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VIDEO MONoCAnaLE
La maggior parte dei videoartisti fra gli anni Sessanta e Settanta - Nam June Paik, Bill Viola, i Vasulka, Zbigniew Rybczynski, Robert Cahen, Gary Hill, per citare solo alcuni nomi storici - interrompe la produzione “su schermo singolo” a favore della videoinstallazione, ed il semplice passaggio di formato del quadro da 4:3 a 16:9 per alcuni videoartisti rappresenta uno scarto di linguaggio notevole da affrontare: per il video monocanale, bisogna ripensare la modalità di ripresa, mentre per le videoinstallazioni, riprogettare l’intero allestimento, immaginando monitor rettangolari e non più quadrati.
Inoltre l’avvento dell’alta definizione digitale (o HD) provoca una piccola scossa in tutto il comparto audiovisivo, e determina un decisivo ritorno a un’esigenza di pulizia, netidezza e precisione dell’immagine. Una tensione a una forma visiva molto definita, simile a quella fotografica o cinematografica.
La qualità dell’immagine suggerita da questo formato digitale determina uno standard estetico: il ritorno all’idea dell’immagine fotograficamente pulita, quando non addirittura patinata. Da MTV alle mostre di videoarte, la parola d’ordine sembra essere: definizione.
Proprio nel momento in cui le produzioni cinematografiche stanno progressivamente abbandonando la pellicola a favore dell’HD, nel settore videomusicale e in varie esperienze videoartistiche ritorna la pellicola, oltre all’HD, come uno dei supporti possibili da usare. Insomma, nel settore dell’arte contemporanea la videoarte riparte da zero, ovvero dal cinema.
RIPARTIRE DAL CINEMA
Ritornano il set, la troupe e anche alcuni generi trattati, dal punto di vista linguistico, in modo molto classico, come il documentario, spesso intriso di autobiografia, come per esempio nelle produzioni di Shirin Neshat, o nelle videoinstallazioni di Eija-Liisa Ahtila, veri e propri docu-fiction frazionati in vari schermi, come If 6 Was 9, del 1999, o infine in alcune produzioni di Doug Aitken, dove la rappresentazione documentaristica del paesaggio, naturale o industriale, diventa un tema ossessivo.
Il riferimento, spesso nostalgico, alla memoria del cinema e dei suoi divi diffonde una vera e propria cinefilia di ritorno, come in 24 Hours Psycho di Douglas Gordon (1993), dove il film di Alfred Hitchcock viene rallentato fino a diventare, appunto, lungo 24 ore. Mentre in Telephones (1995) e The Clock (2010) di Christian Marclay si ripresenta l’estetica del found footage rimontato.
Ritorna il feticismo nei confronti della pellicola come materiale, per esempio nell’opera di Tacita Dean, che lavora rigorosamente in 16mm ed espone una videoinstallazione dal titolo più che paradigmatico, Film (2011), proiettando immagini su un’enorme struttura verticale a forma, appunto, di pellicola.
Oppure si recupera l’immagine della sala cinematografica in The Muriel Lake Incident (1999) di Janet Cardiff, dove l’installazione consiste nell’inserimento di un piccolo modello di cinematografo dentro una struttura di legno con un’apertura che l’osservatore può usare per guardare all’interno.
FILM
Al contrario, altri artisti creano un’estetica che manda in corto circuito la formula video monocanale con quella più tradizionalmente cinematografica. È il caso di Matthew Barney che fra il 1999 e il 2002 realizza un mastodontico progetto The Cremaster Cycle, formato da cinque episodi.
Il modello linguistico sul quale Barney lavora è una sorta di cinema liquido, ipnotico, dove tutto accade lentamente senza che vengano applicati effetti di rallentamento. Le riprese, girate con una cura maniacale della fotografia fino a risultare patinate, non subiscono nessun tipo di trattamento se non di correzione del colore.
I video di Barney sono la rappresentazione quasi estatica di alcune situazioni visive che lavorano sulla ricchezza di elementi delle scenografie, sulle azioni dei performer, sulle loro mutazioni e sui loro costumi. Con lo stesso approccio è realizzato uno degli ultimi video, Drawing Restraints 9 (2005), ritratto rituale dell’incontro con la musicista islandese Björk.
FILM DA CAMERA
Il video monocanale diventa così una videoinstallazione a schermo singolo, che entra nelle case di chi la acquista come un flusso audiovisivo su un monitor piatto, che può essere usato come un quadro. Che poi il formato finale sia ovviamente digitale, non importa, perché viene percepito e definito anche dagli addetti ai lavori come un “film”, o una foto in movimento.
