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TECNOLOGIA E DANZA                                        ANNI DUEMILA                                                    ARTISTI

1/29/2018

 
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Apparition | Klaus Obermaier & Ars Electronica Futurelab, feat. Rob Tannion, 2015

Klaus Obermaier
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Klaus Obermaier, musicista elettronico e artista digitale austriaco, è ideatore di numerose opere multimediali e crossmediali. Sin dagli anni Ottanta ha realizzato opere innovative nei campi della danza, della musica, del teatro, dei nuovi media. 

​Digital Amplified Video Engine

D.A.V.E. (Digital Amplified Video Engine, 1998-2000) è uno spettacolo di danza interpretato da Chris Haring sul tema dell’ibridazione, clonazione e la manipolazione. Completamente realizzato in Mac con diversi tipi di programmi: editing, video cutting, compositing, 3D programme, e sempre “learning by doing”.

La tecnologia interviene sugli organi: strati di immagini video vanno a depositarsi direttamente sul corpo del danzatore - quasi come un “innesto” - proiettando membra, occhi e bocche che deformano il corpo ma non lo intaccano. Il corpo diventa così, figura mitologica: metà uomo e metà animale, metà donna e metà uomo, metà uomo e metà macchina. Mutazione come seconda natura, “felice” alienazione dell’uomo nella sfera tecnologica, passaggio indolore ad una nuova realtà, a una nuova artificialità naturale. Il video fa parte del corpo, o meglio, il danzatore fa parte del video.

La difficoltà nell’affrontare spettacoli come D.A.V.E., in cui l’intenzione è quella di riuscire a coniugare la danza performativa con le nuove tecnologie, sta proprio nel riuscire ad ottenere una perfetta integrazione tra le diverse componenti: proiezioni video, danzatore, musica, spettatore. In 
D.A.V.E i performer sono costretti a reagire in relazione al video, essendo le parti programmate in stretta relazione con la forma dei loro corpi. Per questo la progettazione del software deve seguire dei parametri molto precisi.

La transizione tra i due status, tra immagine e corpo, è fondamentale: una segue l’altra armonicamente, anche se il limite è dato dall’impossibilità di improvvisazione da parte del danzatore. Il movimento del corpo reale diventa un attimo dopo una proiezione video, interrogandosi sull'essere di fronte ad un corpo reale o ad un corpo virtuale.

​Vivisector

Vivisector, 2001-2002, è basato sul concept video-tecnologico della proiezione sul corpo in movimento come D.A.V.E. ma va oltre, ovvero le proiezioni video sono l'unica fonte di luce, senza l’utilizzo di altre luci teatrali a parte la luce del flash. Questa combinazione di immagine video, corpo, spazio acustico, produce un effetto scenico di grande unità. 

​Il sistema digitale diventa, così, il terzo elemento della performance e ha gli stessi limiti e le stesse potenzialità di una drammaturgia teatrale o di una coreografia.

​Le Sacre du Printemps

Per Le Sacre du Printemps, 2007, lo spazio è concepito come immersivo grazie agli occhialetti polarizzati indossati dal pubblico: immagini stereoscopiche sono generate real time da telecamere stereo poste sul palco e un complesso sistema computerizzato permette di trasferire il corpo della danzatrice Julia Mach all’interno di uno spazio virtuale tridimensionale: il corpo umano è ancora una volta un’interfaccia tra realtà e virtualità. 

​Grazie a 32 microfoni, l’intera orchestra è integrata nel processo interattivo perché sia i motivi musicali sia le voci individuali e gli strumenti influenzano la forma, il movimento e la complessità sia delle proiezioni 3D dello spazio virtuale sia quelle della danzatrice. La musica non è più solo un punto di partenza ma anche un completamento stesso della coreografia.

Apparition

In Apparition, 2009, la tecnologia è completamente interattiva e le immagini e i suoni sono generati real time. La motion detection permette di percepire gli spostamenti dei danzatori i quali non essendo più vincolati alla posizione del proiettore, sono liberi di improvvisare. 

Lo scopo è di creare un sistema interattivo che fosse qualcosa di più di una semplice estensione del performer, addirittura un suo partner. Tre sono i parametri fondamentali nell’interazione dei danzatori: la vicinanza, la velocità e l’ampiezza del movimento.


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www.exile.at
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EXP | AIEP, 1996


​Avventure in Elicottero Prodotti

Creata in Svizzera nel 1988, l’Associazione culturale AiEP (acronimo di Avventure in Elicottero Prodotti) nasce da un gruppo di artisti di diversa provenienza, interessati a realizzare progetti di ricerca nell’ambito delle arti visive multimediali e a sviluppare un linguaggio espressivo che attinga dai più svariati campi artistici: danza, musica, video-arte, design.

​La sperimentazione fra corpo e macchina, intrapresa da AiEP, si è sviluppata e perfezionata nel corso degli anni. All’inizio si è manifestata con la semplice presenza di video nello spazio dei corpi danzanti.

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​Exp

Nel 1996, con Exp per la prima volta si sperimenta la danza interattiva, con l’uso del mandala system - realtà virtuale 2D che utilizza la telecamera come dispositivo di input. Affinato in seguito con l’utilizzo della motion capture, modalità che permette mediante sensori applicati al corpo e l’uso di un campo magnetico, la clonazione dei gesti del danzatore.

​Dall’uso della motion capture e di altre tecnologie interattive, come la computer-grafica,  sono nati spettacoli di grande suggestione, pensiamo a MOV e Cromosonics - che vedevano il corpo, non più nella sua accezione materica, ma in un'accezione amplificata, dilatata.


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www.aiep.org
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Claire Bardainne e Adrien Mondot | Cinématique, 2010


​Claire Bardainne e Adrien Mondot

Co-diretta da Claire Bardainne e Adrien Mondot, La compagnia crea forme che vanno dagli spettacoli alle installazioni nel campo delle arti digitali e delle arti dal vivo.

Il loro approccio pone l'umano al centro delle sfide tecnologiche e il corpo al centro delle immagini, con la specificità dello sviluppo su misura dei suoi strumenti informatici, alla ricerca di una vita digitale, mobile, artigianale, effimera e sensibile.

Sette anni sono passati dal loro Cinématique, 2010, un'esplorazione disseminata di insidie ​​immaginarie e poetiche, piccoli piaceri irrisori e esplosioni dell'infanzia, condotta attraverso una partitura digitale suonata dal vivo, mettendo in movimento corpo e oggetti digitali. Il viaggio è un incrocio di materiali virtuali: linee, punti, lettere, oggetti digitali proiettati su superfici piane, tessono spazi che sposano il corpo e il gesto e giungono a rivelare la parte dell'infanzia. E gli strumenti tecnologici consentono la presenza dell'errore, la fragilità la poesia dell'infanzia. 

Dopo il grande successo di Cinématique è la volta di Hakanaï nel 2013, e de Le mouvement de l’air nel 2015. Presentate in Italia grazie al RomaEuropa Festival, anche in queste due opere, la magia della performance nasce dall’incontro del corpo con le entità virtuali prodotte dal computer. Un botta e risposta continuo tra materia e luce, peso e leggerezza, sogno e realtà.

​Un susseguirsi di paesaggi virtuali composti da elementi naturali, numeri, linee, punti, lettere e figure astratte interagiscono in tempo reale con i corpi di una danzatrice e un giocoliere, grazie ai sofisticati software sviluppati dagli stessi autori. La colonna sonora, anch’essa molto suggestiva, è firmata da Christophe Sartori e Laurent Buisson.


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​www.am-cb.net
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Pixel | Mourad Merzouki, 2014

Mourad Merzouki

​Scenografia digitale, effetti tridimensionali sono il centro di Pixel, la performance che mescola il digitale con la street dance, realizzata dalla compagnia francese Kafig, del coreografo Mourad Merzouki, figura di spicco dell’hip hop francese. 

Il corpo umano, dunque, ancora una volta è posto al centro ​delle sfide tecnologiche e artistiche, e la tecnologia è utilizzata per creare una poesia senza tempo, attraverso un linguaggio visivo basato sull'interazione e la creatività generata dall’immaginazione.

All’interno di un mondo digitale, fatto di pixel sensibili ai movimenti, i corpi dei danzatori scorrono sulle superfici creando effetti visivi, alternando alle proiezioni astratte, le illusioni ottiche, facendo dello spettacolo il limen tra realtà fisica e virtuale.


Pixel

Proposto per la prima volta in Italia ad inizio del 2015 - progettato dal programmatore informatico Adrien Mondot, dall’artista multidisciplinare, scenografa e designer Claire Bardainne, e le coreografie di Merzouki - Pixel presenta effetti speciali realizzati grazie all’uso di eMotion, un software creato appositamente, in grado di realizzare animazioni grafiche composte da oggetti e di specificare come farli muovere in combinazione con i movimenti fisici dei danzatori.

​Basato su un sistema di animazione fisico, eMotion indaga il movimento in rapporto alle emozioni. Si tratta di un editor che consente di definire un universo grafico composto di oggetti a forma di punti, linee, immagini, video, e di stabilire il modo in cui si interagisce con loro attraverso il suono, la parola, un Kinect, un Wiimote.

Tutte le immagini vengono quindi generate, calcolate e proiettate dal vivo, al fine di creare una sintesi sensoriale, una realtà tangibile sul palcoscenico.


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www.ccncreteil.com
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Tango de Soledad | Billy Cowie with Amy Hollingsworth | ph Billy Cowie, 2016


​​BILLY COWIE

Billy Cowie, coreografo, musicista, scrittore e artista visivo di origini scozzesi, è celebre per le sue performance stereoscopiche e le sue installazioni video.

A 
Milano, per gli spazi della Fondazione Prada ha ideato  un lavoro site-specific che include musiche, proiezioni video e coreografie dal vivo. Intitolato Attraverso i muri di bruma, le installazioni coreografiche coinvolgono undici danzatori neo-diplomati del Corso di Teatrodanza, diretto da Marinella Guatterini, advisor del progetto. Si tratta di sette interventi in totale, all’interno degli spazi della Fondazione - Noche de Quatro Lunas, Retrospettiva, Casa di Nebbia 1, Danza di Paura, BEH!, Herz, Casa di Nebbia 2 - che attraverso l'uso delle tecnologie producono una drammaturgia condivisa con lo spettatore, continuamente partecipe, alla ricerca del proprio senso.

Nel suo libro Anarchic Dance (2006), Cowie scrive: la convenzione dello spazio buio del palcoscenico non è avvertita come piatta solo in termini visivi, ma anche in termini fisici. Una risposta quasi scontata all’onnipresente black box è un lavoro di danza site-specific in cui il coreografo può usare la dimensione verticale – scale, terrazze, salite – e dove una ricchezza di contesti visualmente interessanti può contraddistinguere il suo progetto. 

E in effetti, gli spettatori “al posto di essere degli ostaggi passivi, diventano degli esploratori alla ricerca del migliore punto di vista, in perenne movimento con i danzatori, liberi di andarsene quando sono stanchi o di ritornare quando lo desiderano, di essere accompagnati dai propri amici, di conversare con loro”.

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www.billycowie.com
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Ataxia | Wayne Mcgregor, 2004


​wayne mcgregor

​​Il lavoro di Wayne McGregor é onnicomprensivo, riesce a condurre la danza e il movimento a un’ideologia gestuale d’avanguardia, dove sembrano non esistere limiti spaziali e temporali. Vere e proprie elaborazioni matematiche, legate allo studio delle dinamiche del corpo, le sue opere indagando, al contempo, la dimensione cognitiva e percettiva dell’uomo.

