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PER UN TEATRO CONTEMPORANEO                          LE COMPAGNIE                                            nO (Dance first. Think later) | ROMA                              CITTA' INFERNO

12/10/2016

 
Foto
Città Inferno | nO (Dance first. Think later), 2016


RECENSIONE
​

Terza compagnia ad esibirsi a Per un Teatro Contemporaneo, simpsio teatrale, che, alle Officine Caos, dirette da Stalker Teatro, dedica una tre giorni (1-3 dicembre 2016) al matrimonio felice fra arte performativa e sociale, dando visibilità a giovani compagnie emergenti.

Loro sono i nO (Dance first. Think later), compagnia ibrida con sede a Roma, che negli spazi delle Officine mette in scena Città Inferno. Il richiamo al film Nella città l’inferno, di Renato Castellani con la grandissima Anna Magnani, è dichiarato, mentre appaiono in sordiana altri riferimenti come Chiagaco di Rob Marshall - con cui forse si convivide l'impostazione sotto forma di musical e probabilmente il numero delle donne, nonchè alcune scene - Le sorelle Macaluso di Emma Dante e la serie televisiva The Orange is the new black di Jenji Kohan che dal 2013 porta nelle case italiane la quotidianità delle carceri femminili.

Città Inferno è un punto di vista altro sulle donne. Senza demagogia e privo di pietismo. Non una questione di genere ma consapevolezza che l'orrorre e la tragedia, così come la follia, appartengano all'essere umano tutto, Città Inferno, rende il crimine una cosa comprensibile e l'amore un virus che uccide.

Ironico e ammaliate, così come crudo e coinvolgente, lo spettacolo segue la regia di Elena Gigliotti, giovane attice autrice, che mostra una precoce consapevolezza nel dosare momenti e sensazioni, narrazione e partecipazione, empatia e orrore. E queste sono sfumature di una sensibilità che per prima é spettatrice pretenziosa dei suoi lavori, e che in secondo luogo riesce ad avere la capacità di tradurre e comunicare i diversi stati d'animo, ad un pubblico incuriosito ed affascinanto per tutte le due ore di spettacolo. 


Entriamo, adesso, nel mondo della compagnia e dello spettacolo e scopriamo la Città Inferno di Elena Gigliotti. A domanda, risposta!
​
​

INTERVISTA
​

D. Da Elena Gigliotti a giovane regista della compagnia nO. Quale il percorso e quali le difficoltà, se ce ne sono, per le compagnie emergenti?

​
R. Sono stata una ragazza fortunata, perché subito dopo il diploma, lasciata Catanzaro, ho passato le selezioni alla Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Genova. Gli anni della Scuola sono sempre protetti, e il tuo compito è quello di apprendere quanto più puoi. Il problema è il dopo, l’abbandono. A Roma, nell’attesa di una scrittura, si rischia di restare indietro, di trascorrere la maggior parte del tempo a vagare confusi o a lamentarsi della condizione presente, senza prendere finalmente in mano la propria creatività e mettersi in gioco. Così, è nata la Compagnia nO (Dance first. Think Later).

Dalla necessità di dare una risposta che fosse un’azione a quella condizione del “sentirsi abbandonati” o del “e adesso che facciamo?”, un gruppo di giovani della Scuola, coadiuvati dall’insegnante di danza del corso , si sono incontrati per trovare un linguaggio espressivo che li rappresentasse in quel momento di fragilità artistica e al tempo stesso di libertà assoluta. Inutile dire che a causa di troppe difficoltà, il gruppo si è allargato, si è ristretto , si è rotto ed aggiustato. Abbiamo scommesso su un teatro fatto da tante persone contro ogni strategia economica e organizzativa, quindi i Teatri spesso non possono stare dalla nostra parte (loro malgrado), i cachet devono per forza di cose adeguarsi, e diventa difficile permettersi diverse figure che facciano la parte della produzione, della distribuzione e della promozione.