Nasce un genere che potremmo chiamare film da camera, piuttosto lontano dalle istanze linguisticamente rivoluzionarie e sperimentali della videoarte.
gb
APPROFONDIMENTI
TECNOLOGIA E ARTE
In origine era il Caos
"chiamiamo Es la più antica di queste province o istanze psichiche: suo contenuto è tutto ciò che ereditato, presente fin dalla nascita, stabilito per costrizione, innanzi tutto dunque le pulsioni che traggono origine dall'organizzazione corporea e che trovano qui in forme che non conosciamo una prima espressione psichica. Sotto l'influsso del mondo esterno reale che ci circonda una parte dell'Es ha subito un'evoluzione particolare. Da quello che era in origine lo strato corticale munito degli organi per la ricezione degli stimoli, nonché dei dispositivi che fungono da scudo protettivo contro gli stimoli, si è sviluppata una particolare organizzazione che media da allora in poi fra Es e mondo esterno. Questa regione della nostra psichica l'abbiamo chiamata Io."
Originariamente, dunque, nella storia evolutiva della persona, tutto era Es e l'Io si è sviluppato, come ci dice Freud, dall'Es per influsso persistente del mondo esterno (l'educazione, la civilizzazione). Il mondo esterno, che qui possiamo soprannominare “l'educazione di Apollo”, media e filtra le pulsioni e le trasforma in sublimazione, in arte. Le energie filtrate e sublimate conservano, arrivando alla meta della rappresentazione, una carica sufficiente per produrre l'ebbrezza di Apollo, quella di cui Nietzsche parla e concede anche al dio delfico. Questa non è la stessa ebrezza della scarica nella sua epifania dionisiaca, quella bestiale che si traduce nel grido orgiastico dell'organismo, bensì quella della contemplazione, uno stato di godimento celestiale, paradisiaco, che può essere molto intenso ma da un punto di vista topico si trova all'altro polo. Il concetto di una sublimazione che canalizza le energie dionisiache distillate e depurandole fino al raggiungimento della loro meta.. Freud, all'intuizione folgorante di Nietzsche, contrapponeva un lungo lavoro empirico ma le conclusioni furono le stesse:
"come da tempo abbiamo appreso, l'arte offre soddisfacimenti sostitutivi per le più antiche rinunce imposte alla civiltà e contribuisce perciò come null'altro a riconciliare l'uomo con i sacrifici da lui sostenuti in nome della civiltà stessa. Le creazioni dell'arte promuovono d'altronde i sentimenti d'identificazione, di cui ogni ambito civile ha tanto bisogno, consentendo sensazioni universalmente condivise e apprezzate: esse giovano però anche al soddisfacimento narcisistico allorché raffigurano le realizzazioni di una certa civiltà alludendo in modo efficace ai suoi ideali.
Muore Dioniso. Muore la Tragedia
"L’eccitazione dionisiaca è in grado di comunicare a tutta una massa questo talento artistico, di vedersi attorniata da una tale schiera di spiriti, con la quale essa sa di essere intimamente una. Questo processo del coro della tragedia è il fenomeno drammatico originario: vedere se stessi trasformati davanti a sé e agire poi come se si fosse davvero entrati in un altro corpo, in un altro carattere […] C’è qui qualcosa di diverso dal rapsodo, che non si fonde con le sue immagini, ma che, simile al pittore, le vede fuori di sé con occhio contemplante; qui c’è già un annullamento dell’individuo per il l’ingresso in una natura estranea […] Il coro ditirambico è un coro di trasformati, in cui il passato civile e la posizione sociale sono completamente dimenticati: essi sono diventati i servitori senza tempo del loro dio, viventi al di fuori di ogni sfera sociale. Tutto il resto della lirica corale dei Greci è soltanto un’enorme estensione del singolo cantore apollineo, mentre il ditirambo ci sta innanzi una comunità di attori inconsci, che si considerano tra loro come trasformati […] In questo incantesimo chi è esaltato da Dionisio vede se stesso come Satiro, e come satiro guarda a sua volta il dio, cioè nella sua trasformazione egli vede fuori di sé una nuova visione, come compimento apollineo del proprio stato."
Privo dell’elemento dionisiaco la commedia nuova non prese le sembianze, come si potrebbe credere, di un’opera devota ad Apollo, bensì seguace di quello che Nietzsche chiamava un socratismo estetico, e quindi di un arte devota e che serve un nuovo demone: Socrate. Sarà questo il nuovo contrasto, non più fra apollineo e dionisiaco, ma fra dionisiaco e socratismo. “tutto deve essere razionale per essere bello”. Questa proposizione che si sposa perfettamente con il principio socratico: “solo chi sa è virtuoso” fu il canone con cui Euripide si misurava per la creazione delle sue opere; tutto divenne razionale, chiaro perché spiegato. E tale tendenza, denuncia il filosofo, è chiara ed evidente all’interno del prologo:
"che un singolo personaggio si presenti all’inizio del dramma e racconti chi è, che cosa procede l’azione, che cosa è accaduto fin ora, e anche che cosa accadrà nel corso del dramma […] si sa già tutto quello che accadrà; chi vorrà attendere che questo realmente accada, dato che qui in nessun modo si presenta lo stimolante rapporto fra sogno profetico e una realtà che si verificherà più tardi?"
