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PER UN TEATRO CONTEMPORANEO                          LE COMPAGNIE                                                    C&C COMPANY | MILANO                                      ANNA CAPPELLI

12/13/2016

 
Foto
Anna Cappelli | C&C Company, 2016


​RECENSIONE

Il più breve degli spettacoli proposti a Per un Teatro Contemporaneo - simposio laboratoriale che Stalker Teatro ha organizzato alle Officine Caos, come restituzione pubblica delle cinque residenze del progetto multidisciplinare Arte Transitiva - Anna Cappelli torna a teatro. Nell'interpretazione di Carlo Massari, della C&C Company, il testo di Annibale Ruccello, straoridinario commediografo che scrisse a soli trent'anni la vita di Anna, rivive forse, della sua intenzione originaria.

Ruccello aveva tret'anni quando scrisse il testo, trent'anni sono passati dal 1986 al 2016; chi scrive e chi interpreta sono entrati nella trentina. Questo, che sembra irrilevante pone subito tre considerazioni. Anzittuto che parte dell'arte italiana degli anni Ottanta e certa arte attuale, denunciano un benessere finto, povero delle idiosincrasie dell'uomo e iniziato negli anni Sessanta. In secondo luogo che, ieri come oggi, sono i giovani con una mente fresca e poco corrotta dai giochi sociali, a cogliere meglio lo zeitgeist del loro tempo. Non ultimo che l'arte, quando vera arte, in accordo con Massari, può "identificare e sviluppare una nostra personale visione sul mondo". A personale visione, aggingerei oggettiva e critica, perchè riesce ad andare oltre la patina pubblicitaria, riesce a defecare frullati di immagini e bombardamenti commerciali, provocando una strappo, una lacerazione nel percepire il quotidiano.

Ecco l'Anna Cappelli della C&C Company racchiude questo e molto altro: la continuità con una tradizione che esprime il meglio dell'arte italiana, la sensibilità nel percepire il cuore di un testo importante e renderlo attraverso i linguaggi contemporanei. La personalizzazione - che si fa marchio di fabbrica - del testo, aggiungendo un sottotesto corporale e fisico, danzante, segno e metafora della parte oscura: l'anima nera e della potragonista e dell'uomo tutto. Perchè nell'interpretazione maschile di ruoli femminili, come soleva fare spesso Ruccello, esalta sul palcoscenico la fragilità dell'essere umano al di là delle differenze di genere, puntando l'attenzione sul risvolto della medaglia.

​Sulle finzini reali che viviamo tutti, sul nostro desiderio indotto di posseso, sul nostro fraintendimento del fonema amore sempre più spesso filtrato dal cinema e dall'industria del porno. Sul nostro essere soli pur se in masse ben addomesticate. Sul notro desiderio di spiritualità e trascendenza sempre più pressante ma combattuto da un pragmatismo fintamente globale. Insomma se il vino buono sta nella botte piccola, negli spettacoli brevi, se fortunati come l'Anna Cappelli della C&C, si nasconde la concentracione delle caratteristiche formanti il concetto di Arte. Scoprimo adesso cosa sta dietro "
una sorta di eroina (negativa) che conduce una battaglia solitaria di conquista e protezione dei propri possedimenti, una belva feroce in un corpicino di impiegata del Comune di Latina". 


​INTERVISTA

D. Corpo e Cultura, 012 United Colors of the End e la Trilogia del dolore, come si legano nella vostra ricerca con il testo di Annibale Ruccello?
​


R. Rispetto agli altri lavori C&C, Anna Cappelli vive di un testo già forte e solido che diviene quindi basamento di un lavoro di ricerca fisica rispetto ad un immaginario indotto dalla poetica di Ruccello e dall'ambientazione suggerita. Difficoltà è stata, quind, ascoltare parole e lasciare, che queste, suggerissero il movimento e non viceversa, come invece succede solitamente nelle creazioni di danza e teatro fisico. Il legame tra questo e gli altri lavori sta nella drammaturgia fisica. Infatti la nostra chiave di lavoro è servirci dello strumento danza per portare avanti un discorso drammaturgico, quindi il servirsi di un testo è più che mai funzionale al nostro lavoro di ricerca scenica. Diciamo che la macro area tematica di riflessione della creazione Anna Cappelli è legata, come poi sottolinea il testo stesso, da un'ossessione rispetto al desiderio di possesso (di oggetti, cose, case e persone...) come affermazione di identità personale, come se l'individuo fosse nulla in assenza di ciò che lo circonda e gli appartiene. Tematica più che mai attuale rispetto ad un discorso legato al valore dell'essere umano e ad una perdita di SPIRITUALITA' (non religiosità) che accompagna l'uomo moderno. Eccoci quindi, come nelle altre creazioni di C&C, ad affrontare, a nostro modo, la contemporaneità tentando di farci portatori di messaggi universali, come credo la danza debba sapere fare.
​
D. Casalinghe perfette e steccati bianchi. La metafora degli anni 60 - attraverso le musiche e le pubblicità del tempo - con la sponsorizzazione di una vita perfetta, quanto incide oggi, nonostante l’emancipazione e l’indipendenza, nell’immaginario delle donne e non solo?
​


