Capita spesso, sempre più di frequente al dire il vero, che la quotidianità sia maledettamente più incredibile di una qualsiasi messa in scena: teatrale o cinematografica. Questo perché l'essere umano è un attore naturale come ha ben sottolineato Pirandello. Da lui in poi, per il Teatro, e confermato dalle Scienze Sociali, sappiamo che gli individui oltre che persone sono, anche, dei personaggi. Tanto che la parola “personaggio” o l'espressione “è un personaggio” sono diventate di uso comune nel linguaggio parlato, a volte per apprezzare tale qualità, altre per denigrarla.
Ciò che distingue nettamente la persona dal personaggio corrisponde esattamente alla enorme differenza che passa fra la definizione di “atteggiamento” e quella di “comportamento”. Per atteggiamenti, in soldoni, possono intendersi quei modi di fare che esprimono la visione che abbiamo di noi stessi: mi piace Van Damme, incomincio ad assumere le sue movenze, mi vesto come lui. O più calzante per i nostri tempi, mi identifico in Fedez, Mondo Marcio, i vari protagonisti del Jersey Shore. I comportamenti, invece, esprimono ciò che siamo e questo sfugge al nostro controllo. Possono controllarsi gli atteggiamenti,si può fingere certo, ma un reale comportamento, mosso dalla nostra vera natura, prima o poi farà emergere tale natura. I comportamenti devono essere confermati nel tempo e devono essere sottoposti ai fatti, purtroppo.
E questo lo sa qualsiasi regista o attore, così come lo sanno i teorici e, più in generale, tutte le persone consapevoli. Studiare, impersonare un ruolo vuole dire uscire da sé, svuotarsi per lasciare spazio a qualcos'altro. Certo si scoprirà che caratteristiche del personaggio fanno parte, anche, di sé, ma tali similitudini non identificheranno totalmente l'individuo/attore come persona. Si recita e nel dare vita a quel personaggio, lo sceneggiatore/scrittore deve farlo in maniera coerente con la storia di “pinco” e l'attore, col corpo e con la voce, deve essere altrettanto coerente nel dare forma e suono alle parole dello sceneggiatore, seguendo i consigli del regista. Nella finzione tutto è perfetto, perché tutto è studiato ed orchestrato.
Nella vita reale questa perfezione viene a mancare. Perché nessuno muove le fila delle nostre personalità in maniera così evidente. Le si manipolano in maniera subdola e i media sono il mezzo attraverso cui questo può accadere, insieme a tutta una serie di consuetudini che si tramandano, non scritte, di generazione in generazione. Imass media hanno preso il posto della letteratura, producono cioè i modelli cui ispirarsi, mostrano caratteri da copia/incollare. Niente di più facile, insomma. E fanc*** alle ore passate a leggere e a riflettere per poi costruirsi facendo spazio fra le voci. Troppo tempo, troppo sforzo, troppo dolore.
Si preferisce comprare l'identità ed il prestigio come si compra o da H&M o da Hermés. O esprimendolo meglio, chi compra dai “Cinesi” non può sperare di parlare con chi acquista da Prada (da leggere con una finta R moscia). Questa è, portata all'esasperazione, l'eterna battaglia fra apparenza ed essenza. La domanda non si chiede più che tipo di persona ho davanti? Ma a che personaggio assomiglia? Magari nella loro vita tutte e due le persone guardano Uomini e Donne al pomeriggio e il Grande Fratello la sera. Tutt'e due amano Barbara D'Urso. E pure nel guardarsi pensano di essere agli antipodi. E questo succede perché vengono meno lo studio, l'osservazione, la riflessione e la comprensione/padronanza che portano, una volta digerite, ad una trasformazione nel modo di vedere le cose, quindi al cambiamento. Questo vale sia per la ri-creazione del personaggio sulla scena e vale, altrettanto, per la costruzione di sé nella vita. Se questo processo viene a mancare avremo a che fare con persone mediocri e personaggi mediocri. Avremo a che fare, ogni giorno e a qualunque grado della gerarchia, con “atteggiamenti” dovuti all'idea di sé, al prestigio che si pensa di avere, o al potere che si pensa di incarnare. Insomma, non basta sentirsi artisti per esserlo, come non basta pensare di essere all'interno di una grande istituzione per non credersi dei mediocri, quando a urlare mediocrità sono i comportamenti, non certo gli atteggiamenti che si rubano da qualche personaggio delle telenovelas spagnole. Di queste assenze o mancate presenze si dava conto inIl Teatro. L'Italia e la penuria di artisti, nel 2015.
"bisogna essere degli esseri umani con un certo spessore prima di essere artisti, così come è necessario, per chi si occupa della teoria culturale, conoscere scopi e ruoli dell'arte. E, se si conosce, la conseguenza è pretendere".
sicilia origini e superamento
Chi scrive è nato in un paesino della provincia di Messina.Scaletta Zanclea è un insieme di 4 frazioni per un totale di 2249 abitanti, dati Istat 2011. Nei piccoli centri del sud vige quella che viene definita “mentalità paesana” o quell'insieme di luoghi comuni e prassi sociale che fanno degli abitanti, dei personaggi. Nelle opere di Sciascia, Pirandello fino a Emma Dante passando per Battiato e Carmen Consoli e danzando con Roberto Zappalà, questa naturale teatralità dei siciliani è servita per fare delle profondissime analisi sull'essere umano, che dal particolare, il caso siciliano, conducono all'universale, diventando patrimonio di tutti.
Tutti i siciliani nascono con la mediocrità nel sangue, attraverso il DNA della storia. Alcuni con questa mediocrità ci vivono pacificamente, altri, che non le sfuggono, le dichiarano guerra. Prima di tutto all'interno di loro stessi, costringendosi, letteralmente, a trasformarla in altro. Poi, e nella trasformazione il rifiuto – perché il contatto ti riporta all'origine -, evitarla nei casi dettati dal buon senso, combatterla nei casi più estremi. In tutti e due i casi, è una questione di sopravvivenza, serve all'equilibrio psicofisico.