​Il coreografo si é spesso focalizzato sul rapporto tra tecnologia e movimento: già dal 1998 con uno dei suoi primi spettacoli, Sulphur 16, comincia ad utilizzare figure digitali che si intrecciano ai danzatori sul palcoscenico, mentre in Aeon (2000) inserisce paesaggi computerizzati, suggestionando lo spettatore e conducendolo all’interno della creazione stessa in una sorta di realtà parallela.



Ataxia

Dal 2004, con lo spettacolo Ataxia, McGregor inizia a sviluppare un linguaggio personalissimo e originale caratterizzato dalla fluidità del movimento di un corpo apparentemente privo di ossa e articolazioni, con un ritmo scandito da musica elettronica, passando da Ben Frost, Olafur Arnalds ai Radiohead.


Entity

Sempre dal 2004 il coreografo diventa ricercatore all’Università di Cambridge, nel dipartimento di psicologia sperimentale, focalizzandosi sul rapporto corpo-cervello. Rapporto che viene indagato sempre più tramite lo studio sulla percezione, ripreso da McGregor anche nel 2008 per lo spettacolo Entity, avvalendosi di algoritmi di Intelligenza Artificiale per sviluppare sequenze coreografiche autonome, creando così una connessione tra funzionamento del cervello e schema di ogni passo.


Dyad


Lo studio della cognizione creativa risulta centrale nei lavori di McGregor: per Dyad 1909 (2009), l’intero processo viene mappato da un team di scienziati cognitivi dell’Università di San Diego. Una struttura coreografica senza limiti apparenti, analisi minuziose, ricerche complesse, il corpo come strumento che indaga e viene indagato, traiettorie di movimento, precisione e velocità, tutti elementi che si fondono alla tecnologia e alle nuove avanguardie.


Atomos

In ATOMOS – parola greca per indivisibile (vedi video sopra) – McGregor, a partire dal suo interesse verso la cellula – elemento strutturale, primordiale e vitale di tutti gli esseri viventi – crea un’opera coreografica che indaga la complessità delle strutture, “atomizzando” corpi, movimento, immagini video, audio e luci. L’intenzione è quella di partire dall’unità indivisibile di una coreografia per arrivare al suo sviluppo, considerandola come una struttura vivente, dando vita ad un flusso continuo di energia e tecnica che cattura lo sguardo, la mente, l’udito.

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waynemcgregor.com

gb 
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APPROFONDIMENTI
TECNOLOGIA E DANZA

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TECNOLOGIA E DANZA | ANNI 10 | SPETTACOLI
TECNOLOGIA E DANZA | STATI UNITI
TECNOLOGIA E DANZA | INGHILTERRA E ITALIA
TECNOLOGIA E DANZA | TELE VS VIDEO

TECNOLOGIA E DANZA                                          ANNI 2010                                                                  SPETTACOLI

1/22/2018

 
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Lol | Protein Dance, 2011


LOL, 2011
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Vincitore del British Dance Award 2011 e amatissimo dalla critica inglese che lo ha definito il "miglior lavoro di Silvestrini", Lol, 2011, catapulta lo spettatore nel mondo delle nuove tecnologie in cui ciascuno si destreggia tra "first and Second Life", tra l'immagine reale di sé e quella virtuale, osservando da vicino la vita di sei personaggi con le loro aspirazioni e la loro fragilità nel costruire relazioni reali.

​Internet ci da infatti l'illusione di quanto sia facile socializzare, conoscere partner a suon di click, cambiare identità modificando le nostre foto su facebook o cercandone le angolazioni più propizie alla stimolazione del desiderio della nostra preda. 
RECENSIONE
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Soliloquy Abaout Wonderland | Vortice Dance Company, 2011


​Soliloquy Abaout Wonderland, 2011

Semplici, ma geniali, le intuizioni scenografiche e degli oggetti di scena di Soliloquy Abaout Wonderland della Vortice Dance Company del 2011. 

Uno schermo gigante che all'occorrenza diventa quinta e volte soglia limite in cui è l'immagine di un automa a parlare con la voce del Grande dittatore di Chaplin, o a creare dei contrasti di luci che simulano dei limen in cui entrare e sperimentare. Le tecnologie montion capture accentuano la carica fiabesca di una storia che si percepisce per metà, ma che si carica di pathos. 

​Spettacolo che sorprende letteralmente, tanto poco abituati siamo in Italia a messe in scena semplicemente elaborate. Qui l'estro creativo si unisce alle competenze tecniche e il teatro non smette di essere teatrale. 
RECENSIONE
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Re-mapping the body | Cie Linga, 2012


​Re-mapping the Body, 2012

Con debutto nel 2012 all'Octogone Théâtre de Pully, Re-mapping the Body è il risultato della collaborazione con l'Istituto di Scienza dello Sport dell'Università di Losanna e la Scuola Superiore di Musica di Ginevra, con le quali la compagnia si è lanciata in una ricerca coreografica che instaura un dialogo tra arte e scienza.

L'insieme delle competenze ha dato vita ad un sistema interattivo che crea il suono dal movimento dei ballerini, dotati di piccoli sensori. Un mondo di suoni amplificato dalla complicità del compositore Christophe Calpini. ​
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RECENSIONE
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Make the switch from me | Aura Dance Company, 2014


Make the switch from me, 2014

Make the switch from me, della Aura Dance Company, è un lavoro del 2014 presentato come studio al festival Youth music, a Vilnius il 22 aprile, con debutto il 30 giugno.

Un lavoro che trova la sua fonte d'ispirazione nel sistema MOTUS - un potenziatore del movimento creativo. Un sistema wireless di controllo delle prestazioni, che raccoglie i dati sui movimenti del ballerino e li trasforma in gesti e parametri di controllo per sintetizzatori audio ed effetti audio.

​Lo spazio intorno al danzatore diventa una superficie senza contatto, una tela con cui il danzatore può interagire e poi ascoltare il feedback sonoro immediatamente.
RECENSIONE
Foto
Temporaeno Tempobeat | Aiep, 2016


​Temporaeno Tempobeat, 2016

In Temporaeno Tempobeat - produzione Aiep 2016 - i danzatori sono autori ed interpreti e le azioni creative traggono origine dall'indagine che ogni performer conduce individualmente per dare un proprio senso al gesto, in relazione agli altri, allo spazio e all'ambiente circostante.

​Una performance condivisa, creata ed elaborata in tempo reale, in cui il corpo e la voce sono elementi imprescindibili attraverso cui esprimere una condizione, uno stato intellettivo oltre che fisico. Una scrittura di danza che si barcamena fra il coreutico e il visuale e in cui forte è l'elemento ludico..
recensione

gb
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APPROFONDIMENTI
TECNOLOGIA E DANZA


TECNOLOGIA E DANZA | MERCE CUNNINGHAM
TECNOLOGIA E DANZA | FAUST_deep web | INTERVISTA
TECNOLOGIA E DANZA | MOTION CAPTURE
TECNOLOGIA E DANZA | TECNODANZA

TECNOLOGIA E TEATRO                                        ANNI 2000                                                                TEATRO ON LINE

1/17/2018

 
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The CIVIL warS | Frammento | Robert Wilson, 1984


​HYPERDRAMA

Attualmente si prospettano nuove frontiere per un "nuovo" teatro on line. L’idea di una performatività deterritorializzata, estesa a vari canali permette di sperimentare i diversi luoghi, anche immateriali, della comunicazione e delle diverse modalità di partecipazione da parte dello spettatore - pubblico. Ne emergono opere nuove, eventi globali chiamati Hyperdrama o Virtual Drama. In realtà non nuovissime, perché già a partire dagli anni Ottanta, le nuove frontiere della tecnologia andavano sviluppandosi e ancorandosi a teatro, segnando, oggi, il passo verso un’ulteriore fase dell’estetica teatrale e del rapporto con il pubblico.

Pubblico che si ritrova oggi, non solo ad attivare i sensi in un eccesso percettivo fra corpi in scena e sullo schermo, suoni dal vivo e campionati, ma anche ad agire direttamente sullo spettacolo, riportando il teatro, con nuovi mezzi e nuovi modi, alla sua irriducibile qualità relazionale.

Andare a teatro o partecipare ad un evento teatrale, rappresenta ancora un appuntamento, anche se a distanza, fra attori e spettatori. Emblematico, il già citato The CIVIL warS: a tree is best measured when it is down di Robert Wilson, kolossal multimediale ideato per le Olimpiadi di Los Angeles del 1984 in cui l’utopia di opera totale si traduceva in una composizione seriale di lirica, danza, cinema, pittura da dilatare in cinque paesi diversi in sintonia temporale, attraverso la diretta televisiva via satellite. Progetto realizzato solo parzialmente, ma decisamente avveniristico per i tempi.


​SIMULTANEITA' INTERATTIVA

​Telenoia di Roy Ascott del 1992, é una performance mondiale durata 24 ore. Attraverso tutte le tecnologie della comunicazione dell’epoca: bbs, fax, videofono, teletext, metteva in coonessione artisti che si scambiavano poesia, musica e immagini. Un anno dopo fece seguito La lunga notte, concerto radiofonico in simultanea interattiva ideato da Roberto Paci Dalò-Giardini Pensili. ​


​WEB PERFORMANCE

Hamnet del 1993 degli Hamnet Players, è la prima performance realizzata via Internet. Fedeli al concetto di teatro, le opere dei Hamnet Players vengo presentate in tempo reale con artisti dal vivo e pubblico, con tutte le opportunità di genio spontaneo e disastro imminente che "la diretta" comporta.

Il debutto di Hamnet ad esempio è stato bloccato da un temporale che ha interrotto l'accesso online dei produttori. La seconda esibizione, invece, è stata animata da un "bot" che ha ucciso accidentalmente Hamlet a metà della produzione. La tecnica, con cui le opere degli Hamlet Players vengono realizzate, si basa sull'uso del software Internet Relay Chat (irc) e dei link mondiali. Ogni riga dello script completo è numerata in sequenza.Dopo il casting, gli attori ricevono le loro battute via e-mail e non è consentita alcuna prova. Quindi, nessuno, a parte il team di produzione, conosce la sceneggiatura completa finché non si sviluppa sulla rete.

Gli artisti che distribuivano le loro linee tramite tastiera, hanno trovato il modo non solo di suggerire emozioni teatrali, ma di adattare (anche migliorare) le loro linee.


​DIGITAL PUPPET THEATRE

​​Clicking for Godot dei DeskTop Theatre del 1997 è un esempio di digital puppet theatre. Presentato al Digital Story Telling Festival, Waiting for Go.com è uno spettacolo di teatro on line che usa le chat room e gli utenti collegati in quel momento, come personaggi.

Icone grafiche rappresentano non solo Didi e Gogo - Estragone e Vladimiro - ma anche personaggi improbabili come Mister Muscle, che appaiono ogni qual volta entra in chat un nuovo utente. Il pubblico, oltre gli spettatori on line, si formava dagli spettatori reali del festival grazie alle video-proiezioni. 


​WEBCAM THEATRE | PER UN USO POLITICO

Connessione remota, del 2001 di Giacomo Verde è uno dei primi esperimenti italiani di Webcam Theatre, andato contemporaneamente in scena e in diretta web dal Museo Pecci di Prato. Qui, gli spettatori in connessione remota potevano assistere alla performance dal web, incontrarsi in rete, chattare tra loro, dialogare e scrivere in tempo reale col performer. 

