![]() Gli anni Cinquanta sono il decennio delle performances, degli happenings, anni in cui si esplora lo spazio della comunicazione e si mettono in discussione i codici tradizionali con nuove proposte di comportamenti non finalizzati e liberatori. Le neoavanguardie, non identificando più l’opera d’arte con il manufatto artistico, sperimentano nuovi modelli espressivi e spostano il proprio campo d'azione verso il corpo, conquistando spazio e tempo, coinvolgendo in maniera attiva lo spettatore mettendo in discussione le abituali categorie di percezione. Sviluppatasi in questo clima di apertura verso l’extra-artistico, l'avvento della videoarte muta radicalmente il panorama artistico internazionale. I primi esperimenti di videoarte furono inaugurati dai membri del Fluxus, un movimento che coinvolse nuclei d’artisti in diversi paesi, a cominciare da Stati Uniti e Germania. Una dimensione complessa, non formalistica, che recuperando lo spirito dadaista, esige un nuovo scambio sociale. Membri del Fluxus e pionieri indiscussi della videoarte sono Wolf Vostell e Nam June Paik, che utilizzavano il proprio corpo come mezzo di espressione, oppure inscenavano e documentavano, mediante video e filmati, spettacoli temporanei in cui confluivano il teatro, la musica, la danza e la partecipazione del pubblico, influenzando molti dei più autorevoli rappresentanti dell’arte concettuale. ![]() La ricerca artistica degli anni Sessanta, figlia di quanto detto sopra, genera forme ibride e nuovi linguaggi a seconda della derivazione culturale e del territorio di appartenenza. L’aspetto più generale di questa ricerca artistica consiste nella ricerca di una dimensione temporale che permetta all’opera di avere una durata, uno sviluppo nel tempo, cercando di "immettersi" nella contemporaneità sfruttando il potere comunicativo del mediumo prescelto: l’happening è infatti per definizione l’arte che accade. L’opera non è più un oggetto immodificabile, ma un’azione compiuta nello spazio e nel tempo. Il video, in questa fase originaria, svolge la funzione elementare di riprendere le performances ideate ed eseguite appositamente per la ripresa. Si dimostra, però immediatamente un mezzo espressivo estremamente poetico, se inteso come mezzo di comunicazione di massa. Questa ricerca dei primi anni Sessanta, esamina le possibilità di stabilire un originale linguaggio espressivo utilizzando il nuovo medium elettronico. Ma è nel decennio successivo che il video si rivolge alla complessa dimensione temporale del mezzo televisivo analizzandone criticamente l’ambigua verità. A metà degli anni Sessanta la Sony mette in commercio una videocamera portatile: il port-pack con cui lavorò lo stesso Paik. La videocamera di massa apre agli artisti prospettive inedite, e furono in molti ad esplorarne le potenzialità. Dal 1969 il video comincia ad ancorarsi all’universo delle gallerie d’arte grazie, soprattutto, alla Howard Wise Gallery di New York che organizzò la prima mostra interamente dedicata, TV as Creative Medium. L’anno successivo anche i musei iniziarono ad interessarsi alla videoarte e ad acquisirne le opere. Oltre a New York, Colonia e Wuppertal vanno ricordate come le prime città ad avere ospitato opere in video. gb |
AutoreGiovanni Bertuccio Archivi
Gennaio 2020
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