R. Io eviterei anzitutto la focalizzazione sul genere, dal momento che tutti siamo coinvolti in un'idea di massificazione dilagante, allora come oggi. Mondi perfetti, vite perfette e un senso dell'idea di Bellezza che esclude una visione soggettiva e impone stereotipi falsi e intangibili. Credo fermamente che in questo l'Arte, quella vera, e gli Artisti, quelli veri, da sempre possano aiutarci ancora a identificare e sviluppare una nostra personale visione sul mondo, fatti, persone... Credo sia questo a renderla scomoda ai "piani alti"


D. La scacchiera. Quali sono in Anna gli opposti che si scontrano?

​
R. Beh, dal testo si evince facilmente una forza di contrapposizione interiore della protagonista, una schizofrenia tra un'ossessionante ricerca di normalità: il "fare come tutti" e il desiderio di possessione di tutto e tutti: "mio, mio, mio...". Ripeto: tema più che mai attuale e condiviso.
​
D. Il Corpo inverso. Nella tua versione di Anna il corpo in scena produce un corto circuito doppio: Un maschio che interpreta un ruolo femminile e un corpo che quando smette di parlare, dalla statura eretta, si incurva, perde sicurezza e forza. Le parole in Anna sono inversamente proporzionali al linguaggio muto del corpo? E il desiderio di un corpo altro “solo mio” può essere prerogativa anche della natura maschile, per demagogia considerata cacciatrice?


R. L'idea, molto dibattuta in fase creativa, è di affidare (non senza rischi) una psicologia e movenze femminili ad un corpo maschile, questo non per andare a ridicolizzare un personaggio o voler giocare sul travestitismo, ma per incidere ulteriormente sull'universalità della tematica e lavorare con una forza e corporatura fisica che si contrapponga fortemente al testo brillante e fintamente superficiale di Ruccello; al corpo viene affidata la responsabilità di raccontare l'interiore, il marcio, il tumore, la nube nera che lentamente si propaga in Anna, fino a rendercela temibile Mostro. In netta contrapposizione è invece l'esposizione testuale, giocata su una ritmica vivace, brillante, quotidiana, ma a tratti infestata e posseduta da quest'anima nera ogni qualvolta si senta minacciata o defraudata da qualcuno/qualcosa. Ricordiamo che nei capolavori Ruccelliani vediamo spesso figure en travestì e che lui per primo trovava le stesse a cardine delle sue storie come se questa femminilità in un corpo di uomo potesse acquisire maggiore forza espressiva proprio per il punto di vista che l'attore può esprimere analizzando dall'esterno una psicologia a lui lontana. Come già citato, credo comunque che l'istinto di possessione sia una prerogativa che accompagna l'essere umano indifferentemente dalla sua natura, sessualità, appartenenza...e purtroppo ci viene quotidianamente dimostrato da atti di abusi, violenze, guerre...


​D. Mangiare l’amore, in Anna è dolore o possessione?

​
R. Mi fa piacere che tu me lo chieda, ci rifletto costantemente. Credo riguardi entrambe: il desiderio di possessione e l'insoddisfazione nel non poterlo realizzare fino in fondo, come si desidera, provoca dolore e l'ultimo tentativo disperato di riconquista di ciò che si sta perdendo è mangiarselo. Ricordiamo sempre che la realtà della natura umana può essere molto più allucinante dell'immaginazione di un drammaturgo..
​
D. La voce. Le sfumature tonali che usi mirano a sottolineare un desiderio d’amore legittimo che si fa patologia, segnando anche i movimenti del corpo. Perché pur inseguendo la normalità, Anna e molti come lei, oggi devono essere anticonformisti per definizione?


R. Quando si comincia ad affrontare un testo del genere, a prima lettura si tende a non dare troppa importanza alle sfumature, tutto ci riporta a frivolezze del boom degli anni '60, salvo poi accorgerci che dentro il monologo troviamo tematiche universali e senza tempo, e ci sentiamo chiamati in causa da un vecchio testo che, in teoria, parla del tempo che fu. Credo che l'Amore non possa sfociare in patologia, se chi ne è portatore possa definirsi una persona mentalmente stabile. Credo invece che purtroppo siano tanti i casi in cui soggetti con forti psicosi (magari taciute) si affidino alla parola Amore per colmare loro disturbi, ne va di conseguenza tutto il male fisico e mentale che essi possono perpetrare e di cui tristemente siamo testimoni quotidianamente. Anna vuole possedere, non fa distinzione tra il cosa o il chi, questo è il vero problema; siamo difronte a un personaggio estremamente conformista perché ciò che cerca Anna è una vita "come tutti gli altri", con una casa, un uomo, un lavoro, una quotidianità, nulla di speciale
se non fosse che è disposta a tutto, anche ad ammazzare per averlo, una sorta di eroina (negativa) che conduce una battaglia solitaria di conquista e protezione dei propri possedimenti, una belva feroce in un corpicino di impiegata del Comune di Latina.