Le oper’azioni di Verde, come scrive Anna Monteverdi in Il Tecnoteatro di Giacomo Verde, sono da sempre variazioni in low tech sul tema della necessità di un uso politico dei mezzi tecnologici. “Nelle opere interattive, afferma Verde, il vero soggetto è il comportamento dei fruitori, e la grafica è solo l’interfaccia necessaria a suggerire i possibili diversi comportamenti di creazione, esplorazione o comunicazione, che sono il vero cuore dell’opera”.

Tematiche sviluppate anche, in 
Cercando utopie: contagio del 2005. La performance nasce dalla condivisione dell'Etica Hacker per cui l'informazione deve essere a disposizione di tutti e i saperi devono essere condivisi. Ogni replica quindi, era preceduta da momenti di laboratorio in modo da "preparare" alcuni spettatori a diventare i performer. Ognuno di loro diventava così un "replicatore contagiante" della performance, a cui si affidavano le informazioni e i software necessari al contagio.


​HACKTIVISM

La rete intesa anche come potenziale teatro della protesta e della nuova disobbedienza civile, come luogo di un nuovo rekombinant e tactical theatre, sono assunti che stanno alla base del pensiero del collettivo statunitense Critical Art Ensemble e dell’Electronic Disturbance Theatre di Ricardo Dominguez.

Punti di riferimento della comunità artistica digitale mondiale, si ispirano per le loro oper’azioni performative al 
Living theatre e al movimento situazionista. Le loro azioni - sit in virtuali, scioperi della rete - rientrano nell’ambito del cosiddetto hacktivism, etichetta usata per definire pratiche di attivismo, sabotaggio e controinformazione attraverso le nuove tecnologie.

gb 
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APPROFONDIMENTI
TECNOLOGIA E TEATRO


TECNOLOGIA E TEATRO | ANNI NOVANTA
TECNOLOGIA E TEATRO | ANNI OTTANTA
TECNOLOGIA E TEATRO | TEATRO E VIRTUALE
TECNOLOGIA E TEATRO | JOSEF SVOBODA

TECNOLOGIA E TEATRO                                            CON-TESTO

1/9/2018

 


​VERSO GLI 80

Il Teatro ancora, in linea generale, rimane un luogo dove la Tecnologia attecchisce con notevole difficoltà.

​Ad esempio 
Gabriele Lavia e Giorgio Albertazzi hanno l'idea del Teatro come luogo dove nulla è necessario se non l’attore, il testo e gli spettatori, ripudiando qualsiasi uso tecnologico.

L'uso delle tecnologie però, fa parte della storia del teatro e soprattutto della nuova drammaturgia novecentesca, quando al testo teatrale si integrava il linguaggio filmico nella prima metà del secolo, per poi svilupparsi dagli anni Ottanta, con l’uso del video in teatro e poi con la nascita del teatro tecnologico.

Prendendo in esame quest’ultimo, che negli ultimi anni ha avuto un notevole sviluppo, bisogna capire come il multimediale interagisca con il teatro


​IBRIDAZIONE


Le varie forme di ibridazione si collocano all’incrocio di due strade diverse: da un lato si può sviluppare la possibilità che lo spettacolo vada a costituirsi come un evento di massa, secondo un percorso già iniziato dal teatro in televisione, in questo modo la divulgazione sarà fatta ad un pubblico vasto ed indistinto.

Dall’altra parte, alcuni esperimenti ricercano la qualità e individuano un limitato gruppo di spettatori con i quali relazionarsi.

Nel primo caso si corre il rischio che l’opera teatrale trasferita in altro contesto, inevitabilmente modifichi il proprio linguaggio.

Esiste già un teatro per il video che ha costruito nel tempo un proprio stile, per esempio le produzioni RAI delle commedie di Edoardo De Filippo e guardandole sappiamo di trovarci di fronte ad un rifacimento per il nuovo mezzo, ma tutto ciò appartiene all’ambito della traduzione e della trasposizione (anche multimediale), riguarda la possibilità di documentare, riprodurre, commercializzare un evento.

gb 
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​APPROFONDIMENTI
TECNOLOGIA E TEATRO


TECNOLOGIA E TEATRO                                          JOSEF SVOBODA

1/9/2018

 
Foto
Laterna Magika | set Josef Svoboda | Prague, 1958-1961
Il linguaggio contaminato fra spazio teatrale e immagine filmica trova interessanti precedenti nelle applicazioni dello scenografo Josef Svoboda (1920-2002).

Riferimento per gli scenografi virtuali contemporanei, le sue opere rivelano più la funzione interpretativa che decorativa della scenografia. In Svoboda, il senso narrativo coincide con il senso della percezione spaziale, anticipando il significato che dovrebbe avere oggi il real time (modalità di realizzazione di un prodotto in diretta senza la necessità di post-produzione o finalizzazione).


Il set di Svoboda evolve in sequenze di configurazioni che seguono il ritmo delle emozioni utilizzando mezzi flessibili per la creazione di prospettive multiple. In sostanza, il teatro all’italiana (set live costituito da pavimento, soffitto, portale, palcoscenico e platea), che determina lo spazio drammatico e ne definisce i limiti, viene integrato con il set virtuale, definibile con punto di vista, prospettiva, spazio dell’immagine e dell’immaginario. Alla struttura architettonica teatrale, Svoboda, unisce l’immagine virtuale che esplora con materiali che esprimono “il dentro dello spazio”: superfici speculari, proiezioni e televisioni a circuito chiuso, uso creativo della pellicola e della luce.


​COMPLETEZZA

Per Svoboda è importantissima la sperimentazione nell’ambito del teatro e ancor di più, nell'usare nuove tecnologie, tener sempre presente l’insieme delle parti che vanno a definire uno spettacolo nella sua interezza. Completezza che spesso manca, come già denunciava Svoboda, a favore delle mode, dell’aridità artistica e della ripetitività che il teatro comporta, con risultati monotoni, “piatti” che non “raccontano” nulla di nuovo o stupefacente. 

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Svoboda, attraverso le sue opere anticipa molte delle cose ancora visibili nei teatri contemporanei, affermando che non rinnovarsi, e non mettersi in discussione, fa si che la scena sia statica e senza alcun valore aggiunto anche se farcita di immagini, videoproiezioni e filmati in movimento. 


​TRIDIMENSIONALITA'

L’allestimento, progettato dallo scenografo trent’anni prima dell’utilizzo della tecnologia digitale, pone il contenuto scenografico come l’idea innovativa delle elaborazioni spaziali di Svoboda.

Non solo fondale e proiezioni su schermo che rievocano un passato di scenografie dipinte, ma l’inserimento dell’immagine virtuale in Svoboda, segue una progettazione di strutture sceniche concepite tridimensionalmente per ricevere l’immagine e superare la proiezione bidimensionale. Una nuova concezione scenografica di realtà virtuale (VR) che fonde spazio reale (set live), pixel (proiezione), attore fisico per la creazione dell’ambiente virtuale (set virtuale).


POLYéCRAN
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Inaugurata in occasione dell’Esposizione Universale di Bruxelles nel 1958, La Lanterna Magika dà vita ad una nuova forma di spettacolo teatral-cinematografico di interazione fra azione dal vivo e immagine filmica. Per La Lanterna, Svoboda inventa il polyécran, un sistema di multischermo articolato nello spazio scenico in forme quadrate e trapezioidali.

​Il pubblico percepisce le immagini globalmente in una 
sorta di pre-realtà virtuale con immagini filmiche fisse e mobili inviate da sette proiettori cinematografici e otto per diapositive, gestite da un sistema tecnico di circuito memorizzante che comanda tutte le funzioni dello spettacolo in sincronia con il suono.


​MULTIVISIONE

In seguito al successo di quest’esperimento, Svoboda evolve il sistema per l’Esposizione Universale di Monréal elaborando un complesso audiovisivo che chiamerà “multivisione”. Figure in fasci di luci rotanti vengono proiettate su cubi, prismi e superfici piatte in un movimento catturato da specchi inclinati verso gli spettatori. Un mosaico di 112 quadrati in doppia proiezione, la scena a mosaico produce 160 variazioni d’immagine e ha la potenzialità di modulare la profondità di campo visuale avanzando o arretrando sul palcoscenico:

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“Lo scopo, afferma Svoboda ne I segreti dello spazio teatrale, era di creare immagini intere, ma nello stesso tempo di disintegrare la superficie di proiezione ricomponendola poi in un modo diverso e rendendo evidente anche il rilievo”.

gb 
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APPROFONDIMENTI
TECNOLOGIA E TEATRO
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TECNOLOGIA E TEATRO | DRAMMATURGIA
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TECNOLOGIA E DANZA                                              VIDEOCLIP

1/9/2018

 
Foto
Codex | Philippe Decouflé, 1987


​VIDEO PROMO

Il genere che ha più influenzato la videodanza è sicuramente il videoclip musicale. Nato inizialmente come promo di un altro prodotto dell'industria culturale, il disco, è divenuto, presto, un genere a sé. 

Caratterizzato da elementi musicali e visionarietà post-moderna, la fortuna del videoclip è stata possibile grazie al progresso della computer grafhic. Negli anni Ottanta non è difficile sorprendere intrecci fra queste forme videoartistiche, soprattutto quando alcuni coreografi vengono coinvolti nella realizzazione di videomusicali e di spot pubblicitari.

​Si tratta, come scrive Elisa Vaccarino, in La Musa dello schermo freddo, di “un cortocircuito di creatività, che passa agilmente da un settore all'altro.” E la genesi di questo coinvolgimento, può essere rintracciata nel recupero, da parte delle generazioni degli anni Settanta e Ottanta, della dimensione del corpo in movimento.

​Fenomeno ben testimoniato dall'ondata di musical o film incentrati sul tema della danza di quegl'anni, pensiamo a Saturday night fever, a Grease, ancora Footloose, Due vite, una svolta, e​ All that jazz. 


​COREOGRAFARE LE STELLE

​Pensiamo in oltre ai coreografi che in quegli anni collaborano con le grandi star della  musica pop. Vincent Paterson, ad esempio, che ha ideato le coreografie del video di Smooth Criminal di Michael Jackson e l'intero Blond Ambition Tour di Madonna - che si vale, tra l'altro e in altre occasioni, della collaborazione di Karole Armitage. «L'intenzione di Madonna», dice Paterson, «è di infrangere ogni regola possibile, unendo Broadway, rock, moda e spettacolo, in una rappresentazione teatrale, facendo rivivere allo spettatore un vero e proprio video musicale». ​

O a coreografi come Daniel Ezralow, che ha creato coreografie per video musicali di U2, Pat Metheny, Andrea Bocelli, Ricky Martin, Josh Groban e Faith Hill. Ha curato, inoltre, le coreografie del The Glass Spider Tour di David Bowie, e le azioni danzate di They dance alone di Sting.

Ancora, Prilippe Decouflé che ha collaborato con i New Order in True Faith del 1987, o alle sue produzioni video, short format, che in quegli anni gettavano le basi per il un gusto che oggi caratterizza le sue creazioni. Caramba del 1986, ad esempio, o Codex del 1987, e il capolavoro Le p'tit bal del 1994.
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E per l'accuratezza e la grande qualità dei video, bisogna ricordare, un'altra autrice francese, Régine Chopinot, e i suoi
“corti”, fra i più importanti, Le defilé 1986 e Kok del 1988.


​IN ITALIA

Anche in italia gli Ottanta sono gli anni delle intersezioni fra video, danza, teatro e videoarte.