Dunque chi scrive è nato mediocre. E questa consapevolezza nasce da un'altra grande verità, ovvero, per arrivare a 10 bisogna partire da 0. In questo percorso da 0 a 10 i siciliani se è vero quanto detto sopra, partono da 5, la mediocrità nelle valutazioni scolastiche. Da qui si può decidere di a) comprendere la propria situazione di partenza e migliorarla sperando, nel corso di un'intera vita, di sfiorare il 10; b) sguazzarci, infondo nell'ignoranza l'appagamento dei consumi; c)scendere più in basso dal 4 in giù nei gradini dell'evoluzione.
Non è detto che tutti partano da 5, ovvero la mediocrità. Per alcuni - le testimonianze storiche e letterali in questo aberrante mercato culturale hanno parecchie cifre - il punto di partenza rappresenta l'approdo di tutta una vita. Si vive e si muore da mediocri. E come spesso accade, magari si acquisisce prestigio, si occupano i piani più alti della gerarchia, ma sarà sempre un punto di vista mediocre. Nel migliore dei casi che imita qualcos'altro a cui aspira, che ammira magari. Ma dal momento che non può arrivarci intimamente, perché vorrebbe dire cambiare non riuscendo la sua natura mediocre, ci si comporta come la volpe con l'uva: si dice che è acerba e la si “snobba” (dal senso letterale sine nobilitate). Possiamo affermare, a questo punto con una certa sicurezza, che un mediocre nella vita corrisponde a teatro a un personaggio mal costruito, non studiato fino in fondo. Potremmo dire che non ha consapevolezza di sé. Che pensa di essere quel personaggio, invece lo scimmiotta. E chi sa osservare nella vita e a teatro, questa sottile differenza la coglie, così come scova la mediocrità che muove certe azioni.
Torino Ritorno alle Origini
Giovanni | Imprinting e Lavoro Torino, è risaputo, perché sono i torinesi a dirlo, rinasce nel 2006 con le Olimpiadi che portano soldi e risistemano la città per ospitare l'evento sportivo per eccellenza. Prima di allora, la caratteristica predominante erano gli Agnelli e la Fiat. Torino era, e ancora è, una città operaia, e il suo ante 2006, a detta di chi c'era, era fatto di bruttezza civica, vita da quartiere con il pub sotto casa. Il post 2006 ha ridato alla città i suoi monumenti valorizzandoli, stimolando la vita e il turismo cittadino. Anche l'Università ha fatto la sua parte e anche le legislazioni che hanno investito sulla cultura hanno avuto un ruolo decisivo. Ma questa apertura che dal 2006 ad oggi conta solo 13 anni, volente o nolente, è frutto di anni di chiusura. E nella sua mentalità la città lo dimostra quotidianamente, dal basso al piano più alto.
La ricerca del lavoro è segnata da questo passato operaio, nel senso che scorrendo la lista dei link delle offerte si scoprirà che Torino richiede: fresatori, manutentori, aiuto cuoco, scaffalisti, operai specializzati, badanti. Torino è la città delle competenze pratiche. Per mia sfortuna ho dovuto constatare che da Milano a Torino il divario è enorme, ed equivale allo stesso divario che io pensavo passasse fra la mia idea di Sicilia e la mia idea di Nord. Torino non è Nord.
Il mondo del lavoro è ancora plasmato dai centri per l'impiego che nell'offrire lavoro devono sottostare alle richieste pratiche di cui sopra, e spesso non riuscendo neanche, basti leggere i commenti alle loro pagine internet. In questo mondo del lavoro non esiste il marketing, Torino non spende in pubblicità per ingrandirsi come fanno le agenzie milanesi, permettendo così lo sviluppo di quello che si chiama, e che Torino sconosce, lavoro momentaneo, utilissimo ai giovani. Parlo di figure professionali come il promoter, non quello delle feste, ma per agenzie come Ikea, che a Milano investiva (e forse investe) ogni settembre e aprile cifre notevoli per sponsorizzarsi, appaltando alle agenzie pubblicitarie. Questi lavori prevedevano un contratto e la paga a 60 giorni, netto ora 8/10 euro, in alcuni casi vitto e alloggio se in trasferta. Continuando con l'elenco, possiamo citare la figura dello steward e dell'hostess, del tutto assenti o quasi a Torino. Ma anche la figura dell'archivista (quelle figure che prezzano la merce), il mio primissimo lavoro notturno da Dechatlon. Esiste a Torino, ho saputo dopo, la Rear, che smista figuranti, maschere e cose del genere. Pagamento 4,70 euro orario. Al di sotto della soglia limite della media nazionale, che dovrebbe ammontare a 9 euro lorde orarie.
Con grande sorpresa, inizio a chiedere in giro come funziona il mondo del lavoro in città. Le risposte più frequenti erano: “per lavorare devi conoscere”, “ringrazia se ti pagano” e “riverisci se ti fanno il contratto”. Tutt'e tre queste frasi, che aprono delle porte sul carattere della città, sul suo modo di essere e agire, hanno fatto parte della mia vita per i primi vent'anni. Il carattere che ne veniva fuori era un modus operandi che io conoscevo benissimo, quello paesano, che a Torino, visto l'ambiente cittadino, possiamo definire provinciale. Pensai: guarda che strani giochi fa la vita.Scappi da un contesto odiandolo, e ti ritrovi in un altro con la stessa identica mediocrità.