Quindi ci ritroviamo a organizzarci in maniera autonoma in una ristrettezza di tempi che toglie energia al lavoro artistico. Siamo però ottimisti! Crediamo che ne valga la pena perché abbiamo notato una crescita da molti punti di vista. Quindi è necessario analizzare con lucidità il percorso, registrare i miglioramenti, correggere gli errori dovuti al fatto che: nessuno ce l’ha mai insegnato. Per il momento abbiamo un gran desiderio di puntare tutto su questa scommessa. Ognuno di noi, poi, ha un percorso lavorativo e formativo di tipo individuale che permette di ritornare al lavoro di gruppo in maniera più consolidata e matura. 

​

​D. Nè teatro nè danza ma sicuramente arte. Possiamo gridare che l'arte si alimenta d'arte e che ogni linguaggio artistico può essere utile e necessario a seconda delle esigenze drammaturgico/comunicative?

​
R. Né danza, ma Teatro sì. Sicuramente Arte. Se di buona Arte si tratta, lo deve dire il pubblico. E’ difficile trovare un’etichetta, una definizione adatta al nostro linguaggio. E forse non ci interessa, il linguaggio siamo noi. La danza nei nostri spettacoli è un’espressione di sopravvivenza all’idea stessa di danza. Ci commuove proprio questo: la potenzialità del corpo nel suo limite, la sua fantasia, il disordine, il fatto che sarebbe bene che non lo facesse e invece lo fa’.

La recitazione, seppure portata in un contesto atipico, rimane la nostra ancora con la tradizione, di cui non vogliamo minimamente liberarci. La difendiamo perché quando è buona, accade come accade lo slancio di un corpo o un’emozione o la vita stessa. Ogni linguaggio può quindi essere utile e necessario, dobbiamo gridarlo, ma a un patto: che venga capito, o che faccia emozionare; se le cose avvengono contemporaneamente, è il massimo. Ci battiamo per un teatro popolare, non per un teatro intellettuale (anche perché: gli intellettuali dove sarebbero? A poco a poco si stanno estinguendo e adesso tocca per forza a noi, con tutto il disagio che ne consegue. Che non sia la nostra fortuna?).

​Ci battiamo per un Teatro che si fa insieme e la magia avviene quando ciò che è necessario per me diventa una liberazione per te. Tutti i registi, a mio avviso, dovrebbero tenerne conto. La sensazione peggiore che ricordo da spettatrice è il senso di colpa del non aver capito e la sensazione di esclusione da quella festa a cui sono stata invitata.


​
D. Donne e violenza. Non succubi ma parte attiva. Tu affronti la donna da un punto di vista inusuale. Quale esigenza ha mosso la scelta del soggetto?
​


R. Sono una donna. E’ una parola molto faticosa e sorprendente da pensare, scrivere, dire. Ogni volta. Soprattutto quando decidi di parlare di donne, di lavorare con le donne. CITTA’INFERNO nasce da un alibi: la visione del film Nella città l’inferno di Renato Castellani, ambientato in un carcere femminile. CITTA’INFERNO però manda i suoi primi segnali in un momento di rottura con la figura maschile (temporanea, basti pensare che tutte le mie regie sono state condivise o assistite da Dario Aita - unico superstite della formazione originale di nO - e alla fine anche questa, per una scelta, però, più che per un dato di fatto), quando mi sono ritrovata a pensare se fosse possibile farcela, da sola come donna,  insieme ad altre donne.

La selezione è quindi avvenuta così, attraverso la ricerca della specialità di ognuna. Le donne che ho scelto in questo percorso erano le più attive che avessi mai conosciuto, e raramente le donne che ho conosciuto, in mezzo al buio vero, si sono spente. E’ una caratteristica, un luogo comune? Forse (i luoghi comuni da qualche parte saranno pure saltati fuori). Le donne di cui parlo si sono prostituite, hanno ucciso, rubato, fatto del male. Le mettiamo dalla parte della violenza di quella cronaca spesso e volentieri coperta da un fiorellino al cimitero, da un referto psichiatrico che tende a farci stare tranquilli. Non siamo noi, non ci appartiene, pensiamo. Ciò che mi ha spinto a portare in scena questa storia è stato dunque il compito di indagare strettamente la causa di questo orrore: il debito d’amore, la nostra più grande ferita.