Vale la pena ricordare alcuni gruppi di artisti, come 
Magazzini Tiezzi e Lombardi, Falso movimento di Mario Martone, il collettivo Studio Azzurro nel periodo di collaborazione con Giorgio Barbiero Corsetti, che in quel decennio cominciano a lavorare sul concetto di enviroment producendo ibridazioni artistico-comunicative che trasmigrano da un linguaggio all'altro e si basano sull'interazione fra performer e scena tecnologica, tra corpo reale e tecnologie del suono e dell'immagine.

gb 
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Approfondimenti
TECNOLOGIA E DANZA


TECNOLOGIA E DANZA                                            IL FAUST DI RAPHAEL BIANCO

1/9/2018

 
Foto
FAUST_deep web | EgriBianco, 2017 | ph Simone Vittonetto
Con il visual artist Matteo Stocco, Raphael Bianco affronta la seconda tappa della trilogia della civiltà iniziata con “Orlando”. Una rilettura del Faust di Goethe in cui l’installazione coreografica permette di aggregare codici performativi differenti.

​D. Seconda tappa della Trilogia della civiltà. Dopo Orlando, Faust. Il Diavolo oggi: quale patto ha stretto con lui l'uomo contemporaneo?


R. Per me Il patto col diavolo di oggi non si discosta da quello di sempre: fermare il corso degli eventi, il naturale divenire delle cose. Ma sono manovre che rimangono in superficie da qualche parte nel profondo la vita continua, il corpo si trasforma. Forse oggi più che mai si è tentati dall'apparenza, da essere ciò che non si può o non si riesce ad essere. L’istantaneità del web stuzzica il desiderio di onnipotenza e onnipresenza.


D. Marina Abramovich (The artist is present, Impoderabilia). Cosa condividi con la grande artista e perché citi proprio quelle performance?

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R. Marina Abramovich nella semplicità di uno sguardo mette a nudo ogni individuo o meglio lo sollecita a confrontarsi con uno specchio. Credo che questo sia il punto comune. nella visione di Matteo Stocco e del sottoscritto. Faust è il pubblico, confrontato con differenti livelli di conoscenza nel multiforme abisso del web. Nella mia personale interpretazione il mistero più oscuro che nasconde anche verità scomode, è l’animo umano. Se di conoscenza si
​parla nel Faust, questo è il livello più profondo e scomodo. Ecco perché il confronto con gli artisti della performance è cosi ravvicinato e a volte estremo e per certi aspetti rimanda all’intensa, poetica e feroce performance della Abramovich, anche se gli intenti e la struttura sono distanti..
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​D. Il gesto quotidiano. Le nuove posture, le nuove nevrosi, i nuovi tic. Nuovi modi di comunicazione che incidono sul corpo dell'uomo odierno. Una sessualità schizofrenica, i messaggi subliminali e il linguaggio non verbale come si trasformano in scrittura di danza? E quale la scelta?


R. Credo che la quotidianità, nasconda un universo di stimoli per la creazione coreografica, e questa non è una novità, però in questo caso si è partiti dalla stilizzazione di certi comportamenti per poi deformare, trasfigurare il gesto quotidiano stilizzato in altro, per vederne aspetti indicibili, per mostrare sfaccettature diverse di una stessa condizione psicofisica. Abbiamo cominciato con delle improvvisazioni sui diversi capitoli del progetto da cui sono scaturiti una serie di temi di movimento assemblati con il materiale raccolto. Su quei temi i danzatori hanno poi sviluppato diverse frasi, modulando e adattando la gestualità secondo le esigenze e lo spirito del momento. Faust è uno spettacolo che si rigenera di volta in volta a seconda del pubblico che si ha di fronte e non è mai uguale a se stesso. Ho lasciato molto più libera la struttura coreografica perché il pubblico è il protagonista e cambia sempre. La scelta ha privilegiato movimenti o atteggiamenti che potessero essere evocativi e allo stesso tempo facilmente trasformabili in altro.
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​D. Il pianto (della performer e del pubblico). Desiderio nostalgico o senso di mancanza?


R. Il pianto appartiene all’unica figura positiva della perfomance: una sorta di Margherita. anche se non abbiamo voluto definire propriamente i personaggi. Margherita riesce a provare com–passione, a commuoversi, è pura cosi come la danzatrice che piange scrutando volti da cui traspare comunque una verità di cui forse non sono a conoscenza nemmeno loro. La donna in bianco è un personaggio salvifico che accompagna Faust pur nel dolore e nella privazione, e ne è la salvatrice.


D. L'uomo nudo scaraventato per terra. Quale senso profondo nasconde questa provocazione?


R. In realtà più che una provocazione è il modo di sottolineare l’ultima verità nel percorso della conoscenza proibita: Dopo l’illusione di onnipotenza, la menzogna dell’apparenza, il corpo nudo e crudo trova il suo spazio e ci riporta alla verità della sua corruttibilità. Nulla si può contro il tempo e, la macchina, che sembrerebbe lo strumento infallibile per conoscere e perpetuarsi all’infinito, si ritorce contro l’uomo implodendo. Lascia una verità amara quella del corpo inerte che non può mentire a se stesso ma che può trovare una sorta di speranza accanto alla positività di “Margherita” anima che eleva oltre ogni apparenza.


D. L'installazione di Matteo Stocco, fra i mille volti e la spersonalizzazione dell'essere umano, amplifica il senso che l'uomo è, o sta diventando, una merce da consumare?


R. Diciamo che attraverso il web, che per altro permette straordinarie possibilità di conoscenza, comunicazione e contatti, dilaga la voracità del voyerismo, la ricerca, spasmodica a volte, di osservare e scrutare sempre nuovi casi umani, e dilaga anche la produzione di storie e casi umani ideati per essere cannibalizzati e soddisfare il desiderio di cui sopra. Forse questa è la merce da consumare di cui l’uomo è il protagonista e che nascosto dietro l’anonimato può cannibalizzare senza giudizio, senza colpa. Rimane solo un’apparente normalità che rende tutto più facile nel modo dei like e ci solleva da qualsiasi responsabilità morale o meno.

gb



​approfondimenti
TECNOLOGIA E DANZA


TECNOLOGIA E DANZA | TECNODANZA
TECNOLOGIA E DANZA | SPETTACOLI ANNI 10
TECNOLOGIA E DANZA | MOTION CAPTURE
TECNOLOGIA E DANZA | ARTISTI

TECONOLOGIA E DANZA                                            iPad

1/9/2018

 


​2WICE

Quando l'apporto delle nuove tecnologie è supportato da istruzione, ampliamento del pubblico, coesione estetica, e insieme vanno di pari passo con il design, allora la tecnologia può migliorare il mondo della danza, dandogli nuova forza. Questo è l'obiettivo per coreografi e designer che hanno preso parte alla piccola rivoluzione innescata dalla 2wice. 

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Con le loro strategie digitali negli ultimi anni la 2wice Arts Foundation ed Editions 2wice hanno ampliato il numero di lettori, i follower e gli utenti online, mettendo a loro disposizione delle App: la prima, intitola Event è un tributo al lavoro del coreografo statunitense Merce Cunningham, scomparso nel 2009.

La seconda, dal nome Fifth Wall è nata dal confronto con il designer Abbott Miller, considerando tutte le possibilità di incorniciare una coreografia offerte dall'iPad. 
Scaricandola, si acquisteranno i video di quattro coreografie di due minuti ciascuna, appositamente eseguite all'interno di una cornice rettangolare nera che riproduce, in scala, i 4:3 del frame del tablet Apple.

Le coreografie possono vedersi in contemporanea o singolarmente,  e gli utenti possono zoommare o restringere la scena, cambiare l'orientamento dello schermo facendo ruotare anche il ballerino, diventando loro stessi coreografi. Infatti Fifth Wall lascia ampia scelta allo spettatore che può toccare, scrollare in basso o ruotare lo schermo per influenzare la sequenza della danza.


​FIFTH WALL

Nata espressamente come coreografia per iPad, Fifth Wall é un tentativo di smontare, e poi ri-assemblare, la concezione di scena, set e spazio performativo. Jonah Bokaer, il coreografo e ballerino che ha prestato la sua mente e il suo corpo al progetto, era già stato coinvolto nella realizzazione di un'altra App, Mass Mobile, realizzata tra il 2010 e il 2011 in collaborazione con il Georgia Institute of Technology. 

​Attraverso questa App il pubblico poteva votare per decidere di cambiare le luci usate nel corso delle esibizioni. 
Nel caso di Fifth Wall, Jonah Bokaer ha dovuto danzare all'interno di un simulacro dell'iPad realizzato da Abbott Miller e Bob Guest: una scatola realizzata ad hoc vedendo ne le proporzioni in 4:3 della cornice dell'iPad  quelle del proscenio a teatro.

​E le riprese, per le quattro coreografie, sono state effettuate ruotando sia la scatola, sia la telecamera, con rotazioni fisse della cinepresa di 90°, in modo da poter permettere al pubblico, poi, ampia libertà di manipolazione delle sequenze coreografiche.


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Foto
Fifth Wall | iPad app

Credo che la coreografia digitale, afferma Bokaer, si adatti bene al progresso della tecnologia mobile, in particolare ai tablet. La tecnologia mobile a sua volta è una naturale compagnia per gli artisti che come me lavorano con il movimento. 

gb 
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​APPROFONDIMENTI
TECONOLOGIA E DANZA

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TECNOLOGIA E DANZA | MERCE CUNNINGHAM
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TECNOLOGIA E DANZA | ARTISTI
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TECNOLOGIA E DANZA                                        VIDEODANSE                                                        BELGIO E ITALIA

1/9/2018

 
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In Spite of Wishing and Wanting | Ultima Vez, 1999
In Belgio, la videodanza nasce intorno alla nuova danza fiamminga, caratterizzata da una ricerca analitica, quasi ossessiva del movimento. 

Jan Fabre ad esempio, in opere come What a Pleasent Madness del 1988; Tivoli del 1993, Questa pazzia è fantastica; paysages fabriens, del 1993, fa della ripetizione, dell'attenzione al particolare e dell'osservazione della realtà come qualunque altro organismo, la sua cifra stilistica.

Anne Teresa de Keesmaeker, fondatrice del gruppo Rosas, che rielabora spesso, per la telecamera i suoi lavori teatrali, in video come Achterland del 1994  - da un balletto del 1990 -, in Rosas danst Rosas, con Thierry De Mey, del 1997, in Fase, sempre con Thierry De Mey, del 2002, mette in video la sua danza minimale, ripetitiva e strettamente legata alle suggestioni musicali che tanto caratterizzano la sua produzione.

Meno astratte e più emotivamente oniriche le produzioni anche fictional dei belgi di lingua francese. La coreografa Nicole Mossoux, In Scelsi suites, del 1990, mette in scena la storia di una coppia come tante, che danza e vive nello stesso spazio, affrontando, tuttavia, l'esperienza della solitudine e l'impossibilità dell'incontro. Face à Face del 1988 di Michèle Anne De May, racconta, una volta di più, storie di coppia attraverso la ricerca analitica dei movimenti del corpo, unita ad un uso espressivo delle tecnologie della ripresa.


​WIM VANDEKEYBUS

Wim Vandekeybus, direttore della compagnia Ultima Vez, nella sua cararriera ha sempre alternato il suo essere coreografo, fotografo e regista.