Altra esperienza professionale è quella dell'educatore, mansione che svolgo dal 2010 e che a Milano seguiva la paga oraria nazionale 8,tot euro, parlo degli anni 2010-2012. La prima cooperativa per cui lavoravo, addirittura, mi esortava a segnare i minuti in più, a partire dai 10 in poi (per l'attesa di un genitore o cose simili), che venivano conteggiati a fine mese. Nessuno pagava in nero, nessuno non faceva contratti, anche se per un giorno solo di lavoro. A Milano le agenzie interinali erano molto efficienti.A Torino, i siti su cui facevo affidamento – socialinfo, matchcoop, anep – mostravano solo due o tre annunci. E le cooperative conosciute ai colloqui offrivano paghe orarie al di sotto delle 5 euro. Nel tempo, e cambiando la normativa, mi si attirava ai colloqui valorizzando la mia esperienza, per poi declassarla economicamente, nella mancanza del titolo. Altri, come nella peggiore prassi siciliana di 10 anni fa, mi proponevano di essere l'educatore responsabile di un solo caso, abbastanza particolare, per 9 ore, dal lunedì al venerdì ad esempio. Sul contratto scritto figuravano, però, 6 ore, con un massimo di 40 settimanali. Ruolo: animatore. Una di queste furberie - che mai avevo vissuto in Sicilia non lavorando ancora, ma vivendola nei discorsi - la accetto per soldi, era il 2018, ma prometto a me stesso che mai più avrei accettato una cosa del genere non denunciandola o al massimo, una volta firmato, seguirne le regole scritte, non certo le vuote parole. Aggiungo che l'ultimo giorno di lavoro mi sono assentato. Nonostante le ore regalate e rubate, scoprirò dopo, in busta paga, che mancavano le 9 ore giornaliere. Una cooperativa onestissima!
Andando indietro, sottolineando anche il mood cittadino della "controcultura", nel 2014, collaboro con l'Associazione E., con a capo una “rivoluzionaria” di sinistra. Secondo lei. Un individuo con una sindrome spropositata di peter pan, secondo me. Con le parole combatteva il sistema, nei fatti, la mattina usava gli stessi mezzucci che la sera combatteva col pugno sinistro in alto. Eravamo all'interno del progetto Estate Ragazzi, istituti primari insomma, e la si sentiva fare "propaganda politica" ai bambini delle elementari. Per farla breve, per non rischiare di assumermi - ai tempi c'erano i voucher e superata una certa cifra si aveva l'obbligo dell'assunzione - parte della cifra mi è stata data lasciandone traccia, l'altra, poca roba in assenza di testimoni, ma attraverso un giochetto chiarissimo. Abbasso il sistema!! Si impara, insomma. Il brutto e che si impara spesso attraverso le prese in giro degli altri!
Il mio primo lavoro, trovato grazie ad una conoscenza, si è svolto per i Musei Civici, tramite la Cooperativa Arkè, come guida museale e membro del laboratorio didattico, in quanto storico dell'arte ed educatore. Ero felicissimo: le mattine ai musei, le sere a teatro. Dopo sei mesi però, la Cooperativa, che ultimava gli anni che le spettavano, dichiara liquidazione forzata. Io come altri non veniamo pagati. Per motivi personali mi allontano dalla mia conoscenza, che faceva parte del gruppo della cooperativa vincitrice il nuovo appalto. Dopo l'allontanamento, quella che prima era stata una mail di collaborazione si è trasformata in una mail di “non interesse”. Questo modus operandi è stato il mio benvenuto nel mondo del lavoro torinese. Capirete bene che sfuggendo al clientelismo siciliano, e subìto le conseguenze delle “conoscenze” torinesi ci si è sentiti dalla padella alla brace. Il contesto si manifestava in tutta la sua mediocrità e io, guardando con i miei occhi, non riuscivo a crederci, a sole due ore di treno da Milano, ero tornato al sud, nel mio paesino.
Perché se bisogna conoscere per avere il lavoro, questo implica tutta una serie di consuetudini. La prassi, che sia la vita, che il teatro, che la cinematografia financo moltissime serie tv, ci mostrano quotidianamente. E nell'utilitarismo il servilismo. Il lavoro, ancora a Torino come dieci anni fa nella mia “odiata” Sicilia, non è un contratto fra le parti, un'intesa o un compromesso. La seconda parte non esiste nella dialettica, e se firma bisogna che dimostri perenne gratitudine per il dono che gli è stato concesso. Il lavoro non è un diritto, è un regalo che qualcuno pensa di fare a qualcun altro pur prendendolo in giro palesemente. Non solo è un dono, ma a volte è una merce di scambio, altre un modo per tenersi buoni alcune personalità, quelle che riescono a vendersi. Le stesse che pensano: meglio così che niente. O come spesso si diceva in Sicilia, e ancora oggi a Torino, Se non vai tu, sai quanti ne trovano? Siciliani e Torinesi in comune oltre questo, hanno la capacità di farsi rubare le loro ottime idee, e su questo sono sempre i torinesi ad illuminarci nominando: la Moda, Settembre Musica, Il Salone del Libro, il Salone dell'Auto.
Demotivato da queste ri-scoperte, e visto che la “questione lavoro” in Piemonte non è dissimile da quella siciliana di dieci anni fa, decido di usare AirBnb per la sopravvivenza, concentrandomi su quello che volevo fare: scrivere, conoscere, essere dentro la vita culturale cittadina. Alla bassezza dei miei utili (con la scoperta che la generazione dei 30enni di oggi, di cui io faccio parte, è stata definita ”i nuovi poveri”) corrispondevano fiumi di parole che componevano le recensioni.L'Arte, il Teatro, la Danza e il discorso che ne veniva fuori mi hanno letteralmente salvato. Mi hanno portato fuori dalla mediocrità della mia quotidianità. Questa ambivalenza, fra Giovanni e Bertuccio, questa distanza fra il 35enne sfigato e il pensiero critico del giornalista, mi fa stare dentro una schizofrenia quotidiana. E rende impossibile il vivermi serenamente la mia età anagrafica. Non quella di un 35enne mammone, ancora spensierato che vuole fare festa, in una adolescenza perenne come molti individui dai 30 in su. Ma il giovane uomo (nel mezzo del cammin della mia vita), ancora bambino per vocazione, che cerca di crescere evolvendosi. E per il quale, insieme a molti della sua generazione, avere l'indipendenza economica dalla famiglia sembra un miraggio, un incubo/gabbia dal quale è difficile svegliarsi o uscire. Dal 2009 al 2017 tutta la mia attenzione, dunque, si è concentrata nel voler essere, non fare, un critico. E il Teatro è stato, per molto tempo, il lungo in cui io mi sentivo nel posto giusto. Nel 2017 il treno ha di nuovo fischiato.