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www.ceccompany.org

gb 
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​APPROFONDIMENTI
PER UN TEATRO CONTEMPORANEO


nO(Dance first.Think later)
CUORI RIVELATI
DYNAMIS TEATRO
PER UN TEATRO CONTEMPORANEO

PER UN TEATRO CONTEMPORANEO                          COMPAGNIE                                                              DYNAMIS TEATRO | ROMA                                    METROCUBO

12/13/2016

 
Foto
Metrocubo | Dynamis Teatro 2016


​RECENSIONE

Calato nella quotidianità, immerso nell'attulità, imbevuto di cronoca nera è M² dei Dynamis. Gruppo romano, presentato alle Officine Caos, a Per un Teatro Contemporaneo - una tre gironi di incontri sull'arte performativa ed il sociale - vetrina per compagnie emergenti. Dynamis, che nella sua ricerca indaga le dinamiche umane e i suoi processi, con M² indaga lo spazio di un metro quadro, mettendolo in relazione alle esperienze nostrane di rifugiati, profughi, richiedenti asilo.

Quante persone possono vivere in un M²? Lo scopriranno i partecipanti la performance, che una volta accettato l'invito degli agenti di volo, fidandosi ciecamnete, scopriranno piano piano, l'impossibilità di fare le più semplici azioni fisiche, quando dovranno condividere il metro quadro con sei o nove altri partecipanti.

Un gioco, una performance partecipativa che sfrutta linguaggi comprensibilissimi - come quello sugli aerei - per condurre ad una riflessione non filtrata da uno schermo, dove tutto appare lontano, quasi non ci riguardasse, ma vissuta direttamente o indirettamente nello svolgersi della performance.

Non è bombardamento mediatico come in televisione, ma condivisione teatrale.
Serissimo insomma il loro gioco e la loro ricerca del vero, che per Dynamis si fa esigenza di raccontare il presente, di comprenderlo e sviscerarlo, comunicarlo. Capire se qualcosa può migliorasi..
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​INTERVISTA


​D. Quando nasce Dynamis e qual è il movente della compagnia?


​
Dynamis in questa formazione nasce nel 2011, alcuni di noi già si conoscevano, arrivando da una scuola romana di teatro dove avevano bazzicato per alcuni anni. Alla sporca dozzina che siamo oggi approdiamo però sei anni fa appunto. L'intento primo del nostro percorso è lavorare assieme, cosa sempre più rara. Nel mondo iper individualista di oggi immaginare percorsi collettivi è difficile, per noi è invece obiettivo primario della quotidianità. Lavorare assieme quindi, con i linguaggi performativi come intento e pretesto della ricerca sulle dinamiche umane.

​
D. Il teatro Vascello di Roma. Partenza ed arrivo.


R. Il Teatro Vascello aveva manifestato interesse anni fa verso le prime proposte artistiche di alcuni componenti Dynamici. Le prime regie ospitate hanno fortificato la fiducia del Teatro nei nostri confronti, tanto da spingerli a proporci una permanenza stabile da loro. L'offerta che il Teatro Vascello si impegna a sostenere, cioè la produzione di giovani compagnie, è un contributo fondamentale per il nostro lavoro. È una pratica preziosissima in una città come Roma dove anche trovare spazi è una questione spinosa, e non perché non ve ne siano.
​
D. Hic et nunc. Il contingente e la riflessione sul dato reale, che spesso si traduce in cronaca, sembra essere il filo conduttore di molti vostri spettacoli. Esigenza di un teatro politico? 


R. Il teatro dovrebbe essere connesso con la vita e con il contemporaneo. Questo per noi è un pensiero quotidiano. Lavorando con gli adolescenti, sopratutto con l'obiettivo di formarli e avvicinarli alle arti performative, dobbiamo chiederci costantemente in che modo possono trovare in uno spettacolo qualcosa che li riguarda. Siamo nell'era di Netflix non è un processo facile e non riguarda solo loro ovviamente, ma anche e soprattutto, trattandosi della prossima generazione di pubblico. Diciamo che gli adolescenti sono un buon promemoria, perché questo scollamento tra la vita delle persone e il teatro riguarda tutti, è parte della crisi più profonda che sentono oggi i settori artistici.

Qualche tempo fa, entrando in teatro di prima mattina siamo incappati in una scolaresca che attendeva l'inizio di una matinèe. Una ragazza appoggiata al muro con aria svogliata ha proclamato carica di noia "oddio quando vedo il teatro me prende un'angoscia". Ci siamo fermati e abbiamo guardato anche noi l'ingresso, le locandine, l'insegna di quello che in effetti è troppo spesso ridotto a un grosso pachiderma spiaggiato, un luogo distante per la maggior parte delle persone. Non si entra in teatro, non così spontaneamente. Bisogna rieducarci ad attraversarlo, a viverlo, non solo portando il teatro fuori ma anche le persone dentro.

Insomma il teatro dovrebbe occuparsi della vita universalmente parlando, contemplando criticamente le luci e le ombre del contemporaneo per esserlo veramente. Se facesse questo, sfida complessa, non ci sarebbe dubbio che sarebbe sempre anche un teatro politico, come per sua natura è, inteso cioè come qualcosa che si occupa delle persone e delle questioni della polis.
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D. Il corto circuito. Metro quadro espone hostes affascinanti, steward accattivanti e voci suadenti. Sembra un gioco alla seduzione, del pubblico e dei partecipanti la performance. Insomma si usano i mezzi della pubblicità e della persuasione per condurre lo spettatore, seducendolo, a quale orribile verità su noi stessi? 


