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QUEER E ARTE                                                        1990                                                          REGRESSIONE E ABBIETTO

1/3/2022

 
Foto
Paul McCarthy | Mixed Bag, 2019


​REGREDIRE

Durante il corso degli anni Novanta si è approfondito quel ritorno al reale che Hal Foster intravide già alla fine degli anni Ottanta e che lo indusse a parlare di un'arte che, proprio per la tendenza a non nascondere nulla, poteva diventare pornografia, necrofilia, segnata dall'impudenza e quindi persino “abbietta”.

Rivedendo l'arte degli anni Novanta ci si stupisce delle tante figure di psiche frustrata e corpi feriti, ma bisogna ricordare (come si è fatto in Art&Aids) che fu un periodo di grande risentimento e disperazione per la persistente crisi del virus dell'HIV, la sconfitta dello stato assistenziale, nonché per la povertà crescente. In questo periodo molti artisti misero in scena la regressione come espressione di protesta e di sfida, spesso in forma di performance, video e installazioni.

L'Arte è invasa di avvilimento e rigetto, di confusione, di sporco ed escrementi. Condizioni e sostanze che si oppongono all'ordine sociale e se leggiamo Il disagio della società (1930), Freud afferma, confermando, che la civiltà si fonda sulla rimozione del corpo basso, dell'analità e dell'olfatto, e sul privilegio del corpo eretto, della genitalità e della vista.


E' come se questo tipo di arte cercasse di rovesciare la civiltà, per annullare rimozione e sublimazione attraverso un'ostentazione dell'anale e del fecale. Questa sfida, rappresenta una corrente sotterranea nell'arte del XX secolo: dal manichino da caffè di Duchamp, passando per la merda in scatola di Pietro Manzoni, fino alle pratiche di Kelley e Miller, con cui diventa autocosciente.


Miller e Kelley


“Parliamo di disobbedienza”, dice uno striscione fatto in casa da Kelley, “Me la faccio addosso e ne vado fiero” recita un altro. Per quanto patetica, questa sfida può anche essere perversa: una distorsione delle leggi delle differenze sessuali, una messa in scena delle regressione a un universo anale dove la differenza in quanto tale è oscurata.

Per esempio, in Dick/Jane (1991) Miller sporcò di marrone una bambola bionda con gli occhi azzurri e la seppellì fino al collo in qualcosa che assomigliava a degli escrementi. Personaggi familiari della vecchia scuola elementare, “Dick” e “Jane” insegnarono a una generazione di bambini americani a leggere – e a leggere le differenze sessuali. Nella versione di Miller, Jane è trasformata in un composto fallico e affondata in un tumulo fecale. La differenza tra maschi e femmine è cancellata e sottolineata allo stesso tempo, come la differenza tra bianco e nero. In questo modo Miller crea un mondo anale che testa i termini convenzionali della differenza: sessuale e razziale, simbolica e sociale.

Anche Kelley, spesso, colloca le sua creature in un universo anale. “Noi interconnettiamo tutto, creiamo un campo”, ha fatto dire Kelley dal coniglio all'orsetto, in Teoria, spazzatura, animali di pezza, Cristo, “così non c'è più nessuna differenziazione.” L'artista esplora lo spazio dove i simboli si mescolano, dove “i concetti feci” (denaro, dono), bambino e pene sono a malapena distinti l'uno dall'altro”, come scrisse Freud sullo stadio anale. Kelley partecipa a questo stato di cose non tanto per celebrare l'indistinzione materiale, quanto per mettere in crisi la differenza simbolica. Lumpen, la parola tedesca dalla quale viene Lummpenproletariat (“il rifiuto, la feccia, la schiuma di tutte le classi che interessò Karl Marx), è un termine cruciale nel lessico di Kelley, una sorta di sinonimo di abbietto.

La sua arte è infatti caratterizzata da forme
lumpen (animali giocattolo sporchi legati insieme in masse deformi, tappetini sporchi gettate sopra forme disgustose), temi lumpen (immagini di sporco e spazzatura) e personaggi lumpen (uomini disfunzionali che costruiscono nei semi-interrati e nei giardinetti dietro casa bizzarri congegni con pezzi presi da chi sa dove). Un'arte di oggetti ed esseri degradati che resistono ad una modellazione formale, e ancor più ad una sublimazione culturale o un riscatto sociale.