Bertuccio | Giornalismo e Cultura a Torino Con arrivo a Torino nel luglio del 2012, dopo la formazione milanese (settembre 2009 – giugno 2012), scopro una Torino bellissima, regale ed elegante. Colma, in quell'estate, di numerosi eventi. Scopro il gusto di Teatro a Corte dell'allora direttore Giuseppe Navello. Scopro Settembre Musica insieme, in quell'anno, al Festival internazionale dei cori. Una meraviglia, non poteva esserci benvenuto migliore. La mia curiosità, nei mesi e per anni, mi fa divorare le programmazioni di quasi tutti i teatri: dall'istituzione più acclamata a quella meno pubblicizzata. Dal Regio al Teatro la Marchesa, la mia voracità voleva conoscere tutto (per le recensioni vedere www.giovannibertuccio.weebly.com). Volendo essere dentro la vita culturale della città, sfruttavo al massimo gli accrediti, andando quasi ogni sera in un teatro diverso. Mai segnalando l'evento ma scrivendone sempre dopo. Volevo coltivare il mio pensiero critico, per altro fresco di studi e teorie, non ultima la mia tesi sul Dionisiaco, che plasma tutt'ora il mio punto di vista sull'arte e la vita.
Avendo studiato storia dell'arte e storia del teatro, mi sentivo in dovere di approfondire le mie conoscenze in storia della danza. Di questo periodo sono le letture delle opere del professor Pontremoli Alessandro e della docente Marinella Guatterini, il cui testo L'ABC della danza mi ero portato da Milano. Tutti e due sono docenti che formano discenti e tutt'e due sono anche critici, non giornalisti anche se possono esserlo, preme sottolinearlo. Di Pontremoli scopro che insegna Storia della Danza al Dams di Torino. Gli scrivo per chiedergli se potevo assistere come uditore alle sue lezioni. Permesso concesso e per due anni assisto a svariate lezioni interessandomi alle sue ricerche: la giusta contestualizzazione della nascita della danza moderna e contemporanea in Italia (Sara Acquarone, Anna Sagna e il contesto delle Pioniere).La danza d'autore: vent'anni di danza contemporanea in Italia di Ambra Senatore, allieva di Pontremoli, mi fa scoprire i Solsta Palmizi. Il testo Storia della Danza del Novecento di Pontremoli è stato utilissimo per il quarto numero del magazine suArte e Tecnologia,a proposito dellavideo arte e della video danza.Questi testi, insieme a ricerche personali danno grosso modo le coordinate di partenza e colmano alcune lacune. Scopro che esiste “il caso Torino” per quanto riguarda la danza e scopro che una delle pioniere della danza moderna in Italia opera nel capoluogo piemontese. Per sei anni (2012-2018) mi interesso al lavoro dellaCompagnia Egri/Bianco e, oltre il loro lavoro seguo quasi tutte le edizioni di Torinodanza, Interplay, Teatro a Corte, Insoliti, Ipuntidanza, Balletto Teatro Torino e la rassegna Palcoscenicodanza e negli ultimi annila programmazione di La Lavanderia a Vapore. Conosco personalmente molti dei coreografi e tramite loro mi faccio una prima idea dell'ambiente culturale cittadino.
Altri luoghi di osservazioni sono state le conferenze stampa, in cui l'età media si aggira intorno ai 50 e sfiora i 70, sorpassandoli. Questo su tutti i fronti, danza, teatro, arte. Tanto che scrivo, parlando della Galleria D'arte Moderna, La GAM non è un paese per vecchi, sottolineando quanto datato era il mondo artistico torinese, e quanti pochi giovani attraeva. In più l'essere seduto a teatro, causa o grazie agli accrediti, vicino ad altri giornalisti, mi ha portato a conoscerli, scoprendo due, o forse tre, classi di giornalisti e le “rivalità” interne. Ancora in quel periodo cercavo se non delle guide, degli interlocutori, e visto che mi sentivo carente ho iniziato a leggere, per formazione e quindi per imparare, le loro recensioni. E qualcosa non tornava.
Scrivere, per me, ha sempre voluto dire studiare, leggere i testi dei cataloghi delle mostre, i testi delle messe in scena. Contestualizzarli, e far parlare l'opera più che fare i complimenti all'amico attore o all'amico regista. O peggio ruffianarsi l'ufficio stampa, secondo una modalità, ormai sancita dalla prassi, per cui i giornalisti (quelli che fanno la lista del giorno) finiscono per fare i segretari delle segretarie/i, gli uffici Stampa. E all'inizio, nella mia candida ingenuità, credevo che le chiamate che si permettevano di fare al mio numero personale, erano mosse dalla conoscenza dei testi che scrivevo, non dall'opportunità utilitaristica di avere una segnalazione dello spettacolo che pubblicizzavano o di fare numero alle conferenze stampa. Ricordo che molte non volevano inserire nemmeno il comunicato nell'apposito modulo che il magazine, su cui scrivevo, metteva a disposizione. Molte di queste povere donne, nell'assenza totale di pudore, mi chiamavano per dirmi che non riuscivano e pretendevano, con modi gentili, che lo facessi io. Ho ceduto un paio di volte, dopo di che il rispetto per me stesso, mi ha evitato di rispondere. E se mi concedeva il permesso di farlo, mi imponeva una risposta adeguata per il mio interlocutore. Non ho mai voluto essere un giornalista che segnala, come quelli che a Torino vengono definiti “i giornalai”. Non mi sono formato per fare questo.