​Si usano i mezzi della società dello spettacolo, scimmiottandolo, senza prendersi troppo sul serio nelle forme (del resto sono ciò in cui siamo più immersi). Il contenuto invece è molto serio. Quando si scherza bisogna essere seri diceva qualcuno, ecco è vero anche l'inverso e se si riesce nell'intento l'obiettivo può arrivare con più forza.



D. "Grazie per aver giocato con noi". Possiamo affermare che l'arte, almeno da Duchamp in poi, è, e deve continuare ad essere, un gioco serissimo?


R. Appunto sì, come dicevamo sopra.
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D. Laboratori, workshop, formazione ed infanzia. Quanto è necessaria, cito le vostre parole sul sito, "la formazione del pubblico di domani" e quale ruolo il teatro deve assumere nel presente?

​
Anche a questo forse abbiamo in parte già risposto, abbiamo mischiato tutto come al solito, ma il punto è proprio questo: difficilmente riusciamo a scindere i piani. I progetti che trovano una forma performativa raramente nascono da un'intuizione pensata a tavolino. Sono il frutto di percorsi generati da un intento formativo, dall'intento cioè di utilizzare il linguaggio teatrale come pretesto di esplorazione e studio delle dinamiche dell'essere umano.

​M2 ad esempio nasce da un progetto portato avanti con la ONLUS Asinitas, impegnata con rifugiati politici e migranti. Quando la ONLUS ci ha chiesto un contributo per i festeggiamenti dei suoi 10 anni è nata l'idea di questo gioco performativo, una sintesi adatta alla relazione intercorsa negli anni tra noi, loro e i ragazzi incontrati, un quadro ludico di quel percorso. Spesso succede questo: da un cammino formativo arriva uno stimolo, un suggerimento umano, e noi ne annusiamo lo svilu
ppo e lo seguiamo.

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www.dynamisteatro.it

gb 
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​approfondimenti
per un teatro contemporaneo

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CUORI RIVELATI
C&C COMPANY
nO(Dance first.Think later
PER UN TEATRO CONTEMPORANEO

PER UN TEATRO CONTEMPORANEO                          LE COMPAGNIE                                            nO (Dance first. Think later) | ROMA                              CITTA' INFERNO

12/10/2016

 
Foto
Città Inferno | nO (Dance first. Think later), 2016


RECENSIONE
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Terza compagnia ad esibirsi a Per un Teatro Contemporaneo, simpsio teatrale, che, alle Officine Caos, dirette da Stalker Teatro, dedica una tre giorni (1-3 dicembre 2016) al matrimonio felice fra arte performativa e sociale, dando visibilità a giovani compagnie emergenti.

Loro sono i nO (Dance first. Think later), compagnia ibrida con sede a Roma, che negli spazi delle Officine mette in scena Città Inferno. Il richiamo al film Nella città l’inferno, di Renato Castellani con la grandissima Anna Magnani, è dichiarato, mentre appaiono in sordiana altri riferimenti come Chiagaco di Rob Marshall - con cui forse si convivide l'impostazione sotto forma di musical e probabilmente il numero delle donne, nonchè alcune scene - Le sorelle Macaluso di Emma Dante e la serie televisiva The Orange is the new black di Jenji Kohan che dal 2013 porta nelle case italiane la quotidianità delle carceri femminili.

Città Inferno è un punto di vista altro sulle donne. Senza demagogia e privo di pietismo. Non una questione di genere ma consapevolezza che l'orrorre e la tragedia, così come la follia, appartengano all'essere umano tutto, Città Inferno, rende il crimine una cosa comprensibile e l'amore un virus che uccide.

Ironico e ammaliate, così come crudo e coinvolgente, lo spettacolo segue la regia di Elena Gigliotti, giovane attice autrice, che mostra una precoce consapevolezza nel dosare momenti e sensazioni, narrazione e partecipazione, empatia e orrore. E queste sono sfumature di una sensibilità che per prima é spettatrice pretenziosa dei suoi lavori, e che in secondo luogo riesce ad avere la capacità di tradurre e comunicare i diversi stati d'animo, ad un pubblico incuriosito ed affascinanto per tutte le due ore di spettacolo. 


Entriamo, adesso, nel mondo della compagnia e dello spettacolo e scopriamo la Città Inferno di Elena Gigliotti. A domanda, risposta!
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INTERVISTA
​

D. Da Elena Gigliotti a giovane regista della compagnia nO. Quale il percorso e quali le difficoltà, se ce ne sono, per le compagnie emergenti?

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R. Sono stata una ragazza fortunata, perché subito dopo il diploma, lasciata Catanzaro, ho passato le selezioni alla Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Genova. Gli anni della Scuola sono sempre protetti, e il tuo compito è quello di apprendere quanto più puoi. Il problema è il dopo, l’abbandono. A Roma, nell’attesa di una scrittura, si rischia di restare indietro, di trascorrere la maggior parte del tempo a vagare confusi o a lamentarsi della condizione presente, senza prendere finalmente in mano la propria creatività e mettersi in gioco. Così, è nata la Compagnia nO (Dance first. Think Later).