Ritorno all'infanzia

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Alcuni artisti, invece, sembrano oggettivare, attraverso le loro opere, le fantasie proprie di un bambino. Per esempio, nelle sue installazioni Rona Pondick ha costruito dei teatri quasi infantili di pulsioni orali-sadiche, non solo in Bocca (1992-93), una moltitudine di bocche sporche con denti disgustosi, ma anche in Latte latte (1993), un passaggio di rilievi mammari con capezzoli multipli.

Nel frattempo altri artisti hanno focalizzato la loro attenzione sugli effetti di tali fantasie. A
d esempio Kiki Smith ha sempre colato organi e ossa, come cuori, uteri, bacini e costole, in diversi materiali quali cera, gesso, porcellana e bronzo. Mossa inizialmente da un'autentica forza deflagrante incentrata sulle particolari sculture realizzate, Kiki Smith si è resa nota nei primi anni novanta grazie alla radicalità, quasi sgradevole, con cui ha osservato la natura umana e le sue forme, letteralmente rivoltandole quasi dall'interno all'esterno.
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ABBIETTO
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​“L'abbietto è una sostanza caricata psichicamente spesso immaginaria, che si situa tra qualche parte tra un soggetto ed un oggetto; ci è allo stesso tempo alieno ed intimo e svela la fragilità dei nostri limiti, della distinzione tra ciò che è all'interno o ciò che è all'esterno. L'abiezione cosi è una condizione nella quale la soggettività è messa in crisi, “dove i significati collassano”

 Julia Kristeva

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L'abietto è un concetto complesso sviluppato da Julia Kristeva nel suo libro del 1980 Powers of Horror. Si può dire molto semplicemente che l'abbietto consiste di quegli elementi, in particolare del corpo, che trasgrediscono e minacciano il nostro senso di pulizia e decoro.

L'abietto copre tutte le funzioni corporee, o aspetti del corpo, che sono considerati impuri o inadeguati per l'esposizione pubblica o per la discussione. Ma, sottolinea Jean Clair, il verbo abjicere significa anche rifiutare, vendere a basso prezzo, disfarsi di qualcosa. Insomma, abbietto è tutto ciò che si riferisce sia all'abbattimento che all'avvilimento, tutto ciò che ha a che fare con il campo della degradazione.


Nel 1993 il Whitney Museum di New York, ha allestito una mostra dal titolo Arte abietta: Repulsione e Desiderio nell'Arte americana, che ha dato il “nome” ad una corrente più ampia di cui Cindy Sherman, Louise Bourgeois, Helen Chadwik, Paul McCarthy, Gilbert&George, Robert Gober, Carolee Schneemann, Kiki Smith e Jake e Dino's Chapman e molti altri, sono visti come i fautori dell'abbietto in arte.

Con l'arte abbietta, scriveva Jean Clair, siamo un passo più avanti nell'immondo. Non siamo più nel subjectus del soggetto classico, siamo nell'abjectus, nel rigetto, nello scarto dell'umano postmoderno. È molto di più della tabula rasa dell'Avanguardia. È tutto ciò che si riferisce all'abbattimento, all'avvilimento, all'escrezione.

Questi fenomeni dell'arte attuale, da
McCarthy a Damien Hirst, sono una perfetta illustrazione di quello che il filosofo Marcel Gauchet chiama "l'individuo totale", vale a dire colui che ritiene di non avere nessun dovere nei confronti della società, ma tutti i diritti di un "artista", "totalitario" com'era un tempo lo Stato, in cui traspariva lo spettro del bambino che crede di essere onnipotente e di imporre agli altri, attraverso le istituzioni pubbliche, gli escrementi di cui si compiace.

Nell'arte attuale non faremo l'apprendistato del gusto, ma faremo il disapprendistato di quel disgusto inculcatoci fin dalla prima infanzia, per farci capire che tenere sotto controllo gli sfinteri è cosa importantissima.