Chi acquisisce le competenze di facoltà come storia dell'arte, storia del teatro o della danza, o chi si laurea in istituti come il Dams o le Accademie o i Licei Coreutici,dovrebbe imparare a contestualizzare, approfondendo la disciplina che si è scelto. La differenza fra chi ha e chi non ha tale professionalità traspare, chiara ed evidente, leggendo gli scritti di chi svolge la professione da molte decadi e le nuove leve, sfornate dagli istituti citati sopra. I primi con formazione in Lettere, o Filosofia, o entrambe, alcuni in lingue straniere. Altri, come nella più recente attualità, ricoprono il ruolo di operatori culturali con formazione in economia o marketing legata al mondo dell'arte. Formazione, eccetto quella di operatore culturale, avvenuta in un tempo e in un sistema culturale ed economico completamente diverso da quello odierno. Oggi non basta più sapere scrivere in italiano, o fare cronaca dell'evento. Oggi, vista la fortunata “rivoluzione” universitaria, e l'apertura di centri di formazione specifica, sapere scrivere è postposto al saper contestualizzare. E nella contestualizzazione l'aspirazione alla “cultura enciclopedica” degli illuministi. Perché bisogna conoscere Storia e storie della disciplina, individuarne il contesto storico-politico-sociale e legarlo alla contemporaneità degli ultimi studi al riguardo. Insomma più sai, più punti di vista adoperi nello scrivere una recensione, migliore sarà la contestualizzazione, che resta storica prima di tutto e solo poi, legata alla cronaca.
Perché l'Arte e le sue figlie sono immortali, non i registi o gli attori che ne scrivono solo una parte, agendola. A questo punto verrebbe da chiedersi: ma le critiche letterarie, non seguono gli stessi tòpoi per le recensioni? Si ovviamente, sarebbe la risposta onesta. Ma onesto è sottolinearne anche il diverso contesto in cui queste figure operavano e agiscono oggi. Non sono più gli anni Ottanta, in cui il peso della critica aveva importanza e spessore diverso, e sulle testate sempre meno pagine sono dedicate alla Cultura e all'Arte. Le recensioni sono demandate alle riviste specialistiche e negli ultimi anni alla democratizzazione del web, con l'esplosione di blog e riviste on line. La maggior parte di queste riviste web si occupa, però, come nella gran parte della carta stampata, solo della segnalazione, fungendo come grosso archivio di eventi. Tutti, a ben guardare, essendo pre eventum,riportano le medesime informazioni scritte nel comunicato. Sono pochi coloro che scrivono post eventum una vera e propria recensione. Nei grandi quotidiani stampati è impossibile, visto che ricoprono il ruolo di “butta dentro” facendone pubblicità. E i giornalisti più accreditati, in questa provinciale Italia, sono quelli che segnalano pre eventum, non sapendo come sarà lo spettacolo e se le parole del comunicato corrispondono o meno a ciò che accadrà sulla scena. Quindi non fanno critica. La situazione può riassumersi in questo modo: gli uffici stampa sono dei pr, devono portare gente alla festa. Per fare questo, come tutti usano da una parte i social, dall'altra i giornalisti, in modo che sia maggiore il target di persone e che il loro evento sia segnalato su più piattaforme. Più grande è il bacino di utenza di una rivista, più prestigio godono i suoi giornalisti.Non godono di stima reale, averli coinvolti, lusingandoli, equivale ad avere la segnalazione sul giornale accreditato, il vero scopo dell'ufficio stampa. Avuti i grandi quotidiani, si passa a quelli minori e così via, fino ai magazine on line. Ancora in Italia, e Torino ne è la sua espressione, esiste una distinzione netta, fra la carta stampata e la parola digitale. L'importante, come nella migliore società consumistica, è il numero. Le segnalazioni che messe insieme, gravano positivamente o negativamente, per l'assegnazione dei fondi. Ovviamente sono pochi gli uffici stampa che leggono le recensioni (mi è capitato solo rarissime volte un confronto dopo una recensione con il regista o il coreografo, in un solo caso sono stato contattato direttamente), o meglio che le leggono tutte. Un po' perché non possono, visto che il loro lavoro si focalizza su altro; un po', credo sinceramente, perché non le capirebbero; un po', e questa è la questione decisiva, alcuni bravi e giovani giornalisti o blogger, formati negli istituti di cui sopra, non scrivono per una rivista di cui, l'ufficio, ha sentito parlare, e quindi, forse, vengono sottovalutati. E pure Torino, dopo Bologna e prima di Roma è sede del Dams e di un Liceo Coreutico. Possibile che questo non importi al mondo culturale torinese? Che scimmiotta momenti di critica e premi a studenti che poi dovranno confrontarsi con tutta un'altra, accreditata, categoria di giornalisti? Eppure molti degli uffici stampa sono capitanati da giornalisti, svuotati, però, della passione per la materia e del continuo aggiornamento che necessita. Sono dei pr come dicevamo prima, fanno programmazione e public relation, non si occupano di teorie dell'arte. Assolutamente no! Però la segnalazione, da parte di un ufficio stampa, di una recensione o di un nome o di una rivista, può fare la differenza.