Dalla necessità di dare una risposta che fosse un’azione a quella condizione del “sentirsi abbandonati” o del “e adesso che facciamo?”, un gruppo di giovani della Scuola, coadiuvati dall’insegnante di danza del corso , si sono incontrati per trovare un linguaggio espressivo che li rappresentasse in quel momento di fragilità artistica e al tempo stesso di libertà assoluta. Inutile dire che a causa di troppe difficoltà, il gruppo si è allargato, si è ristretto , si è rotto ed aggiustato. Abbiamo scommesso su un teatro fatto da tante persone contro ogni strategia economica e organizzativa, quindi i Teatri spesso non possono stare dalla nostra parte (loro malgrado), i cachet devono per forza di cose adeguarsi, e diventa difficile permettersi diverse figure che facciano la parte della produzione, della distribuzione e della promozione.

Quindi ci ritroviamo a organizzarci in maniera autonoma in una ristrettezza di tempi che toglie energia al lavoro artistico. Siamo però ottimisti! Crediamo che ne valga la pena perché abbiamo notato una crescita da molti punti di vista. Quindi è necessario analizzare con lucidità il percorso, registrare i miglioramenti, correggere gli errori dovuti al fatto che: nessuno ce l’ha mai insegnato. Per il momento abbiamo un gran desiderio di puntare tutto su questa scommessa. Ognuno di noi, poi, ha un percorso lavorativo e formativo di tipo individuale che permette di ritornare al lavoro di gruppo in maniera più consolidata e matura. 

​

​D. Nè teatro nè danza ma sicuramente arte. Possiamo gridare che l'arte si alimenta d'arte e che ogni linguaggio artistico può essere utile e necessario a seconda delle esigenze drammaturgico/comunicative?

​
R. Né danza, ma Teatro sì. Sicuramente Arte. Se di buona Arte si tratta, lo deve dire il pubblico. E’ difficile trovare un’etichetta, una definizione adatta al nostro linguaggio. E forse non ci interessa, il linguaggio siamo noi. La danza nei nostri spettacoli è un’espressione di sopravvivenza all’idea stessa di danza. Ci commuove proprio questo: la potenzialità del corpo nel suo limite, la sua fantasia, il disordine, il fatto che sarebbe bene che non lo facesse e invece lo fa’.

La recitazione, seppure portata in un contesto atipico, rimane la nostra ancora con la tradizione, di cui non vogliamo minimamente liberarci. La difendiamo perché quando è buona, accade come accade lo slancio di un corpo o un’emozione o la vita stessa. Ogni linguaggio può quindi essere utile e necessario, dobbiamo gridarlo, ma a un patto: che venga capito, o che faccia emozionare; se le cose avvengono contemporaneamente, è il massimo. Ci battiamo per un teatro popolare, non per un teatro intellettuale (anche perché: gli intellettuali dove sarebbero? A poco a poco si stanno estinguendo e adesso tocca per forza a noi, con tutto il disagio che ne consegue. Che non sia la nostra fortuna?).

​Ci battiamo per un Teatro che si fa insieme e la magia avviene quando ciò che è necessario per me diventa una liberazione per te. Tutti i registi, a mio avviso, dovrebbero tenerne conto. La sensazione peggiore che ricordo da spettatrice è il senso di colpa del non aver capito e la sensazione di esclusione da quella festa a cui sono stata invitata.


​
D. Donne e violenza. Non succubi ma parte attiva. Tu affronti la donna da un punto di vista inusuale. Quale esigenza ha mosso la scelta del soggetto?
​


R. Sono una donna. E’ una parola molto faticosa e sorprendente da pensare, scrivere, dire. Ogni volta. Soprattutto quando decidi di parlare di donne, di lavorare con le donne. CITTA’INFERNO nasce da un alibi: la visione del film Nella città l’inferno di Renato Castellani, ambientato in un carcere femminile. CITTA’INFERNO però manda i suoi primi segnali in un momento di rottura con la figura maschile (temporanea, basti pensare che tutte le mie regie sono state condivise o assistite da Dario Aita - unico superstite della formazione originale di nO - e alla fine anche questa, per una scelta, però, più che per un dato di fatto), quando mi sono ritrovata a pensare se fosse possibile farcela, da sola come donna,  insieme ad altre donne.

La selezione è quindi avvenuta così, attraverso la ricerca della specialità di ognuna. Le donne che ho scelto in questo percorso erano le più attive che avessi mai conosciuto, e raramente le donne che ho conosciuto, in mezzo al buio vero, si sono spente. E’ una caratteristica, un luogo comune? Forse (i luoghi comuni da qualche parte saranno pure saltati fuori). Le donne di cui parlo si sono prostituite, hanno ucciso, rubato, fatto del male. Le mettiamo dalla parte della violenza di quella cronaca spesso e volentieri coperta da un fiorellino al cimitero, da un referto psichiatrico che tende a farci stare tranquilli. Non siamo noi, non ci appartiene, pensiamo. Ciò che mi ha spinto a portare in scena questa storia è stato dunque il compito di indagare strettamente la causa di questo orrore: il debito d’amore, la nostra più grande ferita.