Fonti
traduzioni di Davide Monetto

J.Claire, in Jeff Koons e i suoi fratelli quell'arte senza valore (sociale), traduzione di F. Galimberti, in “La Repubblica”, 25-9-2010
​J.Claire, De Immundo, trad. it. di P. Pagliano, Abscondita, Milano 2005
G. Dorfles, Ultime tendenze nell'arte di oggi, Feltrinelli, Milano 1999
H. Foster, The return to the Real, Mit press e October Books, Cambrige, 1996
Abject Art: Repulsion and Desire in American Art. New York: the Whitney Museum of American Art, 1993, curata da Craig Houser, Leslie C. Jones and Simon Taylor con i testi dei curatori e Jack BenLevi.
E. Sussman (a cura di), Mike Kelley: Catholic Tastes, Whitney Museum of American Art, New York, 1993
L. Shearer (a cura di), Kiki Smith, Wexner Center for the Visual Art, Columbus 1992
J. Kristeva, Poteri dell'orrore. Saggio sull'abiezione, Spirali, Milano 1980
Alla voce Abject Art, Glossario della Tate Modern New York http://www.tate.org.uk/collections/glossary/definition.jsp?entryId=7

gb 
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approfondimenti
queer e arte


QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | CORPO, RITO, AKTION
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | POSTMODERNO
QUEER E ARTE | NOVECENTO | COMPORTAMENTO E ARTE
QUEER E ARTE | 1980 | ART&AIDS

Arte dionisiaca | Caos e Tragedia

6/8/2016

 

In origine era il Caos

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Apollo non era il contrario di Dionisio nella Grecia arcaica, bensì l'altro aspetto, e questi due dei, insieme, davano espressione alla realtà esistenziale percepita dai greci. Le pulsioni incontrollate, personificate dal dio caprino, non rappresentavano un polo morale, o meglio, come si direbbe oggi, immorale, bensì erano accettate per quello che sono: una parte del proprio sé. Similarmente Freud arriverà alle medesime conclusioni quando affermerà:

"chiamiamo Es la più antica di queste province o istanze psichiche: suo contenuto è tutto ciò che ereditato, presente fin dalla nascita, stabilito per costrizione, innanzi tutto dunque le pulsioni che traggono origine dall'organizzazione corporea e che trovano qui in forme che non conosciamo una prima espressione psichica. Sotto l'influsso del mondo esterno reale che ci circonda una parte dell'Es ha subito un'evoluzione particolare. Da quello che era in origine lo strato corticale munito degli organi per la ricezione degli stimoli, nonché dei dispositivi che fungono da scudo protettivo contro gli stimoli, si è sviluppata una particolare organizzazione che media da allora in poi fra Es e mondo esterno. Questa regione della nostra psichica l'abbiamo chiamata Io."

Originariamente, dunque, nella storia evolutiva della persona, tutto era Es e l'Io si è sviluppato, come ci dice Freud, dall'Es per influsso persistente del mondo esterno (l'educazione, la civilizzazione). Il mondo esterno, che qui possiamo soprannominare “l'educazione di Apollo”, media e filtra le pulsioni e le trasforma in sublimazione, in arte. Le energie filtrate e sublimate conservano, arrivando alla meta della rappresentazione, una carica sufficiente per produrre l'ebbrezza di Apollo, quella di cui Nietzsche parla e concede anche al dio delfico. Questa non è la stessa ebrezza della scarica nella sua epifania dionisiaca, quella bestiale che si traduce nel grido orgiastico dell'organismo, bensì quella della contemplazione, uno stato di godimento celestiale, paradisiaco, che può essere molto intenso ma da un punto di vista topico si trova all'altro polo. Il concetto di una sublimazione che canalizza le energie dionisiache distillate e depurandole fino al raggiungimento della loro meta.
. Freud, all'intuizione folgorante di Nietzsche, contrapponeva un lungo lavoro empirico ma le conclusioni furono le stesse:

"come da tempo abbiamo appreso, l'arte offre soddisfacimenti sostitutivi per le più antiche rinunce imposte alla civiltà e contribuisce perciò come null'altro a riconciliare l'uomo con i sacrifici da lui sostenuti in nome della civiltà stessa. Le creazioni dell'arte promuovono d'altronde i sentimenti d'identificazione, di cui ogni ambito civile ha tanto bisogno, consentendo sensazioni universalmente condivise e apprezzate: esse giovano però anche al soddisfacimento narcisistico allorché raffigurano le realizzazioni di una certa civiltà alludendo in modo efficace ai suoi ideali.