Il film 
Roseland del 1990, con la regia tripartita fra Walter Verdin, Octavio Iturbe e Wim Vandekeybus, è tratto dal materiale delle prime tre coreografie di Vandekeybus: What The Body Does Not Remember (1987), Les porteuses de mauvaises nouvelles (1989) e The Weight of a man (1990). E per "aver trasformato l'energia teatrale della coreografia in un'esperienza di schermo dinamica, utilizzando una gamma completa di tecniche cinematografiche", Roseland si aggiudica, nello stesso anno, il Dance Screen Award. 

Video di danza basato sull'omonimo spettacolo del 1999, In Spite of Wishing and Wanting è girato nel suggestivo ambiente di un'ippodromo di Bruxelles,ne la bellissima sala da ballo-sala da concerto del Vooruit Arts Centre di Gand (BE), ne le strade di Ferrara (IT) e a Singapore. Con i ritmi del co-fondatore di Talking Heads, David Byrne e con l'eclettismo scenografico di Wim Vandekeybus, In Spite of Wishing and Wanting si trovano sequenze teatrali umoristiche, danza energica e potente e una varietà di corpi all'interno di un cast tutto maschile. Lo stesso Wim Vandekeybus in persona trotta come un cavallo selvaggio tra i dieci ballerini-attori, devastati dai loro desideri appassionati. Perché è nelle sequenze danzate di attrazione, confronto e repulsione, che i danzatori assumono sembianze animali.
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Nel 2005 Wim Vandekeybus gira Blush, trasposizione video della performance teatrale dell'anno prima. Con le musiche di David Eugene Edwards e Woven Hand e con testi dell'autore fiammingo Peter Verhelst, Blush è un viaggio onirico che oscilla tra i paesaggi paradisiaci della Corsica e le profondità più slanciate di Bruxelles. Un'esplorazione del selvaggio subconscio, delle foreste mitiche, degli istinti conflittuali, dell'immaginazione, dove il corpo ha ragioni che la mente s-conosce.


​ITALIA 

​La videodanza in Italia è neonata. La svolta, si ha a partire dagli anni Novanta.

A Napoli, nel 1991,l’A
ssociazione Culturale Napolidanza promuove la prima edizione del festival di videodanza Il Coreografo Elettronico, ideato da Marilena Riccio, chiuso dopo qualche hanno di pausa, riaperto nel 2016 con la presidenza di Laura Valente. 

Con l’avvio del festival si cominciarono a raccogliere opere provenienti da tutto il mondo e attraverso le varie edizioni, il festival ha premiato, monitorato e catalogato il variegato mondo della videodanza internazionale e l’ultima edizione – firmata Riccio – nel 2011, contava ben centotrenta video in concorso, e l'edizione nel 2016, più di centocinquanta.

Vale la pena ricordare la prima vincitrice della rassegna, 
Cinzia Romiti, autrice delle coreografie insieme a Laura Balis Giambracono, di Tuffo nell'acqua e tonfi del cuore, un video di 10’ nato come promovideo per presentare l’omonimo spettacolo teatrale. 

A Milano, nel 1990, nasce 
IN VIDEO con lo scopo di creare uno spazio che permetta di conoscere quanto di meglio si produce in ambito di ricerca e sperimentazione video. Un ambito la cui dimensione, poetica, antitelevisiva - benché comune sia la radice tecnologico/elettronica - svolge, proprio per questo, anche il ruolo di coscienza critica. 

Questa realtà, interessata alle nuove direzioni della danza legata al video, non ha avuto un riscontro effettivo e potente, rispetto la realtà europea degli stessi anni, nella produzione di videodanza.

Infatti se guardiamo le manifestazioni internazionali del decennio novanta sono pochissime le opere italiane. Ad esempio n
el 1994 a Dance Screen presenziavano solo tre video italiani fra i quali Guardiano di coccodrilli di Corte Sconta, diretto da Kiko Stella; al Gran Prix Video Danse solamente quattro.


FESTIVAL & CONTEST

Tuttavia festival e competizioni internazionali fungono da principali catalizzatori del pubblico favorendo anche gli scambi con gli artisti. A cominciare da Danza&Video tenutesi a Milano nel 1994, la Rassegna di Videodanza di Genova nel settembre del 1995. Nel 1997 è la volta di Videodanzando movimenti tra corpo e monitor a Palermo nello Spazio Blu Cobalto. Alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma con Frammenti di danza – Rassegna di video danza, nel 2001.

Espressioni. I volti della video-danza, organizzato da Perypezie Urbane nasce nel 2006 e vede la collaborazione di diverse realtà italiane ed europee attive nel mondo della videodanza, che portano a Milano materiali provenienti dall'Europa centro-orientale e occidentale. Inoltre, la collaborazione a partire dal 2011 con Coreografo Elettronico di Napoli fa di Espressioni un luogo di distribuzione di alcuni dei video più interessanti proiettati nell’ultima edizione del festival napoletano.

Nato nel 2010 Digitalife in questi ultimi anni si è configurato come il vero e proprio cuore tecnologico del Romaeuropa Festival. I linguaggi della creatività digitale, le sue fertili connessioni con le tecnologie più avanzate, le relazioni fra spazio, tecnologia ed arte sono i grandi temi di riflessione di questo progetto aperto e visionario in cui arte visiva, arte digitale, performing arts e fotografia, superano i rispettivi confini per fondersi nella quarta dimensione della creazione.
BREAKING 8 è rottura e creazione. Nato nel 2010 come appendice del FIND - Festival Internazionale Nuova Danza a Cagliari, 1983, Breaking 8 è un festival di videodanza in cui la danza, il ritmo e il movimento si prestano allo sguardo della macchina da presa, lasciandosi trasformare dall’incontro delle due arti. 

Negli ultimi anni invece la diversa modalità di fruizione in rete ha sollecitato la nascita di nuovi formati, come il concorso One minute dance film, ideato da Cinedans e importato in Italia, a partire dal 2010, dalla rete COORPI - COORdinamento danza Piemonte. 

Il contest La danza in 1 minuto è il primo esperimento di Social Contest on line di videodanza. Un’esplorazione su come il digitale intervenga in termini di low production e fruibilità delle opere video, intercettando le tecniche e i linguaggi dei giovani artisti. Coorpi, inoltre, fa parte di R.I.Si.Co – Rete Interattiva per Sistemi Coreografici, all'interno della quale, a Scenario Pubblico di Roberto Zappalà a Catania, ha organizzato The Risico Screening – Rassegna multischermo della danza in video, in collaborazione con l'associazione Cro.Me.

Live Arts Cultures nasce nel gennaio 2014 come associazione culturale curatrice di C32 performing art work space, spazio di produzione e formazione per artisti nell'ambito delle arti dal vivo. Live Arts Cultures si occupa di accogliere produzioni locali e internazionali, di proporre un calendario di appuntamenti formativi, dell'organizzazione di un festival nonché dell'organizzazione di altri eventi dedicati alla formazione del pubblico, proponendosi anche in altri spazi della città.

Giovanissimo, nato nel 2016 il T*DANSE festival, organizzato da TiDA Théâtre Danse si propone di portare in Valle d'Aosta uno sguardo sulla scena contemporanea con una programmazione di artisti legati ai nuovi linguaggi, alle nuove tecnologie, con un'attenzione speciale per le nuove generazioni di artisti.

gb
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​Approfondimenti
TECNOLOGIA E DANZA


TECNOLOGIA E DANZA | STATI UNITI
TECNOLOGIA E DANZA | FRANCIA
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TECNOLOGIA E DANZA | ANNI 2010 | SPETTACOLI

TECNOLOGIA E DANZA                                              VIDEODANCE | STATI UNITI                                        ANNI SETTANTA E OTTANTA

1/9/2018

 
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Totem | Alwin Nikolais, 1960


​ANNI 70
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La videodanza, forma particolare di videoarte, nasce verso la fine degli anni Settanta come possibilità di produzione creativa, attiva e democratica, contro la fruizione passiva della comunicazione di massa e contro il tipo di produzione dirigistica propria dei grandi network radio-televisivi. Nel corso degli anni, una sempre maggior diffusione degli strumenti tecnici per la creazione di video personali incrementa l'uso libero, immediato e non manipolabile da terzi della videocamera.

La sostituzione più recente della tecnologia analogica con quella digitale, sia del suono che dell'immagine, ha allargato enormemente le possibilità di intervento artistico sulla ripresa video e sulla post-produzione, spesso integrate con la computer graphic e con le tecniche avanzate di animazione e simulazione. 


​Maja Deren & Alwin Nikolais

​La videodanza nasce negli Stati Uniti, dove lavorano in modo sperimentale autori come Maja Deren e Alwin Nikolais. 

La prima, può essere annoverata fra i primi videoartisti per la scelta ante litteram di creare, in pellicola,  danza per lo schermo. I suoi film, ai quali collaborò anche John Cage - pensiamo a Ritual in Transfigured Time del 1945-46 con coreografie di Frank WestBrook, e a The Very eye Of Night del 1959 - sono il prodotto di una profetica composizione dell'immagine, all'interno della quale fluiscono forme, figure plastiche e danzatori. 

Il secondo, Alwin Nikolais, nel 1964 realizza su pellicola Totem, The World Of Alwin Nikolais, vero e proprio film di danza, in cui i danzatori, su sfondo monocolore, sembrano fluttuare in uno spazio illusorio privo gravità. Nel 1968 in Limbo, Nikolais, va oltre e alle figure dei danzatori vengono sovrapposte immagini di pesci colorati. 

Relay del 1970, è già un'opera di videodanza a tutti gli effetti. Realizzata con tecnologie più avanzate, Nikolais, in Relay, sintetizza in immagini a metà fra fantasia e sogno, tutto il suo visionario universo. In questo lavoro di grande importanza storica, il corpo danzante si smaterializza progressivamente divenendo una particella infinentesimale della vastità infinità dell'universo.


​CHASE & CUNNINGHAM
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​La prima vera e propria videoartista americana è comunque Doris Chase, per la quale già nel 1977 il critico Peter Grossman utilizzava esplicitamente il termine di videodance. Dopo Moving Forme del 1974, composizione astratta di forme in movimento, grazie alla collaborazione con danzatori delle più importanti compagnie realizza i suoi lavori più significativi, tutti intitolati Dance, cui segue a ogni nuova creazione un numero progressivo. In questi video la Chase dimostra una predilezione per il copro del danzatore solista, colto nei particolari e nei dettagli del movimento.

L'opera simbolo che può essere considerata il manifesto della videodanza, è Merce by Merce by Paik di Nam June Paik e Merce Cunningham del 1978, nella quale vengono composti artisticamente elementi di una coreografia espressamente creata per la telecamera insieme ad altri materiali video preesistenti. L'uso di espedienti videografici - l'incrostazione, lo sdoppiamento, la moltiplicazione dei corpi sullo schermo, la loro decentralizzazione, procedimenti analoghi a quelli che Cunningham sfrutta sulla scena - creano le basi per una composizione in cui la danza investe l'arte nella sua totalità, facendone un prodotto particolare di videoarte, appunto uno dei primi e più significativi esemplari di videodanza.


​80 | POST MODERN DANCE

In questo clima socio-culturale particolare, sono cresciuti i danzatori e i coreografi della generazione degli Ottanta.

A
rtisti sensibili ai fermenti di cambiamento della loro epoca e disponibili al dialogo con le nuove tecnologiche. Loro sono gli esponenti della post-modern dance, fra i quali alcuni si sono cimentati con il film e la videodanza.