Ed è inusuale, effettivamente, la posizione di queste criminali che ci sforziamo di capire, come lo è quella di alcuni uomini che subiscono invece la violenza sempre più diffusa di alcune donne le quali attraverso la loro posizione (difesa da mille associazioni rosa, numeri verdi, e sportelli d’ascolto) agiscono una violenza passiva e sfruttano la loro condizione per portare alla rovina i padri dei loro figli, con un susseguirsi di cause e processi che ingiustamente – delle volte -  sono sostenute dalla giustizia sempre e comunque a favore della donna. 



D. Città inferno. Un grande film con una grande Anna Magnani. Quale difficolta e quale sfida nella trasposizione teatrale?


R. Nella città l’inferno è un grande film perché riesce a rimanere attuale pur parlando di un carcere femminile senza nemmeno far ricorso (a causa della censura di quei tempi) alle parolacce. Questo è curioso. ed ha sorpreso molto gli sceneggiatori nel momento in cui l’hanno rivisto a distanza di tempo. Tuttavia, non si tratta di un film “completo”, esattamente come piace a me. Offre una storia dalla trama lineare, eppure tanti personaggi si muovono intorno senza che venga detto troppo di loro, molto si immagina sia del prima che del dopo.  

In realtà, è stata già portata in scena una trasposizione teatrale del film, ma non ci ho dato molto peso, dal momento che il cinema ci ha dato tutto quello che poteva servirci, senza cadere nell’imitazione che in questi casi è un rischio in cui ci si imbatte. In più la Magnani è la Magnani. Questo è il suo più grande merito. Per noi attrici, un limite che non dovrebbe farci sentire schiacciate, ma grate. Nel mio caso, dopo aver detto grazie, ho pensato che la sua parte avesse molto a che fare con la vita di mia nonna, arrestata negli anni 50 per adulterio. Questo mi sembrava veramente innovativo!

La fusione di personaggi che si assomigliano incredibilmente dai fianchi alla mentalità, dalle sottane alla durezza dei tratti. La stessa cosa è stata fatta per gli altri personaggi. In modo particolare, abbiamo restituito a Giulietta Masina la centralità che meritava e che Castellani non aveva potuto donargli per via della Magnani. La cosa più interessante è stata quella di risolvere le dissolvenze del film, i passaggi da una scena all’altra. Al cinema è la cosa più naturale del mondo, mentre nella creazione dello spettacolo, è stato molto stimolante pensare a delle possibili soluzioni.

Il film viaggia comunque molto vicino alla storia. E mischiare tradizionale al popolare emoziona, come credo faccia piglio sul pubblico, vedere in maniera dichiarata da dove veniamo e verso dove vogliamo dirigerci. Ciò che mi piace ancora di più è che, nello spettacolo, si intuiscano i due mesi passati a guardare film sul carcere che – per chi è appassionato - non è diffivile riconoscere l’influenza dei miei preferiti.
​
D. Il corpo performativo. Il carcere ha una forte componente rituale, così come i personaggi che scegli racchiudono in sé una forte carica performativa: nei gesti, nei movimenti, nella costruzione sociale dei ruoli che ricoprono. Quale selezione, se è avvenuta, nella costruzione dello spettacolo?
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R. Il rituale del carcere è stato alla base della mia ricerca proprio perché la danza è pura espressione necessaria per questi personaggi che trasformano la loro quotidianità in un’ estetica, con slanci inaspettati all’interno però della realtà che il carcere offre, sulla quale non abbiamo potuto evitare di porci delle domande. Abbiamo letto libri scritti dalle detenute, lettere, testimonianze, guardato documentari.

​Inizialmente speravo che il linguaggio dei personaggi potesse essere quanto più vicino a un realismo che tuttavia non conoscevo, perchè non lo avevo vissuto. Carlo De Marino, il mio scenografo e costumista, mi ha fatto invece riflettere sull’utilità del carattere. Ognuna di loro aveva un personalissimo costume d’epoca (non semplice, se parliamo di detenute, differenziarle) e di conseguenza, dentro quei costumi, le attrici hanno iniziato ad indagare le particolari differenze e gli spigoli che, per l’appunto, le caratterizzavano.

La gestualità unica per ognuna, all’interno di coreografie identiche basate sul rituale del caffè in cella, sulla sigaretta rubata, sui bisogni primari, sulle insonnie notturne, ha donato un tocco di specialità allo spettacolo che le attrici si portano dietro anche nelle scene recitate, nei piani d’ascolto e soprattutto a contatto col pubblico, senza sentirsi mai decisamente grottesche, caricate, eccessive. A noi sembra sempre tutto troppo. Il mondo è pieno di carattere. E’ l’aspetto interessante della vita su cui amo soffermarmi di più.