Muore Dioniso. Muore la Tragedia

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Certo è, da quanto emerge fin qui, che l'alternarsi dei due elementi, apollineo e dionisiaco, è all'origine non solo della vita, essi sono un binomio inscindibile che caratterizza anche l'interiorità dell'uomo. L'uno è necessario all'altro. L'arte, in quanto diretta espressione della vita, ne riproduce il conflitto tragico. Le diverse forme artistiche si sono generate a seconda del prevalere dell'uno o dell'altro elemento, ma il culmine dell'espressività si è raggiunto nella tragedia greca, in quanto al suo interno si riproduce infatti il conflitto in atto nella vita.

"L’eccitazione dionisiaca è in grado di comunicare a tutta una massa questo talento artistico, di vedersi attorniata da una tale schiera di spiriti, con la quale essa sa di essere intimamente una. Questo processo del coro della tragedia è il fenomeno drammatico originario: vedere se stessi trasformati davanti a sé e agire poi come se si fosse davvero entrati in un altro corpo, in un altro carattere […] C’è qui qualcosa di diverso dal rapsodo, che non si fonde con le sue immagini, ma che, simile al pittore, le vede fuori di sé con occhio contemplante; qui c’è già un annullamento dell’individuo per il l’ingresso in una natura estranea […] Il coro ditirambico è un coro di trasformati, in cui il passato civile e la posizione sociale sono completamente dimenticati: essi sono diventati i servitori senza tempo del loro dio, viventi al di fuori di ogni sfera sociale. Tutto il resto della lirica corale dei Greci è soltanto un’enorme estensione del singolo cantore apollineo, mentre il ditirambo ci sta innanzi una comunità di attori inconsci, che si considerano tra loro come trasformati […] In questo incantesimo chi è esaltato da Dionisio vede se stesso come Satiro, e come satiro guarda a sua volta il dio, cioè nella sua trasformazione egli vede fuori di sé una nuova visione, come compimento apollineo del proprio stato."

Privo dell’elemento dionisiaco la commedia nuova non prese le sembianze, come si potrebbe credere, di un’opera devota ad Apollo, bensì seguace di quello che Nietzsche chiamava un socratismo estetico, e quindi di un arte devota e che serve un nuovo demone: Socrate. Sarà questo il nuovo contrasto, non più fra apollineo e dionisiaco, ma fra dionisiaco e socratismo. “tutto deve essere razionale per essere bello”. Questa proposizione che si sposa perfettamente con il principio socratico: “solo chi sa è virtuoso” fu il canone con cui Euripide si misurava per la creazione delle sue opere; tutto divenne razionale, chiaro perché spiegato. E tale tendenza, denuncia il filosofo, è chiara ed evidente all’interno del prologo: 

"che un singolo personaggio si presenti all’inizio del dramma e racconti chi è, che cosa procede l’azione, che cosa è accaduto fin ora, e anche che cosa accadrà nel corso del dramma […] si sa già tutto quello che accadrà; chi vorrà attendere che questo realmente accada, dato che qui in nessun modo si presenta lo stimolante rapporto fra sogno profetico e una realtà che si verificherà più tardi?"

Con il cambiare della struttura e della funzione che il teatro rivestiva, alla tragedia si sostituì la “commedia attica nuova”. In essa sopravvisse, tuttavia, la forma, degenerata, della tragedia, ma ciò che la caratterizzò fu il portare lo spettatore sulla scena: "lo specchio in cui prima venivano riflessi solo i tratti grandi e arditi mostrò ora quella meticolosa fedeltà che riproduce coscienziosamente anche le linee non riuscite della natura". Ora lo spettatore vedeva e sentiva sulla scena il suo sosia, lo prendeva ad esempio, imparava il suo linguaggio: imparava a discutere con le più furbe sofisticazioni, traeva delle conclusioni. È con questo capovolgimento del linguaggio che fu possibile al suo ideatore, Euripide, creare la commedia nuova. Se fino a quel momento il linguaggio era stato determinato dal semi-dio nella tragedia, prendeva ora a parlare la mediocrità cittadina su cui Euripide fondava le sue speranze: ora tutta la massa filosofava, ora conduceva i suoi processi. Euripide portò lo spettatore sulla scena, e così facendo lo mise, per la prima volta, in condizione di poter giudicare il dramma, creando un rapporto di corrispondenza tra opera d’arte e pubblico.

giovanni bertuccio

ARTE DIONISIACA                                                    Il Sublime. Da Burke a Nietzsche