​Ad esempio, la poliedica Meredith Monk con Quarry nel 1978 che rievoca la tragedia dell'Olocausto, Trisha Brown in Set and Reset del 1985, che realizza una composizione di materiali artistici autonomi e differenti, con le musiche di Laurie Anderson, le scene, i costumi e le visioni filmiche di Robert Rauschemberg. 

​O Anna Halprin che esplora il rapporto fra corpo e natura nel suggestivo Embracing Earth: Dances with Nature del 1995.

gb 
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​Approfondimenti
TECNOLOGIA E DANZA

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TECNOLOGIA E TEATRO                                        ANNI NOVANTA                                                        INTER-ATTIVITA'

1/9/2018

 
Foto
Marcel•lí Antúnez Roca | Epizoo, 1994
Il video, inteso non solo come immagine ma come dispositivo multiplo, innesca un processo di “esplosione” verso l’esterno, verso il contesto spaziale insomma.

Con l'abolizione del punto di vista unico e l’apertura ad una temporalità plurima, lo spettatore partecipa, così, ad un evento reale, fisico. E il suo mondo emotivo e percettivo, che si confronta o interagisce con l'opera, diventa necessario per lo svolgersi della narrazione. Infatti le opere interattive hanno la capacità di modificarsi grazie alla presenza e all’azione degli spettatori, diventati veri coautori dell’opera. Da un’opera chiusa e strutturata, grazie alla navigazione ipertestuale, agli ambienti virtuali 3D, alle immagini di sintesi e alle installazioni interattive, si passa ad un’opera-sorgente che contiene nella sua attualizzazione ed esecuzione infinite variabili. 

A partire dal 1987, lo scenografo M.Reaney inizia ad utilizzare la computer grafica per l’allestimento scenografico, fino a giungere alla programmazione di ambienti virtuali per la fase illustrativa con il regista e nel 1993 arriva ad un primo esperimento di simulazione proiettando il modello scenografico digitale direttamente all'interno della cornice del boccascena e immaginando poi una scenografia virtuale tridimensionale direttamente sul palcoscenico.
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Paolo Aztori, invece, rigoroso nell'articolazione di scenografie elettroniche e nelle concezione di uno spazio scenico integrato nel processo creativo della messa in scena, intende la scenografia come dotata di infrastrutture proprie, adatte al nuovo linguaggio della rappresentazione, attraverso cui l’orizzonte percettivo sfonda la prospettiva ordinaria oltre il boccascena, per affermare la simultaneità delle diverse percezioni, tra reale e virtuale.


Marcel•lí Antúnez Roca

La coincidenza fra reale e virtuale è ciò che interessa a Marcel•lí Antúnez Roca, fondatore della compagnia catalana Fura dels Baus. Antúnez Roca si fa portavoce di un nuovo cyberteatro o teatro tecno-biologico in cui l’ibridazione e lo scambio non avvengono solo tra macchine e dispositivi, ma tra corpo e tecnica, tra organico e inorganico, tra robotica e biologia, operando al confine tra “corpi in-macchinati e macchine in-corporate” come dirà lui stesso.

​Il performer incarna l’utopia post-umana della tecno-mutazione, dell’ampliamento della struttura biologica verso nuove sensibilità extratattili diventando, attraverso innesti temporanei di dispositivi elettronici ed elettromagnetici, cybermarionetta e robot cibernetico, potente metafora della liberazione del corpo verso nuovi e inesplorati spazi di sensorialità. Pensiamo a Epizoo del 1994 - dove il corpo-macchina del performer si fa appendice digitale sottoposto alle "molestie" telematiche da parte degli spettatori attraverso un touch screen - o a Requiem del 2000 in cui dei robot pneumatici reagiscono alla presenza del pubblico.

In Transpermia. Panspermia inversa (2003) Antùnez, come già in Afasia nel 1998, sostituisce il keyboard con il dressskeletron o esoscheletro, una protesi elettromeccanica, vero prolungamento protesico della sua corporeità recuperando grazie al programma Midi Reactor, funzioni organiche non più limitate alla vista e al tatto. Suona con il corpo e modula la voce, anima immagini e disegni che mostrano ipotesi di interfacce e robot da usare nel quotidiano per identità sempre mutanti. Il performer riesce così controllare tutto lo svolgersi della performance, dal momento che il suo esoscheletro è diventato la piattaforma che gli permette di connettere e gestire una molteplicità di programmi, facendo di sé stesso, un’interfaccia delle interfacce.


MOTUS

Motus è uno dei gruppi di punta della cosidetta generazione Novanta, o terza ondata, fenomeno esploso agli inizi degli anni Novanta in spazi underground, extrateatrali decentrati in centri sociali o spazi occupati. I Motus si impongono per il forte impatto visivo e la carica trasgressiva e il loro teatro legato al culto dell’immagine, si esprime in una poetica dall’eccesso di visione. Con le loro installazioni, performance e spettacoli, i Motus richiamano Warhol, Bacon, DeLillo, Cocteau, Abel Ferrara, Gus Van Sant e le loro strutture sceniche sono territori di confine in cui la visione mediatizzata si accompagna ad un ossessiva indagine del corpo mostrato, violato, nei suoi aspetti estremi di violenza e di sesso. 

CATRAME
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In Catrame, 1996, il suono e la musica sono fra gli elementi più importanti. Assieme alla luce, sembra siano loro a scolpire il corpo, a deformarlo, inseguirlo. Il corpo trasgredito rimane oltre il plexiglas e lo spettatore è coinvolto in quello spazio chiuso proprio attraverso il dilatarsi dei suoni e delle luci, guardando un corpo nudo che, disgregandosi, viene completamente rimodellato.

Immagini psichedeliche, luci forti e cromie acide fanno emerge l’ambiente in cui si svolgono le azioni. Scatola-gabbia costruita da tubi metallici e chiusa dal plexiglas trasparente in cui il corpo in movimento diventa sfocato, sofferente, seguendo le suggestioni delle opere di Bacon.

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ORLANDO

L'Orlando Furioso diviene oggetto d’analisi in O.F. ovvero Orlando Furioso, 1998/99. Presentato in vari modi: spettacolo teatrale, video e performance - tanto da formare una vera e propria opera multimediale, l'opera passata al bisturi dei Motus, viene sventrata e rivista, non in termini di rappresentazione ma di esecuzione. 

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L’ossessione di ricostruire continuamente le scene, i “quadri” del poema, diviene l’unica vera messa in scena e  l'apparato tecno-scenografico si fa elemento drammaturgico. 
Una grande, vorticosa piattaforma rotante: circo, giostra d’esposizione atroce degli eroi/eroine del poema. Luogo di vertiginose battaglie e patetiche relazioni amorose, enorme lanterna magica posta al centro di una Croce di passerelle sopra elevate, complessa “meccanica del desiderio” del poema.


ROOMS

​Rooms, confluito nella versione definitiva dal titolo Twin Rooms (2000-2003) si ispira al romanzo Rumore bianco di De Lillo. Attraverso un particolare dispositivo visivo e sonoro, l’azione teatrale, che procede per riquadri e close up, ricostruisce un vero e proprio set cinematografico. 

La regia teatrale diventa regia di montaggio. La camera d’albergo, la struttura scenica si raddoppia generando una “digital room” con due retroproiezioni affiancate da immagini pre-registrate o provenienti da telecamere a circuito chiuso e mixate live con quelle girate in diretta dagli stessi attori in scena. La cornice scenografica di questo expanded live cinema invade tutto lo spazio del palco e le immagini riempiono ogni interstizio possibile, generando un sovraccarico di immagini. 

Presenza inquietante, il video, in un eccesso di visibilità e una morbosità dell’occhio della telecamera che sorveglia e si sofferma sui corpi, drammatizza il totalitarismo consumistico narrato cinicamente da De Lillo: lo shock dell’immediatezza, il senso di alienazione e di perdita di identità nel flusso della rappresentazione del sé.


​ROMEO CASTELLUCCI

Tragedia Endogonidia di Romeo Castellucci (2002-2004) è un’opera unica formata da undici episodi. Sviluppata in tre anni, ognuno degli 11 video fa capo ad una città di cui prende il nome. 

L’idea, che alimenta 
Tragedia Endogonidia è quella di un'opera in continuo cambiamento. Un sistema di rappresentazione che, come un organismo, si trasforma nel tempo e nella geografia dei propri spostamenti. Lo spettacolo che ne emerge non è un’opera chiusa, in quanto gli episodi si auto generano e i filmati non sono da considerarsi “documentazione” di un fatto accaduto ma come parte integrante di ciò che, è accaduto e, continua ad accadere ogni volta che qualcuno guarda il video. 

Ci si trova, così, di fronte a 
quadri inediti, che stuzzicano la nostra immaginazione senza fornirci chiavi di lettura sicure. Indubbiamente la storia e il passato di chi guarda plasma la ricezione dell'opera, ma si tratta di connessioni nuove, in cui ci si trova in un nuovo inizio, dove ancora tutto deve essere inventato coerentemente.

gb



​Approfondimenti
TECNOLOGIA E TEATRO


TECNOLOGIA E TEATRO ANNI OTTANTA
TECNOLOGIA E TEATRO JOSEF SVOBODA
TECNOLOGIA E TEATRO | 2000 TEATRO ON LINE
TECNOLOGIA E TEATRO MULTIMEDOALE

TECNOLOGIA E ARTE                                            SCIENZE UMANE

1/9/2018

 


​ARNOLD GEHLEN

Come la tecnologia possa sovvertire il tradizionale approccio artista/opera è ben definito dall’antropologia filosofica di Arnold Gehlen.

Nel suo L’uomo nell’era della tecnica, Gehlen afferma, in maniera non poco ottimista, che la tecnica, nei confronti dell'arte, ha solo la funzione di "supplenza". L’oggetto tecnico, scrive, sostituisce organi che l’uomo non possiede, potenzia ed amplifica facoltà esistenti. La tecnica è dunque un’integrazione dell’inorganico nell’organico, un’integrazione subordinata, però, alla progettualità dell’uomo. E per quanto possa essere il movente di trasformazioni decisive nel mondo, la tecnica è comunque riconducibile a un fondamento antropologico, in quanto è tratto distintivo dell’Uomo la volontà di farsi surrogare o supplire da qualcos’altro.


​HORKHEIMER E ADORNO

​Al contrario, filosofi come Max Horkheimer e Theodor Wiesengrund Adorno, che condividono molte delle riflessioni di Benjamin, nella loro Dialettica dell’Illuminismo, del mondo tecnologico hanno un’immagine meno utopica, anzi fortemente critica. Nel modello di riferimento creativo che per molti artisti era stata la razionalità tecnica, i filosofi hanno individuato, in questa razionalità, il co-responsabile di ogni sistema totalitario del Novecento e quindi alla base di ogni meccanismo di oppressione. “La razionalità tecnica, oggi, è la razionalità del dominio stesso, scrivono. È il carattere coatto della società estraniata a sé stessa. Automobili, bombe e film tengono insieme il tutto finché il loro elemento livellatore si ripercuote sull’ingiustizia stessa a cui serviva”. ​

Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’Illuminismo intendono per industria culturale quegli strumenti con i quali il sistema inganna l’individuo inondandolo di futili valori e modelli di comportamento prestabiliti. Tali strumenti sono essenzialmente i mass media, tra i quali il mezzo televisivo è quello più capillare ed invasivo. La riproduzione meccanica dell’esistente, la ripetizione sempre più standardizzata delle proprie creazioni, l’esaltazione del sempre più perfezionato efficientismo tecnico sono elementi costitutivi dei mass media, strutture che, secondo Adorno, esercitano una potente e nefasta influenza sull’individuo. L’industria culturale abitua l’individuo ad una ricezione passiva, introiettando un’immagine univoca e asettica della realtà, lo persuadono ad adottare costumi e comportamenti stereotipati inibendo le funzioni immaginative e critico riflessive.