Queste consapevolezze sono arrivate dopo anni e hanno fatto sì che l'euforia iniziale, insieme a quella sensazione di benessere che provavo a teatro, lasciasse il posto ad una sensazione di disagio sempre più intensa. Aggravata anche, dalla mancanza di serietà riscontrata dopo tre colloqui professionali (che dovevano essere retribuiti sottolineo, tanto ormai tutto si svolge per beneficenza e prestigio) avuti con altrettante compagnie torinesi, finite nel silenzio, senza neanche un'umana comunicazione. Nel frattempo, con l'unanimità della commissione,mi iscrivo all'ODG del Piemonte e apro il magazine on line Art is present, ispirato alla performance della Abramovich. Non volendo essere un sito clone dell'Ansa, il magazine dopo il primo numero, in cui si parla di tre artisti emergenti, pubblica numeri tematici (strada, relazione, corpo, tecnologia, e il prossimo queer), sviscerando ogni argomento da tre punti di vista, quello dell'arte, della danza e del teatro. Un lavorone, che numero dopo numero si faceva sempre più intenso. Erano i primi mesi del 2016. L'anno si chiuse con l'entrata nel mondo del precariato scolastico, e l'anno successivo è stato segnato dall'iscrizione alle liste regionali di terza fascia, iniziando il percorso tortuoso nel mondo dell'insegnamento.
Dal 2016 questo stato di cose, mi ha fatto smettere di scrivere recensioni, preferendo sfruttare il contesto così come si presentava e segnalando gli eventi, di cui copia/incollavo il testo del comunicato, sui social. Recensioni ed interviste venivano scritte per commentare festival e rassegne. Per un teatro contemporaneo organizzato da Stalker Teatro nel 2016, di cui ero un membro dei professionisti invitati. Nel 2018, mi dedico alla rassegna Il Cielo su Torino, organizzata dal Teatro Stabile; a Showcase della compagnia Egri/Bianco con attenzione particolare ai nuovi coreografi, e al festival Incanti. Ho seguito anche il Fringe, ma non sono riuscito ad ottenere, dalle due compagnie scelte, nonostante l'interesse mostrato, un reale riscontro: aspetto ancora le ultime due risposte alle 6 mandate, che una delle due prometteva di inviarmi. In tutti questi speciali, figuravano contestualizzazioni, recensioni ed interviste, dall'ultima edizione, a quelle meno recenti.
In più gli ultimi anni, dal 2017 al 2018, alcuni teatri da un lato hanno visto il loro prestigio crescere diventando di interesse nazionale, dall'altro i palinsesti offrivano sempre meno spettacoli innovativi, emozionanti, che comunicavano attraverso un linguaggio attuale, in linea cioè con la storia dell'arte. Ad onor del vero, ad oggi, gli spettacoli più “contemporanei” sono stati visti negli spazi delle Officine Caos e del piccolo Cubo Teatro. Ne è conseguito, un calo di interesse nel mondo culturale cittadino, che dopo sei anni, potevo dire di aver imparato a comprendere. E non mi interessava più, tanto che gli ultimi spettacoli visti risalgono agli inizi della stagione 18/19 e fanno capo alla regista Emma Dante: La Scortecata, palinsesto Stabile e Hans e Gret, programmazione Casa Teatro Ragazzi e Giovani. Era il dicembre 2018 e con l'anno, si chiudeva anche il mio voler parlare del lavoro degli altri, che spesso vuol dire valorizzarlo attraverso il pensiero, e occuparmi del mio giardino. Nell'agosto del 2018 infatti, insieme ad altre persone, formiamo l'Associazione Art is present e tutte le competenze vengono incanalate al suo interno. Il magazine si lega all'associazione e il nuovo numero, a tema Queer, si pone come base teorica di alcuni dei progetti intrapresi. Abbandono, quindi, le abitudini che mi hanno accompagnato negli ultimi nove anni e smetto di andare a teatro.
2012-2019| Conferma e crisi nel settimo anno
Lo racconterò con un sospiro da qualche parte tra molti anni: due strade divergevano in un bosco ed io - io presi la meno battuta, e questo ha fatto tutta la differenza. Robert Lee Frost, La strada non presa
Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde. Alessandro Baricco, Castelli di rabbia
Nel luglio 2019, festeggio sette anni dal mio arrivo a Torino. Il sette è stato sempre un numero primo importante: nella religione, nella mitologia, nell'arte, nella storia, nell'alchimia. In molte culture antiche il numero sette indicava completezza ed è anche il mio giorno di nascita. Il settimo anno a Torino mi regala l'opportunità di confermare coi fatti quanto detto fin ora e quindi la volontà di scrivere questo lungo editoriale. Perché la contestualizzazione è importante!
Prossimo numero del magazine sarà a temaqueer, che quest'anno dalle tre, passa alle quattro redazioni. Parlare di questo tema nel mondo dell'Arte sembra quasi un paradosso, ma nella volontà categorizzatrice si è seguito lo slancio che molte istituzioni hanno avuto nell'affrontare meglio la questione. Il lavoro più difficile è stato ricostruire la storia dell'ordine di genere in Occidente, scoprire quanto differisce dall'Oriente, attraverso un percorso lento, che ricopre gran parte della sua storia. Si parte da Freud e Darwin e poi si percorre tutto il secolo con attenzione alle teorie e agli studi. Due autori per tutti Foucault e Butler.
Studi che vedono le dinamiche di genere attraverso lo spettro del potere e della politica. Non si parla solo di minoranze, sessuali o razziali, si parla di giochi di potere, di dinamiche economiche che cambiano nome e forma, ma si ripetono intatte nei secoli. Il potere, o meglio l'idea che se ne ha, giustifica una serie di nostre paure. Un'idea possiamo farcela pensando a Cani di Bancata di Emma Dante. Spettacolo che ho visto nel 2005, a Catania, nel primo periodo di studi. Si parla di mafia e dunque di potere. Ma questo potere lo si presentava come svuotato, privo di legittimazione quasi. Fissa nella mia mente ancora oggi è la frase “Mai na battuta di spiritu” (mai una frase che denotasse intelligenza, arguzia, furbizia), e in queste parole una denuncia chiara. Il potere su cui si basava la Mafia, in quel caso, si fondava (nel 2005 e secondo la regista palermitana) sulla ripetizione di riti e azioni, e chi agiva lo faceva in virtù di una nomea, di un prestigio. Dalla sinossi dello spettacolo:
"Così rielaboro il rito di affiliazione di un uomo che giurando davanti a Dio si consegna alla mafia per sempre. Questo rito antico è il folclore, è la mafia da cartolina di un “agriturismo” nelle campagne di Corleone dove si mangia ricotta e cicoria e si recitano le preghiere con radio-maria.