5/25/2016

 
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Uno dei temi che sono maggiormente in grado di mostrare la molteplicità delle fonti e dei problemi relativi all'inizio di un discorso estetico è probabilmente quello del sublime, in cui argomenti poetici, filosofici, etici e artistici in esso si fondono, o si scontrano, in direzioni spesso ambigue e confuse. Il sublime rischia anzi di presentarsi, sul piano storico, proprio come la storia di un equivoco, in cui vi è sempre timore dell'arbitrarietà critica quando, sotto un solo nome, si racchiude l'incrocio di più discipline. Non potendo soffermarci su un percorso lineare ed esaustivo sulle teorie nate attorno al sublime, ci limiteremo a prendere in considerazione le idee di alcuni autori che, attraverso i secoli e le correnti, hanno guardato da diversi punti di vista la questione prima del Novecento.

Certo è che soltanto a partire dal Settecento il sublime diviene una vera e propria categoria estetica, contrapponendosi alla centralità del bello oppure rafforzandone le potenzialità estetiche. Il godimento estetico nelle belle forme, nella grazia e nella proporzione lasciava, nel Settecento, anche se in fase germinale, il posto alla predilezione verso un nuovo sentimento, quello del sublime, in grado di aprire, al nostro interno, un orizzonte oscuro, lo stesso che lega la natura alle passioni dell'uomo. Ed è seguendo questa direzione che Edmund Burke con la sua Indagine filosofica sull'origine delle nostre idee di Sublime e Bello, rappresenta un fondamentale passaggio storico-teorico del concetto. Nella ricerca di Burke il sublime è definito come <<ciò che produce la più forte emozione che l'animo sia in grado di sentire>>; emozione che tuttavia non deriva da una “reale” esperienza negativa ma da una situazione in cui, pur avendo una ben precisa idea del dolore e del pericolo, non né siamo a diretto contatto. Di fronte a sentimenti quali paura, dolore o orrore, lo stupore che invade e paralizza non deve condurre alla distruzione del soggetto, bensì deve indurre la consapevolezza di un dolore “mancato”, che si guarda a distanza. Il piacere generato da questa situazione, sublime perché ambigua, non è per Burke un vero e proprio piacere “positivo” vista la sua relazione con il dolore.

Il sublime si pone dunque come istinto di auto-preservazione in tutte quelle situazioni in cui il soggetto è in uno stato di “privazione”, ad esempio di fronte all'infinito, al vuoto, all'oscurità, alla solitudine o al silenzio. È chiaro come questo tipo di sensazione, o meglio sensazioni al plurale, si contrappongano nettamente al concetto di bello, sia nei risvolti estetici che artistici. Il bello non è più forma, proporzione con Burke. Il bello non deve soddisfare più il piacere degli occhi attraverso giochi cromatici o trovate prospettiche. Più che condizioni esterne il bello deve soddisfare necessità interne. Dalla messa in pratica di regole che ne decretavano la bellezza, l'arte più che essere vista, da qui in poi, e molto lentamente, andava sentita financo vissuta.
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Ovviamente le riflessioni estetiche sul sublime andarono alimentandosi, il secolo di Burke si chiuse con le osservazioni kantiane e le opere di Schiller e Schelling; l'Ottocento caricò di nuova enfasi le definizioni, dando vita alle opere di Hegel e Schopenhauer, con le quali il divario arte vita andava rimpicciolendosi. Consideriamo sinteticamente le opere dei due. Nella sua Estetica, Hegel pone il sublime, concordando con i suoi predecessori, come la manifestazione estetica di un contrasto fra finito e infinito.

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Il sublime diviene il tentativo di esprimere l'infinito, senza che tuttavia si riesca a trovare nel mondo delle apparenze un oggetto che offra per tale infinità un'adeguata rappresentazione. Nel sublime hegeliano, più che il dolore interiore e il tormento etico introdotti in Kant, è presente una tensione inappagata, che spinge verso il superamento delle situazioni sublimi attraverso il divenire dello spirito artistico, in quanto l'arte è in grado di restaurare l'assoluto. Ne Il mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer, invece vede il sublime come vicino a quegli oggetti che invitano con la loro forma alla pura contemplazione ma che, al tempo stesso, per la loro grandezza e “forza superiore”, hanno un atteggiamento ostile e minaccioso nei confronti della volontà umana. È dunque proprio con Schopenhauer che il termine sublime tende ad allontanarsi dal contesto estetico in cui si era inserito da più di un secolo, per presentarsi come una grande metafora della condizione umana, come una sorta di stato esistenziale al tempo stesso eccelso e minaccioso.1