Con il cambiare della struttura e della funzione che il teatro rivestiva, alla tragedia si sostituì la “commedia attica nuova”. In essa sopravvisse, tuttavia, la forma, degenerata, della tragedia, ma ciò che la caratterizzò fu il portare lo spettatore sulla scena: "lo specchio in cui prima venivano riflessi solo i tratti grandi e arditi mostrò ora quella meticolosa fedeltà che riproduce coscienziosamente anche le linee non riuscite della natura". Ora lo spettatore vedeva e sentiva sulla scena il suo sosia, lo prendeva ad esempio, imparava il suo linguaggio: imparava a discutere con le più furbe sofisticazioni, traeva delle conclusioni. È con questo capovolgimento del linguaggio che fu possibile al suo ideatore, Euripide, creare la commedia nuova. Se fino a quel momento il linguaggio era stato determinato dal semi-dio nella tragedia, prendeva ora a parlare la mediocrità cittadina su cui Euripide fondava le sue speranze: ora tutta la massa filosofava, ora conduceva i suoi processi. Euripide portò lo spettatore sulla scena, e così facendo lo mise, per la prima volta, in condizione di poter giudicare il dramma, creando un rapporto di corrispondenza tra opera d’arte e pubblico.
giovanni bertuccio
Certo è che soltanto a partire dal Settecento il sublime diviene una vera e propria categoria estetica, contrapponendosi alla centralità del bello oppure rafforzandone le potenzialità estetiche. Il godimento estetico nelle belle forme, nella grazia e nella proporzione lasciava, nel Settecento, anche se in fase germinale, il posto alla predilezione verso un nuovo sentimento, quello del sublime, in grado di aprire, al nostro interno, un orizzonte oscuro, lo stesso che lega la natura alle passioni dell'uomo. Ed è seguendo questa direzione che Edmund Burke con la sua Indagine filosofica sull'origine delle nostre idee di Sublime e Bello, rappresenta un fondamentale passaggio storico-teorico del concetto. Nella ricerca di Burke il sublime è definito come <<ciò che produce la più forte emozione che l'animo sia in grado di sentire>>; emozione che tuttavia non deriva da una “reale” esperienza negativa ma da una situazione in cui, pur avendo una ben precisa idea del dolore e del pericolo, non né siamo a diretto contatto. Di fronte a sentimenti quali paura, dolore o orrore, lo stupore che invade e paralizza non deve condurre alla distruzione del soggetto, bensì deve indurre la consapevolezza di un dolore “mancato”, che si guarda a distanza. Il piacere generato da questa situazione, sublime perché ambigua, non è per Burke un vero e proprio piacere “positivo” vista la sua relazione con il dolore.
Il sublime si pone dunque come istinto di auto-preservazione in tutte quelle situazioni in cui il soggetto è in uno stato di “privazione”, ad esempio di fronte all'infinito, al vuoto, all'oscurità, alla solitudine o al silenzio. È chiaro come questo tipo di sensazione, o meglio sensazioni al plurale, si contrappongano nettamente al concetto di bello, sia nei risvolti estetici che artistici. Il bello non è più forma, proporzione con Burke. Il bello non deve soddisfare più il piacere degli occhi attraverso giochi cromatici o trovate prospettiche. Più che condizioni esterne il bello deve soddisfare necessità interne. Dalla messa in pratica di regole che ne decretavano la bellezza, l'arte più che essere vista, da qui in poi, e molto lentamente, andava sentita financo vissuta.
Ovviamente le riflessioni estetiche sul sublime andarono alimentandosi, il secolo di Burke si chiuse con le osservazioni kantiane e le opere di Schiller e Schelling; l'Ottocento caricò di nuova enfasi le definizioni, dando vita alle opere di Hegel e Schopenhauer, con le quali il divario arte vita andava rimpicciolendosi. Consideriamo sinteticamente le opere dei due. Nella sua Estetica, Hegel pone il sublime, concordando con i suoi predecessori, come la manifestazione estetica di un contrasto fra finito e infinito.
Con i pensatori romantici l'attenzione della riflessione filosofica si sposta dalla natura, come oggetto di indagine, all'arte. Originale, nel periodo romantico, è soprattutto il legame tra le diverse forme, dettato non dalla ragione, ma dal sentimento e dalla ragione, legame che non mira a escludere le contraddizioni o a risolvere le antitesi (finito/infinito, intero/frammento, vita/morte, mente/corpo), ma ad accoglierle in un insieme unitario. La bellezza cessa di essere forma e diventa bello l'informe, il caotico. Non interessa più l'appagamento degli occhi, ma si è più inclini alla fascinazione di ciò che viene suscitato nell'animo dello spettatore.