Ed è inusuale, effettivamente, la posizione di queste criminali che ci sforziamo di capire, come lo è quella di alcuni uomini che subiscono invece la violenza sempre più diffusa di alcune donne le quali attraverso la loro posizione (difesa da mille associazioni rosa, numeri verdi, e sportelli d’ascolto) agiscono una violenza passiva e sfruttano la loro condizione per portare alla rovina i padri dei loro figli, con un susseguirsi di cause e processi che ingiustamente – delle volte -  sono sostenute dalla giustizia sempre e comunque a favore della donna. 



D. Città inferno. Un grande film con una grande Anna Magnani. Quale difficolta e quale sfida nella trasposizione teatrale?


R. Nella città l’inferno è un grande film perché riesce a rimanere attuale pur parlando di un carcere femminile senza nemmeno far ricorso (a causa della censura di quei tempi) alle parolacce. Questo è curioso. ed ha sorpreso molto gli sceneggiatori nel momento in cui l’hanno rivisto a distanza di tempo. Tuttavia, non si tratta di un film “completo”, esattamente come piace a me. Offre una storia dalla trama lineare, eppure tanti personaggi si muovono intorno senza che venga detto troppo di loro, molto si immagina sia del prima che del dopo.  

In realtà, è stata già portata in scena una trasposizione teatrale del film, ma non ci ho dato molto peso, dal momento che il cinema ci ha dato tutto quello che poteva servirci, senza cadere nell’imitazione che in questi casi è un rischio in cui ci si imbatte. In più la Magnani è la Magnani. Questo è il suo più grande merito. Per noi attrici, un limite che non dovrebbe farci sentire schiacciate, ma grate. Nel mio caso, dopo aver detto grazie, ho pensato che la sua parte avesse molto a che fare con la vita di mia nonna, arrestata negli anni 50 per adulterio. Questo mi sembrava veramente innovativo!

La fusione di personaggi che si assomigliano incredibilmente dai fianchi alla mentalità, dalle sottane alla durezza dei tratti. La stessa cosa è stata fatta per gli altri personaggi. In modo particolare, abbiamo restituito a Giulietta Masina la centralità che meritava e che Castellani non aveva potuto donargli per via della Magnani. La cosa più interessante è stata quella di risolvere le dissolvenze del film, i passaggi da una scena all’altra. Al cinema è la cosa più naturale del mondo, mentre nella creazione dello spettacolo, è stato molto stimolante pensare a delle possibili soluzioni.

Il film viaggia comunque molto vicino alla storia. E mischiare tradizionale al popolare emoziona, come credo faccia piglio sul pubblico, vedere in maniera dichiarata da dove veniamo e verso dove vogliamo dirigerci. Ciò che mi piace ancora di più è che, nello spettacolo, si intuiscano i due mesi passati a guardare film sul carcere che – per chi è appassionato - non è diffivile riconoscere l’influenza dei miei preferiti.
​
D. Il corpo performativo. Il carcere ha una forte componente rituale, così come i personaggi che scegli racchiudono in sé una forte carica performativa: nei gesti, nei movimenti, nella costruzione sociale dei ruoli che ricoprono. Quale selezione, se è avvenuta, nella costruzione dello spettacolo?
​


R. Il rituale del carcere è stato alla base della mia ricerca proprio perché la danza è pura espressione necessaria per questi personaggi che trasformano la loro quotidianità in un’ estetica, con slanci inaspettati all’interno però della realtà che il carcere offre, sulla quale non abbiamo potuto evitare di porci delle domande. Abbiamo letto libri scritti dalle detenute, lettere, testimonianze, guardato documentari.