Con i pensatori romantici l'attenzione della riflessione filosofica si sposta dalla natura, come oggetto di indagine, all'arte. Originale, nel periodo romantico, è soprattutto il legame tra le diverse forme, dettato non dalla ragione, ma dal sentimento e dalla ragione, legame che non mira a escludere le contraddizioni o a risolvere le antitesi (finito/infinito, intero/frammento, vita/morte, mente/corpo), ma ad accoglierle in un insieme unitario. La bellezza cessa di essere forma e diventa bello l'informe, il caotico. Non interessa più l'appagamento degli occhi, ma si è più inclini alla fascinazione di ciò che viene suscitato nell'animo dello spettatore.
Con il progredire della società e il suo, conseguente, complicarsi, cambia inevitabilmente, anche il singolo che vive in questa società.

L'uomo moderno non è più, come si credeva, il frutto di un'evoluzione ma, comincia a insinuarsi l'idea che
l'uomo sia il prodotto di una degenerazione della purezza originaria, e poste cosi le cose, la battaglia contro la civiltà andava combattuta con armi nuove, non più trattate dall'arsenale della ragione (che è prodotta dalla medesima degenerazione), ma far prevalere le armi del sentimento, della natura. La natura stessa, contrapposta all'artificio della storia appariva oscura, informe, misteriosa: non si lascia catturare da forme precise e nette, ma travolge lo spettatore con visioni grandiose e sublimi. Per questo non si descrive la bellezza della natura, ma la si sperimenta direttamente, la si intuisce lanciandovisi dentro.
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I significati classici di bellezza, dunque, sono definitivamente ridiscussi e si giunge a ipotizzare, come accadrà in Victor Hugo, che siano la molteplicità delle cose brutte, e non l'armonia della bellezza, le sole capaci di dire la complessità dell'arte. Anche Baudelaire, esaltando il senso simbolico del bello, ne afferra anche la contingenza e di conseguenza la pluralità di modi e categorie attraverso le quali la sua forza può esplicarsi. La bellezza apollinea è ormai attraversata, come dimostra la Nascita della tragedia di Nietzsche, da un impulso dionisiaco, spirito di ebrezza e di trasgressione eccedente. Con quest'opera si chiude il secolo dei romantici e si saluta da vicino il Novecento portando in eredità la distruzione dell'idea classica del bello e della sua autonoma pienezza simbolica. Elementi che avranno pieno compimento nel corso di tutto XXI sec., ma che già, all'epifania del nuovo secolo, trovarono nuova linfa nei movimenti d'avanguardia: Dadaismo, Surrealismo, Espressionismo, Futurismo contestarono fermamente la possibilità di una forma assoluta per il bello e ancor più radicalmente negarono che l'arte possa trovare nella bellezza un principio di sintesi o di definizione.

giovanni bertuccio

L'arte dionisiaca. Tracce di ibridi

5/10/2016

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Sempre più spesso nelle ultime decadi - ma come basso ostinato per tutta la storia dell'arte - piccoli mostri o ibridi uomo-animale hanno occupato tele, sono fuori usciti dalla materia degli scultori, hanno raggiunto la videoarte, sono stati immortalati dalla fotografia. Un mondo fantastico e favolistico che, scacciato dalle società odierne e nascondendosi nei boschi, pretende oggi, a ragione, una sua ricollocazione. Ma perché, un mondo che insegue la bellezza e ha fatto del suo cavallo di battaglia in onore alla civiltà la lontananza dell'uomo dalla sua natura animale, dovrebbe partorire invece, come una serpe in seno, il suo esatto opposto? Cercheremo di scoprirlo e affronteremo anche la scoperta di un'arte devota, consacrata, forse inconsapevolmente, alle istanze dionisiache. Risponderemo alle domande: perché ibridi? Da dove arrivano? Cosa significano? Quale messaggio nasconde questo tipo d'arte? Quale percorso nel panorama della storia delle arti? Cominciamo dunque il viaggio alla scoperta dell'arte dionisiaca e della conseguente profezia dell'uomo nuovo. 