Con il progredire della società e il suo, conseguente, complicarsi, cambia inevitabilmente, anche il singolo che vive in questa società.
L'uomo moderno non è più, come si credeva, il frutto di un'evoluzione ma, comincia a insinuarsi l'idea che l'uomo sia il prodotto di una degenerazione della purezza originaria, e poste cosi le cose, la battaglia contro la civiltà andava combattuta con armi nuove, non più trattate dall'arsenale della ragione (che è prodotta dalla medesima degenerazione), ma far prevalere le armi del sentimento, della natura. La natura stessa, contrapposta all'artificio della storia appariva oscura, informe, misteriosa: non si lascia catturare da forme precise e nette, ma travolge lo spettatore con visioni grandiose e sublimi. Per questo non si descrive la bellezza della natura, ma la si sperimenta direttamente, la si intuisce lanciandovisi dentro.
I significati classici di bellezza, dunque, sono definitivamente ridiscussi e si giunge a ipotizzare, come accadrà in Victor Hugo, che siano la molteplicità delle cose brutte, e non l'armonia della bellezza, le sole capaci di dire la complessità dell'arte. Anche Baudelaire, esaltando il senso simbolico del bello, ne afferra anche la contingenza e di conseguenza la pluralità di modi e categorie attraverso le quali la sua forza può esplicarsi. La bellezza apollinea è ormai attraversata, come dimostra la Nascita della tragedia di Nietzsche, da un impulso dionisiaco, spirito di ebrezza e di trasgressione eccedente. Con quest'opera si chiude il secolo dei romantici e si saluta da vicino il Novecento portando in eredità la distruzione dell'idea classica del bello e della sua autonoma pienezza simbolica. Elementi che avranno pieno compimento nel corso di tutto XXI sec., ma che già, all'epifania del nuovo secolo, trovarono nuova linfa nei movimenti d'avanguardia: Dadaismo, Surrealismo, Espressionismo, Futurismo contestarono fermamente la possibilità di una forma assoluta per il bello e ancor più radicalmente negarono che l'arte possa trovare nella bellezza un principio di sintesi o di definizione.
giovanni bertuccio
Nella mitologia greca – civiltà che ci ha fondati e ci ha impartito le migliori lezioni, che ci portiamo dentro, inconapevolmente, nel nostro dna -, gli ibridi uomo-animale incarnano spesso concetti legati al pericolo, alla sfida e alla morte.
In passato si trattava per lo più di figure femminili (sfingi, meduse, sirene), dalla bellezza pericolosa, in grado di sedurre e uccidere. Il loro potere consisteva nel melodioso e letale canto, e venivano raffigurate con il corpo di uccello e il volto da donna. Nelle epoche successive si sono trasformate diventando con corpo da donna e coda, o coda di pesce, incarnando universalmente il simbolo della seduzione e del fascino femminile.
Legate alla conoscenza e al mistero della vita e della morte, in età moderna, il fascino di queste creature esplose in ambito simbolista, con la creazione del mito della femme fatale: la donna la cui doppia natura ammalia e distrugge, e sopravvive fino ai nostri giorni, interpretato da artisti di tutte le epoche, da Max Klinger a Paul Delvaux; da Gustav Moreau, Dante Gabriel Rossetti e Kiki Smith fino alla parodia di Jeff Koons.
Per il suo rimando all'istinto, la figura del mostro di Creta si è sposata perfettamente con la poetica surrealista prima e contemporanea poi, volta all'affermazione del potere dell'inconscio, in quanto i Satiri e i Centauri e tutto il corteo dionisiaco, non stanno né coi mortali né con gli dei immortali, ma vivono in una sorta di interregno tra quello umano e quello divino.
L'idea di un'umanità pre-umana, o para-umana, abitata dagli dei dell'Olimpo e da figure fantastiche si associa all'ideale di un stato di natura assoluto.
Una zona mitica che sta al di qua e al di là di ogni "disagio della civiltà", un'altra realtà che ci accompagna, un'alterità appunto.
Sono i tempi di una sessualità violenta e non censurata, dell'erotismo sfrenato, della gioia festosa dell'ebbrezza. Della danza, della musica, ma anche della violenza ferina, non mitigata, selvaggia. Sono anche i mondi della contemplazione dell'armonia arcadica, condizione cui gli uomini aspireranno quale assoluto da raggiungere. L'Arcadia, quindi, è un luogo dell'immaginario ma anche una condizione dello spirito. E se è vero che, come diceva Panofsky, anche nell'Arcadia c'è la morte, si tratterà di una morte accettata come un evento naturale, culmine di un'esistenza ciclica perché mitica.
giovanni bertuccio
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Giovanni Bertuccio
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