D. La regia. Dosata nelle emozioni e sapiente nel sviscerare le storie dei personaggi catturando l'attenzione del pubblico, la regia subisce, almeno per chi conosce il teatro, il fascino del teatro di Emma Dante: l'uso del dialetto, la frontalità delle sette donne che parlano (pensa alle sorelle Macaluso) un fisicità molto marcata, non ultimo l'esigenza di parlare del nascosto. Ti rivedi nel teatro della siciliana o un percorso a cui sei arrivata autonomamente?


​
R. La prima volta che ho visto uno spettacolo di Emma Dante a teatro ho pensato : il Teatro, per me, comincia oggi. Il suo immaginario mi appartiene completamente, mi rapisce. Adoro la sua fantasia e il suo coraggio. Una delle poche donne che c’è e si fa sentire. Non ho visto le sorelle Macaluso e l’ho incontrata per la prima volta dopo aver già presentato lo studio di CITTA’INFERNO, durante un laboratorio affrontato con grande libertà e fatica. Uno di quei laboratori che lasciano il segno. Ogni tanto le scrivo per raccontarle dove sono, cosa faccio e perché. Mi risponde sempre e mi incoraggia, questo è sorprendente per noi che cerchiamo sempre delle risposte in chi ci ha iniziati anche in maniera inconsapevole, e raramente poi accade il Grande Incontro. Quindi nell’ispirazione Emma Dante c’è, è un’artista a cui devo tanto.

Non è l’unica. Giancarlo Sepe è stato il primo regista con cui ho lavorato che mi ha parlato della Musica, del corpo di un attore, delle immagini, delle visioni. Ho recitato nello spettacolo più divertente della mia vita, e ho appreso da lui che il rischio in teatro è tutto, incluso il pericolo che ne deriva. E’ un outsider, ha una cultura vastissima sempre nutrita dall’influenza dei giovani a cui lui da un’immensa fiducia.

Infine, pur senza che nessuno possa accorgersene, perché i miei spettacoli sono apparentemente tutt’altro, Valerio Binasco è il mio grande maestro. Si arrabbierà se mai lo leggerà, eppure non c’è giorno della mia vita artistica in cui lui non sia presente: nella recitazione, nei linguaggi che indago, ma in modo particolare negli obiettivi. Nella grande onestà con cui si approccia all’Arte, nel mistero dell’incoerenza, nell’osservazione della vita, nella religiosità della disciplina, nel divertimento della festa. E poi ci sono io, che ho scritto su un quaderno questi nomi a vent’anni, e li porto dietro come una famiglia immaginaria che mi affianca nelle scelte, e dalla quale, in maniera del tutto inconsapevole, mi allontano. Con una risposta mia, soltanto mia.

gb



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12/6/2016

 
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I Negri | Cuori Rivelati, 2016


​RECENSIONE

Una delle cinque compagnie emergenti presentate a Per un Teatro Contemporaneo, alle Officine Caos, per la direzione di Stalker Teatro. Loro sono Cuori Rivelati, la compagnia catanese che sul palco delle Officine porta I negri di J. Genet. Svuotato delle parole nè restano le suggestini. Estetiche e poetiche che conducono alla ricerca di una bellezza reale ed autentica. Quella nascosta e che va ricercata. Contemplata perchè è nel suo silenzio che noi tutti possiamo provare ad imparare. 

​Il suo Negri si compone di immagini, di ombre e di luce. Di esperienze vissute che si condividono. Di arte che si fa scambio perchè è nella relazione che trova il suo scopo. Arte teatrale che giocando sui contrasti vince, I Negri di Elena Rosa "ribatte, citando le sue parole, il valore dell’individuo, singolare e unico che di per sè si fa metafora di anti-colonialismo". Con queste parole, non resta che invitarvi a Catania, domenica 29 gennaio allo Zo Centro Culture Contemporanee, in cui I Negri andrà in scena, e vi lasciamo alle parole, sensibili e resistenti, della regista Elena Rosa. Conosciamola meglio e nella conoscenza, il suo universo artistico.


​intervista

D. Da scienze della formazione al Teatro sociale. Quale esigenza ha mosso la scelta?

R. Studiavo pedagogia ma praticavo danza. Frequentavo il teatro e realizzavo performance. Successivamente ho incontrato gli esclusi della società e ho iniziato, con loro, a condurre un laboratorio di teatro danza mettendo insieme l’aspetto pedagogico ed estetico. Non so se definirlo teatro sociale, io vorrei chiamarlo nudamente teatro che, per me, è anche incontro, relazione. Un teatro che accoglie individui isolati, ai margini, ma che sul palco diventano performer, cancellando il ruolo sociale precedente, assunto in una società finta, perchè questi corpi che non esistono per la società e soprattutto li si rendono come fantasmi, nella nostra difficile isola. Comunque c’è stato un profondo spostamento del punto di vista, a distanza di anni, sia nelle scienze della formazione che nel teatro sociale e, oggi, so di avere scelto di lavorare con dei performer con disagio per fame di poesia. Gli esseri poetici sono rari e chi vive in una extra-ordinarietà, quella in cui vivono, è vicino allo stato dell’arte, lì dove io voglio stare.


D. Nel 2012, insieme a Benedetto Cardarella fondate Cuori Rivelati, progetto composito che unisce arti sceniche, disagio mentale e disabilità. Cosa, attraverso l'arte, secondo te, deve essere rivelato ai cuori contemporanei?