​INDUSTRIA CULTURALE

Secondo Adorno, in Dialettica e positivismo in Sociologia, la struttura, servendosi proprio delle scoperte tecnologiche si è trasformata in un sistema vero e proprio. In un aggregato, cioè, che offre tutti i beni necessari e tutte le superficialità, salvo arrogarsi il diritto di determinare tali beni. Ognuno è racchiuso fin dall’inizio in un sistema di istituzioni e relazioni, scrive, che formano uno strumento ipersensibile di controllo sociale. E il sistema ha dovuto indebolire l’individuo per svuotarlo della sua capacità di giudizio e di critica, soggiogandolo a quella che Adorno chiama Industria culturale.

L’industria culturale, strettamente intrecciata con l’industria produttiva, nutre la pubblicità che, nella visione adorniana, è probabilmente l’aspetto più inquietante della comunicazione di massa: l’individuo crede di poter scegliere liberamente e di riflettere su prodotti reali, ma non si accorge di essere davanti a meri simulacri. L’immaginario acquista nel simulacro una dimensione sociale, non perché i suoi contenuti ricevano l’adesione, l’approvazione, il consenso dei soggetti, ma perché la società stessa si è de-realizzata, ha acquistato, cioè, una dimensione immaginaria.

“Nel simulacro, spiega Mario Perniola in La società dei simulacri, la dimensione immaginaria non sta dalla parte dei soggetti, ma al contrario dalla parte della società: il simulacro è una effettività sociale, il cui statuto è quello di un’immagine priva di originale. L’immagine sociale non è il prodotto dell’iniziativa dell’individuo, ma qualcosa che è già data in partenza e a cui è impossibile sottrarsi, se non ricadendo nella marginalità, nel periferico, nel resto”.

La televisione, insomma, non ha voluto scoprire la “dinamite” per riutilizzare l’espressione usata da Benjamin a proposito del cinema. Tutt’oggi i contributi diretti e creativi degli artisti al mezzo televisivo vengono esclusi perché considerati incapaci di sostenere la larga udienza televisiva.

gb 
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APPROFONDIMENTI
TECNOLOGIA E ARTE

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TECNOLOGIA E ARTE | WALTER BENJAMIN
TECNOLOGIA E ARTE | ANNI CINQUANTA E SESSANTA
TECNOLOGIA E ARTE | ANNI SETTANTA E OTTANTA
TECNOLOGIA E ARTE | UN PO' DI STORIA

TECNOLOGIA E ARTE                                            NET ART

1/9/2018

 
Foto
Samuel F. B. Morse | Portrait in Morse code symbols, 1999

​Per Net art si intende la pratica contemporanea volta a creare opere d'arte con, per e nella rete Internet. In questo modo, la Net Art ha aggirato il tradizionale dominio del circuito di Gallerie e Musei, demandando il ruolo principale dell'esperienza della fruizione estetica ad internet o ad altre reti telematiche. Esistono però diverse tipologie di lavori digitali che seppur creati per la rete non possono essere definiti opere di net art.

Per questo motivo bisogna sottolinearne le ideosincrasie

creati con linguaggio di programmazione e software
l'intenzione artistica/estetica e di connessione fra più contenuti multimediali
l'interattività come elemento essenziale ma non sempre necessario
la fruibilità globale. L'accesso ad un'opera di Net.Art deve essere possibile da qualsiasi connessione ad Internet
l'essere open source. Modificabile da chiunque (in alcuni casi)


​IL TEORICO

Lev Manovich, teorico della net.art dice che è "la materializzazione dei social networks sulla comunicazione su internet". Infatti il gruppo precursore di questo movimento artistico è stato in grado di creare un genere artistico soprattutto attraverso la sua capacità di fare network e di connettere programmatori di tutto il mondo intorno ad una pratica creativa ma anche ironica. La net.art infatti ha giocato molto con la parodia, con l'errore e con la destrutturazione delle pagine web, imponendosi nelle principali rassegne internazionali, con spazi dedicati alla Biennali di Montreal, dal 1998, e al Whitney museum of American art di New York, dal 2000.

Oggi possiamo affermare che il movimento artistico della net.art come movimento e non come forma artistica, si va raffreddando. Negli anni che vanno dal 94 al 2004 circa - anni in cui il Web entrava per la prima volta nell'uso comune di milioni di persone che iniziavano a sperimentare il nuovo medium -  si è avuto un gran fermento, interesse che ha prodotto quella che è divenuta. oggi, una delle forma di arte.


​NET ART | ITALIA

In Italia la Net.Art inizia a diffondersi alla fine degli anni '90, ma molte sono le opere di net art realizzate prima di allora. Tra queste:

Nel 1986 alla Biennale di Venezia sono esposti diversi lavori di artisti internazionali che fanno uso delle reti telematiche.

Nel 1989 l'artista fiorentino Tommaso Tozzi realizza come opera d'arte il virus informatico subliminale "Rebel! Virus". Un anno dopo, realizza la banca dati telematica Hacker Art BBS e la espone nel 1991 alla mostra Anni 90 alla Galleria d'Arte Moderna di Bologna.

A gennaio del 1995 il gruppo Strano Network organizza al Centro per l'Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato il primo grande evento internazionale "Diritto alla comunicazione nello scenario di fine millennio".

Nel 1995 il poeta e teorico dell'arte Francesco Saverio Dòdaro fonda e dirige, la collana "Internet Poetry", prima esperienza italiana di net poetry. 

Nel maggio 1996 a Trieste ha luogo il primo evento internazionale dedicato all'arte in rete: Net Art Per Se organizzata dallo sloveno Vuk Cosic.

Nel 1997, nasce netOper@: prima opera italiana multimediale aperta alla partecipazione online di designer, artisti e musicisti nel ruolo di autori ed esecutori.

Nel 1997, il critico d'arte e giornalista Fortunato Orazio Signorello promuove nella sede dell'Accademia Federiciana (Catania) la mostra "Originalità autonome", con 25 netartisti.

Nel 1999 nasce il gruppo 80/81 con il progetto Island.8081.

Nel settembre del 2000 si svolge a Bologna il D.I.N.A digital_is_not_analog, un meeting che vuole far conoscere i principali esponenti della net art.

Nel 2001 nasce il gruppo EpidemiC che alla Biennale di Venezia insieme agli 1100101110101101.ORG espongono il virus informatico: Biennale.py

Nel settembre del 2002 ad Ancona viene organizzato BananaRAM a cui partecipano Maciej Wisniewski, Epidemic, 1100101110101101, Limiteazero, Nicola Tosic e Joey Krebs.

gb 
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TECNOLOGIA E ARTE                                                ANNI NOVANTA E DUEMILA

1/9/2018

 


VIDEO MONoCAnaLE​
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Gli anni Novanta rappresentano un periodo di cambiamento radicale nel panorama produttivo audiovisivo in genere, e videoartistico in particolare. La fine della tecnologia analogica pone un problema pratico al mondo della videoarte, ovvero la conservabilità delle opere, soprattutto delle videoinstallazioni. 

La maggior parte dei videoartisti fra gli anni Sessanta e Settanta - Nam June Paik, Bill Viola, i Vasulka, Zbigniew Rybczynski, Robert Cahen, Gary Hill, per citare solo alcuni nomi storici - interrompe la produzione “su schermo singolo” a favore della videoinstallazione, ed il semplice passaggio di formato del quadro da 4:3 a 16:9 per alcuni videoartisti rappresenta uno scarto di linguaggio notevole da affrontare: per il video monocanale, bisogna ripensare la modalità di ripresa, mentre per le videoinstallazioni, riprogettare l’intero allestimento, immaginando monitor rettangolari e non più quadrati. ​

Inoltre
 l’avvento dell’alta definizione digitale (o HD) provoca una piccola scossa in tutto il comparto audiovisivo, e determina un decisivo ritorno a un’esigenza di pulizia, netidezza e precisione dell’immagine. Una tensione a una forma visiva molto definita, simile a quella fotografica o cinematografica. 

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La qualità dell’immagine suggerita da questo formato digitale determina uno standard estetico: il ritorno all’idea dell’immagine fotograficamente pulita, quando non addirittura patinata. Da MTV alle mostre di videoarte, la parola d’ordine sembra essere: definizione. 
​
​E se è vero che nelle ultime opere monocanali di Bill Viola o di Gary Hill questa tendenza è già piuttosto netta, è altrettanto chiaro che lì, i riferimenti sono a certe forme di cinema d’avanguardia trasferiti dentro un’estetica elettronica.

​Proprio nel momento in cui le produzioni cinematografiche stanno 
progressivamente abbandonando la pellicola a favore dell’HD, nel settore videomusicale e in varie esperienze videoartistiche ritorna la pellicola, oltre all’HD, come uno dei supporti possibili da usare. Insomma, nel settore dell’arte contemporanea la videoarte riparte da zero, ovvero dal cinema.


​RIPARTIRE DAL CINEMA

​La rinnovata voglia di cinema, sdogana, inaspettatamente, anche l’animazione tradizionale a sfavore della computer grafica: un esempio fra tutti è William Kentridge, che realizza i suoi cortometraggi, in pellicola, con una tecnica ai limiti dell’archeologia dell’animazione, realizzando installazioni in cui lavora su un’estetica vintage che affonda nelle origini della storia del cinema.​ ​

Ritornano il set, la troupe e anche alcuni generi trattati, dal punto di vista linguistico, in modo molto classico, come il documentario, spesso intriso di autobiografia, come per esempio nelle produzioni di Shirin Neshat, o nelle videoinstallazioni di Eija-Liisa Ahtila, veri e propri docu-fiction frazionati in vari schermi, come If 6 Was 9, del 1999, o infine in alcune produzioni di Doug Aitken, dove la rappresentazione documentaristica del paesaggio, naturale o industriale, diventa un tema ossessivo.

Il riferimento, spesso nostalgico, alla memoria del cinema e dei suoi divi diffonde una vera e propria cinefilia di ritorno, come in 24 Hours Psycho di Douglas Gordon (1993), dove il film di Alfred Hitchcock viene rallentato fino a diventare, appunto, lungo 24 ore. Mentre in Telephones (1995) e The Clock (2010) di Christian Marclay si ripresenta l’estetica del found footage rimontato. 

Ritorna il feticismo nei confronti della pellicola come materiale, per esempio nell’opera di Tacita Dean, che lavora rigorosamente in 16mm ed espone una videoinstallazione dal titolo più che paradigmatico, Film (2011), proiettando immagini su un’enorme struttura verticale a forma, appunto, di pellicola. 

​
Oppure si recupera l’immagine della sala cinematografica in The Muriel Lake Incident (1999) di Janet Cardiff, dove l’installazione consiste nell’inserimento di un piccolo modello di cinematografo dentro una struttura di legno con un’apertura che l’osservatore può usare per guardare all’interno.

FILM

Per alcuni la formula monocanale può coincidere con la produzione di un vero e proprio film. Pensiamo a Pipilotti Rist con Pepperminta (2009), Shirin Neshat con Women Without Men (2009), ma forse la parabola più significativa è quella di Steve McQueen, videoartista e regista cinematografico che vince l’Oscar con un film narrativo tradizionale, 12 Years a Slave (12 anni schiavo) del 2013.
​

Al contrario, altri artisti creano un’estetica che manda in corto circuito la formula video monocanale con quella più tradizionalmente cinematografica. È il caso di Matthew Barney che fra il 1999 e il 2002 realizza un mastodontico progetto The Cremaster Cycle, formato da cinque episodi. 