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La Grecia. Preludio e coda 

Nella mitologia greca – civiltà che ci ha fondati e ci ha impartito le migliori lezioni, che ci portiamo dentro, inconapevolmente, nel nostro dna -, gli ibridi uomo-animale incarnano spesso concetti legati al pericolo, alla sfida e alla morte. 
In passato si trattava per lo più di figure femminili (sfingi, meduse, sirene), dalla bellezza pericolosa, in grado di sedurre e uccidere. Il loro potere consisteva nel melodioso e letale canto, e venivano raffigurate con il corpo di uccello e il volto da donna. Nelle epoche successive si sono trasformate diventando con corpo da donna e coda, o coda di pesce, incarnando universalmente il simbolo della seduzione e del fascino femminile. 
Legate alla conoscenza e al mistero della vita e della morte, in età moderna, il fascino di queste creature esplose in ambito simbolista, con la creazione del mito della femme fatale: la donna la cui doppia natura ammalia e distrugge, e sopravvive fino ai nostri giorni, interpretato da artisti di tutte le epoche, da Max Klinger a Paul Delvaux; da Gustav Moreau, Dante Gabriel Rossetti e Kiki Smith fino alla parodia di Jeff Koons.

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Accanto a questa galleria di figure femminili, una quadreria di figure maschili come il Minotauro, i Satiri dionisiaci, le creature mitologiche, con corpo maschile e testa di toro, incarnano fin dall'antichità concetti legati all'istintualità, alla violenza, all'erotismo. 
Per il suo rimando all'istinto, la figura del mostro di Creta si è sposata perfettamente con la poetica surrealista prima e contemporanea poi, volta all'affermazione del potere dell'inconscio, in quanto i Satiri e i Centauri e tutto il corteo dionisiaco, non stanno né coi mortali né con gli dei immortali, ma vivono in una sorta di interregno tra quello umano e quello divino. 

L'idea di un'umanità pre-umana, o para-umana, abitata dagli dei dell'Olimpo e da figure fantastiche si associa all'ideale di un stato di natura assoluto. 
Una zona mitica che sta al di qua e al di là di ogni "disagio della civiltà", un'altra realtà che ci accompagna, un'alterità appunto. 
Sono i tempi di una sessualità violenta e non censurata, dell'erotismo sfrenato, della gioia festosa dell'ebbrezza. Della danza, della musica, ma anche della violenza ferina, non mitigata, selvaggia. Sono anche i mondi della contemplazione dell'armonia arcadica, condizione cui gli uomini aspireranno quale assoluto da raggiungere. L'Arcadia, quindi, è un luogo dell'immaginario ma anche una condizione dello spirito. E se è vero che, come diceva Panofsky, anche nell'Arcadia c'è la morte, si tratterà di una morte accettata come un evento naturale, culmine di un'esistenza ciclica perché mitica. 

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Infine, il ruolo dell'uomo-animale, come essere legato alla divinità o dotato di facoltà superiori, fa si che nella mitologia greca, il centauro Chirone sia un essere civilizzato. E' amico degli uomini ed è maestro di eroi e dei, infatti uno dei suoi compiti è quello della formazione di Achille. Qui, Chirone rappresenta l'ibrido mitico dotato di una saggezza superiore, e qui diviene metafora per una critica sociale, punto nevralgico e significato dell'arte dionisiaca. E sotto questa luce lo hanno visto artisti quali Gustave Moreau, Jacob Jordaens e Jacek Malczeski, in cui l'ibrido è dotato di una creatività che all'uomo/artista è sconosciuta. Proprio nell'opera di Malczewski, infatti, il satiro sussurra all'orecchio del suonatore la "nota sconosciuta", un segreto magico, mostrando il suo legame con le forze divine. Perché allora, concordando con Aby Waburg, l'uomo dovrebbe collocarsi al di sopra degli animali? Gli uomini sono soltanto capaci di fare qualcosa, mentre l'animale è capace di esprimere ciò che è, in modo naturale. 

giovanni bertuccio

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    Giovanni Bertuccio

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Magazine d'Arte e Cultura
​Teatro e Danza. Queer

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Testata giornalistica registrata al Tribunale di Torino n. 439 del 07 novembre 2016
Direttore Giovanni Bertuccio
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