Ma il folclore è una tavola imbandita che serve a nascondere l’orrore. Dietro la quale, fuori dagli occhi, avviene ciò che non si può dire, che non entra neanche nelle cronache. La mafia è il trionfo della menzogna, è il rovescio che diventa verso, il sotto che viene a galla, il basso che si fa alto, il delitto che si trasforma in regola.
Questo popolo ha un atteggiamento mafioso che non ha niente a che vedere con la mafia. Faccio un esempio: sto percorrendo in auto una stradina a senso unico e di fronte a me arriva un’auto contromano. Mi fermo, ho fretta e suono il clacson. Aspetto che il conducente indietreggi e, nonostante il mio coraggio, basta un suo sguardo accompagnato da un cenno colla testa per farmi capire che mi conviene fare retromarcia. Non penso che il conducente di quell’auto sia mafioso, anche se lo è il suo atteggiamento. È più facile incontrarlo in un’auto blu nel centro di Roma, il mafioso contemporaneo, nel giusto senso di marcia".
E con questo, torniamo ciclicamente all'inizio, con la distinzione fra persona e personaggio e fra atteggiamento e comportamento. E non ultimo di quanto un'idea di Sud sia padrona, e travestita, al Nord. La sinossi così finiva:
La mafia femmina-cagna schifa se stessa e chiede ai suoi figli di rinnegarla. Li allontana da sé per non infangare il loro nome, è una puttana che si vergogna del suo passato. Col sangue di vittime innocenti li ha nutriti, li ha fatti studiare, li ha nobilitati. Ora i figli sono diventati importanti. Ricoprono alte cariche. La cagna dona ai figli l’Italia capovolta e divisa, fatta di “isuliddi c’un fannu capo a nuddu”. In questa nuova cartina geografica, la Sicilia è al nord. La cagna non si preoccupa più di punire la verità, quella che costò la vita a Peppino Impastato, perché è riuscita a delegittimarla questa verità, screditando la magistratura e assuefacendo l’opinione pubblica all’illegalità.
In un’isola del nord di un’Italia capovolta c’è una città madrìce, un luogo primario, dove un popolo silenzioso, seduto attorno a una tavola imbandita, si spartisce l’Italia e se la mangia a carne cruda.
Parole pesanti, che rendono bene, se comprese, la rabbia che animava alcuni della mia generazione in quei primi anni 2000. E non è un caso che cambiando il contesto ma non i suoi atteggiamenti (tanto il torinese di oggi, era ieri un siciliano), la rabbia si sia trasformata, crescendo, in consapevolezza e quasi accettazione, e la volontà di lottare fine a sé stessa, lasciasse il passo a delle “prese di posizione”. Inutili per la massa, ma necessarie per il rispetto di sé. Comportamenti altri esistono e possono essere, e se qualcosa è mutato dal mio essere adolescente a, forse, un giovane uomo, è stata la consapevolezza che il mondo cambia ma lentamente. Quello che può modificarsi, in tempi più veloci, è il proprio microcosmo. Qui si può essere autori di sé, fare le proprie leggi e seguire i propri valori/ideali. Prima di partire dalla Sicilia, infatti, decido che se devo piangere, devo farlo seguendo emozioni positive. Devo piangere di felicità! E da studiare storia e politica sono passato a studiare storia dell'arte. Negli anni la convinzione è rimasta ed argomentata nell'editoriale Se non piangi non vale, in riferimento alla poco attiva, emozionalmente, mappa culturale torinese.
Infatti per tutta la stagione 18/19, come scritto, non vedo nessun spettacolo. Il teatro mi è mancato però, soprattutto la danza dal vivo, ma vedendo le programmazioni mi venivano in mente lo stagno e la palude, o tutt'e due insieme a formare una palude stagnate. L'occasione si presenta, nove mesi dopo con Torinodanzafestival, con la nuova direzione per il secondo anno, di Anna Cremonini. Professionista appartenente all'ambito romano, quindi fuori dalle dinamiche torinesi, potremmo dire. Seguo i primi due spettacoli, Sutra di Sidi Larbi Cherkaoui e Anatomia di Simona Bertozzi. Ovviamente leggo la presentazione del festival e come sempre contestualizzo gli spettacoli seguendo il fil rouge che lega tutto il palinsesto. E trovo che Anatomia sia fuori contesto. Non scrivo una recensione, ma subito dopo lo spettacolo, a caldo, scrivo un postsulla pagina facebook della rivista. I social funzionano meglio di qualsiasi magazine o rivista, e il post viene visto da un numero notevole di utenti. Non era la prima volta che esprimevo pareri negativi, un esempio dell'anno precedente, meglio strutturato, può essere, infatti, lo speciale dedicato a Il Cielo su Torino.
In quel post lamentavo anche della situazione dei giornalisti esposta sopra. Confermata dalla non poca rilevante questione dei 20 anni di carriera di Sidi Larbi Cherkaoui. E' possibile, mi sono chiesto, che nessuno dell'”intellighenzia” torinese, o del mondo della danza, scriva due righe sul ventennio? O ancora meglio: perché l'ufficio stampa non ha usato questa attrattiva per motivi di marketing? E una conferenza tributo? Nulla! L'indomani del secondo spettacolo, Session, volendo celebrare l'artista, pubblico un lungo articolo che ripercorre grosso modo la sua carriera e ricostruisco il rapporto con l'Italia. Se non è un articolo di critica, può definirsi come una discreta ricerca mossa dalla passione, ma anche dalla volontà di dire a me stesso: puoi criticare la compagine dei giornalisti, ma devi dimostrare il contrario. Mi sembrava coerente se non scontato!