R. Ciò che deve essere rivelato è il mistero, il miracolo, l’errore. La rivelazione non come svelamento di una verità tangibile bensì come visione misterica. Un performer con disagio mentale non può che rivelare un mistero sulla natura umana: il suo corpo non è come se fosse (come il corpo di una persona che recita o come il corpo che ricopre un ruolo sociale) ma è corpo natura. Essere in natura come ready made, quindi già opera d’arte. E quando questo corpo appare come rivelazione ci mette in relazione con la parte mancante, fragile e diversa di noi stessi. In scena tutto questo viene rivelato come mistero che ci pone domande su qualcosa di incomprensibile e oscuro. Nella nostra vita quotidiana non c’è spazio per l’oscurità, tutto è illuminato, visibile, con parvenza di efficienza e perfezione. L’errore, il differente, non è contemplato. In scena ci auguriamo che emerga l’errore perché da slancio alla vitalità di questa rivelazione scenica, e spesso un errore diventa un miracolo, esprime l’istante, il qui e ora della performance. Il rischio e l’imprevedibile mobilità della vita.


D. Teatro e Territorio. Come ha reagito la comunità catanese al progetto?


O meglio, come abbiamo reagito noi alla comunità catanese?! Catania è una città teatrale che storicamente ha partorito tanti teatranti. E noi siamo giovani, ancora, forse incompresi, incatalogabili. Qui fare arte è dura, farlo con persone con disagio è impossibile. Parlare di territorio, ahimè, significa parlare di problemi: non ci sono interlocutori nè nel sistema culturale che è paralizzato, né tantomeno nei servizi sociali. e questa impossibilità per noi si fa linfa, motivo di rivolta, desiderio di autogestione. Sguardo verso la trasformazione, libertà e ricerca di un proprio intimo percorso, difesa di una zona poetica intoccabile. Significa non lasciarsi sedurre dal fascino delle compiacenze, restare con un uno spirito felicemente underground.


D. Il testo. I Negri di J. Genet nel tuo spettacolo si fa metafora di che tipo di colonialismo?

​
R. Del testo di Genet non rimane praticamente nulla, restono visioni, immagini. Tutto è scarnificato. E la stessa metafora di colonialismo è cancellata. Non bianchi che colonizzano negri, nessuno contro nessuno. Ma esistenze che appaiono, differenze che si svelano. La questione sul colonialismo è posta a priori, e riguarda lo sfruttamento che operiamo sui diversi, sulla loro condizione e sulle loro culture, coniando nuove e sempre più attente parole per definire il disagio, la paura e la voglia di annullare, rendendola così simile a noi fino a nobilitarla, la diversità. E questo tentativo di normalizzare, non può che farci ribattere il valore dell’individuo, singolare e unico che di per sè si fa metafora di anti-colonialismo.


​
D. La regia. Nel tuo spettacolo opponi due figure femminili, l'una bianca e l'altra nera, e al centro, una zona "grigia" in cui presenti corpi altri, lontani dalla quotidianità televisiva. Chi sono oggi i nuovi negri? Forse che la diversità oggi, rispetto a ieri, è qualcosa di più sottile? E come si rende sulla scena un confine labile come la diversità?
​

R. Chi sono oggi i nuovi negri? Rispondo alla domanda con la domanda di Genet..e per prima cosa di che colore sono i negri? Quella zona grigia è la cenere a cui tutti torneremo. Nè negri, nè bianchi, ma cenere. Siamo tutti destinati alla cenere. Sulla scena non si lavora sull’esaltazione della diversità nel senso di esaltazione della disabilità o di condizione di disagio sociale, ma rivelazione delle singolarità, di esseri poetici. In scena vedere questi corpi altri, lontani ci fa vedere la nostra di lontananza, quella lontananza da noi stessi, perduti in una società ugualizzante, normalizzante. In fondo in teatro si manifesta il desiderio del performer di dire “io esisto, sono qui singolare, unico, guardatemi”. Qui c’è desiderio di esistere in un mondo e in un destino che ha escluso. Questo urgenza, questa motivazione, non fa altro che mostrarci un processo di trasformazione, ovvero un atto che scuote un’immobilità da cui si desidera liberare. Tutto questo come non può mostrarci la diversità?


D. La bellezza. Negri mostra l'esigenza di scovare il bello, di ritrovare la poesia dell'ascolto, l'esigenza della condivisione che sulla scena si traducono con la sensibilità per la musica e la creazioni di forme estetizzate, in cui non mancano le ombre. Quale ideale di bellezza, può salvare oggi? Etico, estetico o tutt'e due?

​
R. Etica, estetica e aggiungo relazione insieme. L’ideale di bellezza? Non esite. Vogliamo opporci a qualsiasi ideale, sarebbe imporre un punto di vista. Vorrei concentrarmi sulle infinite bellezze da scoprire, mai uguali e in ombra. Quelle bellezze in ombra mi affascinano e in scena quando la luce svela è perché l’ombra ha preso il suo tempo, il suo respiro. E il corpo in luce deve farsi abbagliante, lacerante, stridente e percuotente di bellezza.


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