​Inizialmente speravo che il linguaggio dei personaggi potesse essere quanto più vicino a un realismo che tuttavia non conoscevo, perchè non lo avevo vissuto. Carlo De Marino, il mio scenografo e costumista, mi ha fatto invece riflettere sull’utilità del carattere. Ognuna di loro aveva un personalissimo costume d’epoca (non semplice, se parliamo di detenute, differenziarle) e di conseguenza, dentro quei costumi, le attrici hanno iniziato ad indagare le particolari differenze e gli spigoli che, per l’appunto, le caratterizzavano.

La gestualità unica per ognuna, all’interno di coreografie identiche basate sul rituale del caffè in cella, sulla sigaretta rubata, sui bisogni primari, sulle insonnie notturne, ha donato un tocco di specialità allo spettacolo che le attrici si portano dietro anche nelle scene recitate, nei piani d’ascolto e soprattutto a contatto col pubblico, senza sentirsi mai decisamente grottesche, caricate, eccessive. A noi sembra sempre tutto troppo. Il mondo è pieno di carattere. E’ l’aspetto interessante della vita su cui amo soffermarmi di più.


D. La regia. Dosata nelle emozioni e sapiente nel sviscerare le storie dei personaggi catturando l'attenzione del pubblico, la regia subisce, almeno per chi conosce il teatro, il fascino del teatro di Emma Dante: l'uso del dialetto, la frontalità delle sette donne che parlano (pensa alle sorelle Macaluso) un fisicità molto marcata, non ultimo l'esigenza di parlare del nascosto. Ti rivedi nel teatro della siciliana o un percorso a cui sei arrivata autonomamente?


​
R. La prima volta che ho visto uno spettacolo di Emma Dante a teatro ho pensato : il Teatro, per me, comincia oggi. Il suo immaginario mi appartiene completamente, mi rapisce. Adoro la sua fantasia e il suo coraggio. Una delle poche donne che c’è e si fa sentire. Non ho visto le sorelle Macaluso e l’ho incontrata per la prima volta dopo aver già presentato lo studio di CITTA’INFERNO, durante un laboratorio affrontato con grande libertà e fatica. Uno di quei laboratori che lasciano il segno. Ogni tanto le scrivo per raccontarle dove sono, cosa faccio e perché. Mi risponde sempre e mi incoraggia, questo è sorprendente per noi che cerchiamo sempre delle risposte in chi ci ha iniziati anche in maniera inconsapevole, e raramente poi accade il Grande Incontro. Quindi nell’ispirazione Emma Dante c’è, è un’artista a cui devo tanto.

Non è l’unica. Giancarlo Sepe è stato il primo regista con cui ho lavorato che mi ha parlato della Musica, del corpo di un attore, delle immagini, delle visioni. Ho recitato nello spettacolo più divertente della mia vita, e ho appreso da lui che il rischio in teatro è tutto, incluso il pericolo che ne deriva. E’ un outsider, ha una cultura vastissima sempre nutrita dall’influenza dei giovani a cui lui da un’immensa fiducia.

Infine, pur senza che nessuno possa accorgersene, perché i miei spettacoli sono apparentemente tutt’altro, Valerio Binasco è il mio grande maestro. Si arrabbierà se mai lo leggerà, eppure non c’è giorno della mia vita artistica in cui lui non sia presente: nella recitazione, nei linguaggi che indago, ma in modo particolare negli obiettivi. Nella grande onestà con cui si approccia all’Arte, nel mistero dell’incoerenza, nell’osservazione della vita, nella religiosità della disciplina, nel divertimento della festa. E poi ci sono io, che ho scritto su un quaderno questi nomi a vent’anni, e li porto dietro come una famiglia immaginaria che mi affianca nelle scelte, e dalla quale, in maniera del tutto inconsapevole, mi allontano. Con una risposta mia, soltanto mia.

gb



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PER UN TEATRO CONTEMPORANEO

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