In più in quella serata/evento che proponeva l'ultima creazione di Sidi Larbi, era evidente la gerarchia dei giornalisti con due file diverse, io ero in fila G. Ho sempre preferito, nonostante il prestigio delle prime file, avere una visione a distanza, e come per altre volte, ho atteso nell'ultima fila per ottenere un posto il più lontano possibile a inizio spettacolo. Quella sera mentre aspettavo, lo dico solo a conferma di quanto scritto fin ora, una simpatica collega, a mo' di battuta e semplicemente, mi chiese: che fai qui, ti hanno messo in castigo? Riferendosi al post in questione. No, rispondo e mostro il biglietto indicando numero e fila.
L'articolo sui vent'anni di Cherkaoui, per la prima volta per un mio scritto in sette anni, viene condiviso nella pagina facebook del festival. Privo, però, del nome dell'autore e della foto originale che si sostituisce con quella di un fotografo di cui si segnala il nome. Non si scrivono due o tre righe come per tutti gli altri post,non compare il link al magazine. Si tagga solo sul social la pagina facebook della rivista. Il tag mi ha portato, per la prima volta, a visitare la pagina del festival e a scoprire il camouflage. All'inizio però una parte di me era fiera, ho detto: finalmente! Ma subito dopo, scorrendo i post nella pagina, la cosa mi ha fatto sempre meno onore:figurava come qualcosa scritta da altri. Condivido comunque sulla pagina della rivista e non scrivo nessun commento. Alcune frasi le spendo, però, sul mio profilo personale e scrivo:
Non si poteva non segnarlo ovviamente, ma si evita, confermato dal secondo post sulla pagina di Torinodanza Festival, di non nominare chi firma l'articolo cambiandone anche la foto di presentazione e non facendone figurare neanche il nome del magazine sopra il titolo come per l'altra condivisione in questione. L'articolo sembrerebbe pubblicato su Shr.link. Una svista? L'ennesima conferma? O... Ma comunque piango con un occhio solo, dopotutto, dopo 7 anni, questa è la prima menzione, se pur sui social, del circuito del Teatro Stabile Torino.
Non so spiegare come, sicuramente sfuggendo a qualsiasi logica torinese, il post arriva agli occhi della direttrice che, in contrasto netto con l'andazzo torinese – non sarebbe mai successa una cosa del genere nella direzione precedente – prende posizione e dal suo profilo, acommento del post in questione, scrive queste parole:
L'articolo è di Giovanni Bertuccio. L'ho letto con attenzione perché non avrei saputo ricostruire con tale precisione la storia coreografica di Sidi Larbi Cherkaoui.
Possiamo considerare questo, piccolo ma gigante gesto, come il voler stare lontani da certe dinamiche e farlo vedere nei fatti? Nessun direttore si sarebbe sentito in dovere di prendere posizione se d'accordo conl'ufficio stampa. E, poi, perché mai abbassarsi (lo dico anche per me, se fossi stato al posto della Direttrice) a intervenire in una questione da social? Le risposte a queste domande, hanno confermato la necessità di scrivere questo lungo editoriale, che coincide con i miei primi dieci anni.
L'indomani compare il mio nome, ma non lo si tagga. Prendo la cosa reagendo con una grassa risata e mi vengono in menteFoucault e la Buttler. Ma anche Pascal, Petronio e Diogene. La differenza fra persona e personaggio, e tutto mi ha ri-portato indietro, alla Sicilia di dieci anni fa. E se non ho accettato questo modus operandi nella mia isola, non posso certo condividerlo adesso, nella mia migliore (forse) capacità di intendere e di volere. E come l'anno precedente decido di non seguire più il lavoro degli altri o di interessarmene. Ma mentre l'anno scorso evitavo di rispondere alle chiamate e alle mail, quest'anno ho voluto dare un segno, cancellandomi dalle mailing list di gran parte degli uffici stampa. Dopo il terzo spettacolo di Torinodanza, scrivo anche all'ufficio stampa dello Stabile chiedendo l'eliminazione del mio indirizzo dal loro database. Dal 2018 al 2019, preme dirlo, non è cambiato nulla, sfiduciati dalla mentalità si è preferito rimanere ai margini, con la differenza che, nel 2019, si è fatta forte la necessità di dirlo o farlo notare ai diretti interessati, mettendolo nero su bianco. Scripta manent!
Non mi aspettavo nulla da questo semplice gesto, non volevo muovere nessuna guerra contro i mulini a vento né tanto meno sentirmi una vittima. Ma sottolineare quanto mediocre sia tutto il contesto sopratutto ai livelli più alti, e quanti personaggi esistono, e quante poche reali personalità ho incontrato. E il settimo anno a Torino mi ha dato la plateale possibilità di argomentare il disgusto provato, partendo proprio da una scivolata della seconda istituzione teatrale torinese. Grazie alla vita, e ad una personalità extra moenia, ho potuto URLARE direttamente agli interessati, la volontà di voler prendere le distanze da questo modus operandi. Non una ma mille volte.
Non poteva esserci modo migliore di festeggiare questi ultimi 10 anni. Non poteva esserci regalo più importante del ritrovato rispetto di sé. Una sensazione che nasce sempre da fortissime emozioni contrastanti e dolorose. Che vogliono essere analizzate e comprese. Pretendono, senza cura di chi le prova, di essere ordinate. E dal momento che comandano, bisogna ubbidire (solo alle emozioni) e così si è fatto. Ordinandole e comprendendole. Ne è venuto fuori un discorso sulla mediocrità. Su quella che credevo fare parte del mio contesto d'originee sulla mediocritate che ho scoperto ri-vivendola a Torino. E se nel primo caso sono corso a gambe levate appena ne ho avuto la possibilità, a Torino, scappare, sembrerebbe banale. Vitale, però, prenderne le distanze.