tempo, il suo respiro. E il corpo in luce deve farsi abbagliante, lacerante, stridente e percuotente di bellezza.
www.cuoririvelati.it
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approfondimenti
per un teatro contemporaneo
Autore
Giovanni Bertuccio
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