Il modello linguistico sul quale Barney lavora è una sorta di cinema liquido, ipnotico, dove tutto accade lentamente
 senza che vengano applicati effetti di rallentamento. Le riprese, girate con una cura maniacale della fotografia fino a risultare patinate, non subiscono nessun tipo di trattamento se non di correzione del colore.

I video di
 Barney sono la rappresentazione quasi estatica di alcune situazioni visive che lavorano sulla ricchezza di elementi delle scenografie, sulle azioni dei performer, sulle loro mutazioni e sui loro costumi. Con lo stesso approccio è realizzato uno degli ultimi video, Drawing Restraints 9 (2005), ritratto rituale dell’incontro con la musicista islandese Björk. 
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​FILM DA CAMERA

L’operazione che forse più di tutte sintetizza questa tendenza espositiva con il desiderio di assimilare sempre di più il mondo del cinema, o più in generale dello spettacolo (e dei suoi divi) sono i Vroom Portraits (2012) di Robert Wilson. 

Il video monocanale diventa così una videoinstallazione a schermo singolo, che entra nelle case di chi la acquista come un flusso ​audiovisivo su un monitor piatto, che può essere usato come un quadro. Che poi il formato finale sia ovviamente digitale, non importa, perché viene percepito e definito anche dagli addetti ai lavori come un “film”, o una foto in movimento.

​Nasce un genere che potremmo chiamare 
film da camera, piuttosto lontano dalle istanze linguisticamente rivoluzionarie e sperimentali della videoarte.

gb



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TECNOLOGIA E ARTE                                                TELEVISIONE

1/9/2018

 
Foto
Trasmissione di Lascia o raddoppia in un cinema | Anni Cinquanta | ph Giancolombo
“Troppo spesso, ci dice Sandra Lischi - in  Cinema e Video: compenetrazioni, Cine ma video, 1996 - si dimentica che il registratore video, la conservazione su nastro magnetico, è un’invenzione assai tarda (1960), di molto posteriore a quella della telecamera (1936); e che da allora, prima cioè di tale invenzione, la Tv riprendeva e trasmetteva solo in diretta, senza però serbare alcuna traccia delle proprie immagini". 


​DIRETTA

Impostasi agli inizi degli anni Cinquanta, caratteristica della televisione, che la distingue dal cinema, è la diretta. 

​Si trasmette simultaneamente allo svolgersi dell’evento, grazie ad un rapidissimo processo di trasformazione elettronica. 
La diretta, quindi, apparenta tecnicamente la televisione alla famiglia dei media della simultaneità e della distanza come il telefono e la radio.


​SPAZIALISMO

​L’interesse del mondo dell’arte per la televisione è immediato: il Manifesto del Movimento Spaziale per la televisione scritto nel 1952 da Lucio Fontana, in collaborazione con esponenti dello Spazialismo, teorizza un’arte capace di rinnovarsi e proiettarsi nello spazio attraverso i nuovi mezzi tecnologici fra i quali la televisione.

​Cosi 
Lo Spazialismo di Lucio Fontana rappresenta uno squarcio di consapevolezza scientifico-tecnologica all’interno di una congiuntura artistica motivata da spinte irrazionalistiche e da un’aperta sfiducia nei confronti delle nuove tecnologie. 


​MEZZO VS SUPPORTO

Per capire appieno il rapporto fra televisione e arti visive dovremo distinguere fra televisione come mezzo di comunicazione di massa e televisione come supporto video. Risultata inadeguata nella prima accezione, la Tv, non aveva voluto perseguire quella comunicazione in senso proprio - in cui il fruitore non è un mero ricettore di messaggi - ancorandosi ai vecchi media, come la radio, già usurati dalla logica dell’intrattenimento e dal profitto.

Non a caso le prime sperimentazioni artistiche sono caratterizzate da un’attitudine critica ai modelli culturali che presiedono all’uso massificante della televisione. La televisione diventa così per l’artista un elemento scultoreo, destinato a denunciarsi all’interno di installazioni che sono manifestazioni di una critica sociale più ampia.

​Nel 1958, ad esempio, Wolf Vostell inserisce il televisore fra i suoi dé-coll/ages con l’intento, esplicito, di denunciare l’ottusità ipocrita e condizionante dell’uso omologante del mezzo televisivo da parte della struttura sociale contemporanea.

gb 
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TECNOLOGIA E ARTE NAM JUNE PAIK

TECNOLOGIA E TEATRO                                            VIRTUAL REALITY

1/9/2018

 
Foto
esempio di scenografia digitale | Ospite | Motus
Nel mondo audiovisivo l’ingresso della tecnologia della realtà virtuale ha rivoluzionato il sistema produttivo, trasformando professioni e modalità lavorative. Oggi la scenografia virtuale è in grado di creare qualunque ambiente tridimensionale, pensiamo ad esempio alla ricostruzione di siti perduti come il teatro La Fenice o il Colosseo. L'avanzamento delle tecnologie informatiche permette, quindi, di navigare in ambientazioni fotorealistiche in tempo reale, interagendo con gli oggetti virtuali.

​Ma anche se, a livello teorico, la realtà virtuale potrebbe essere costituita attraverso un sistema totalmente immersivo, in cui tutti i sensi possono essere stimolati - realtà virtuale immersiva o RVI - attualmente il termine è applicato a qualsiasi tipo di simulazione virtuale creata attraverso l'uso del computer. Dai videogiochi che vengono visualizzati su un normale schermo, alle applicazioni che richiedono l'uso degli appositi guanti muniti di sensori  - wired gloves -  fino al cosidetto World Wide Web.


SENSORAMA

Già dalla metà del XX secolo, Morton Heilig introdusse la nozione di Experience Theater, raccontando di un'esperienza che coinvolgeva tutti i sensi in maniera realistica, immergendo lo spettatore nell'azione che si svolgeva sullo schermo. Costruì anche un prototipo, chiamato Sensorama, nel 1962, insieme alla progettazione di cinque film che questo apparecchio proiettava e che coinvolgevano i cinque sensi. Costruito prima dei computer digitali, il Sensorama è un dispositivo meccanico, ancora funzionante.


​LA SPADA DI DAMOCLE

Sei anni dopo nel 1968, Ivan Sutherland, con lo studente Bob Sproull, creano La Spada di Damocle, quello che viene considerato il primo sistema di realtà virtuale con visore. Primitivo sia in termini di interfaccia utente sia di realismo, il visore da indossare era talmente pesante da dover essere appeso al soffitto, e la grafica era costituita da semplici stanze in wireframe.


​ASPEN MOVIE MAP

Passo decisivo verso l'ipermedia è stato l'Aspen Movie Map realizzato sotto forma di software dal MIT nel 1977. Primo vero dispositivo che possa essere considerato di realtà virtuale, ricreava virtualmente Aspen, la cittadina del Colorado. Gli utenti potevano camminare per le vie in modalità estate, inverno e in modalità poligonale. Mentre le prime due modalità erano indirizzate alla replica di filmati delle strade della cittadina, la terza si basava su una poligonazione tridimensionale, con una grafica scarsa visti i limiti tecnologici di allora.


​VIRTUAL REALITY

La nascita del termine VR, Virtual Reality, risale al 1989. Quando Jaron Lanier, pioniere in questo campo, fonda la VPL Research - Virtual Programming Languages - linguaggi di programmazione virtuale, legati al concetto di cyberspazio, originato nel 1982 grazie allo scrittore statunitense William Gibson.

Oggi, con le tecnologie attuali, la percezione di un mondo virtuale è ancora distinguibile da quella del mondo reale. Il fotorealismo delle immagini rende completa o quasi l'esperienza visiva, mentre altri sensi come olfatto e tatto, vengono poco stimolati. Ed infatti, tra le varie tipologie di ambiente proposte attraverso la realtà virtuale, sono quelli 3D che godono di maggior successo. Probabilmente perchè nell'uomo è la vista il senso dominante, motivo per cui gli ambienti virtuali devono essere caratterizzati da immagini ad altissima qualità e definizione, capaci quindi di presentarsi anche come sostituti della realtà, a discapito degli altri sensi. Su questa scia, e sempre più rilevante, la realtà aumentata  - augmented reality. Basata sull'ampliamento o l'integrazione della realtà circostante con immagini generate al computer, la realtà aumentata permette, alle immagini, di modificare l'ambiente originario senza influire sulle possibilità di interazione. 


​VIRTUAL SET

A teatro, le sperimentazioni del linguaggio scenografico Virtual Reality (VR) si concentrano, principalmente, sull’idea di fondere spazio reale e attore fisico nell’ambiente virtuale. Che si traduce in diversi tentativi di immettere lo spettatore nella VR attraverso l’uso di schermi e proiezioni in una relazione integrata con drammaturgia, regia e luci. Ma dal momento che l’immagine digitale vive nella percezione dei pixel che si posano su una superficie, la principale difficoltà della scenografia è di materializzare l’immagine nello spazio tridimensionale, dando un senso unitario ed artistico allo spazio virtuale. 

​​Il risultato più innovativo nell’applicazione della progettazione digitale della scenografia è il virtual set: scenografia sintetica progettata al computer mediante la tecnologia della realtà virtuale, che sostituisce il tradizionale spazio scenico costruito, al meno per quanto riguarda la cinematografia, ma non solo.

gb



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TECNOLOGIA E TEATRO | JOSEF SVOBODA
TECNOLOGIA E TEATRO | DRAMMATURGIA
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TECNOLOGIA E ARTE                                              UN PO' DI STORIA

1/9/2018

 

​Da sempre gli artisti si sono basati sulle conoscenze tecnologiche per trovare i materiali e gli strumenti adatti per esprimere al meglio i propri sogni, pensieri, visioni o credenze. E ogni opera d’arte si determinata, in primo luogo, dai materiali a disposizione dell’artista e dall’abilità di questi nel manipolarli.

​La tecnologia non solo influenza la creazione artistica stabilendo le possibilità di espressione degli artisti, ma determina il passaggio a funzioni diverse dell’arte, cambiandone anche le modalità di fruizione. 
La parola 
tecnologia deriva dal greco “techne”, arte intesa come il saper fare, e “logia”, discorso, trattato.

Già 30.000 anni fa i cacciatori del Paleolitico superiore erano in grado di lavorare la pietra così da renderla affilata o di utilizzare i pigmenti naturali per decorare le pareti delle caverne o per scolpire statuette femminili simboleggianti la fecondità. Scoperte per la prima volta, sulle pareti delle grotte in Spagna e nella Francia meridionale, figure di bisonte, mammut o cervo hanno confermato che gli uomini preistorici credevano già nel potere dell’influenza delle rappresentazioni: una volta fissata l’immagine, l’animale avrebbe ceduto al potere del cacciatore, come scrive Gombrich in La storia dell’arte.


​Rinascimento
Brunelleschi e Leonardo 

Fin dall’età della pietra, quindi, il rapporto fra arte e tecnologia ha avuto un ruolo importantissimo nello sviluppo dell’attività artistica, fino a confondersi, in maniera evidente, nel Rinascimento. In quell’epoca, scrive Massironi in L’Osteria dei Dadi Truccati, l’arte intesa come techne coltivava interessi per la scienza dei numeri, per le proporzioni e i rapporti e si dedicava alla progettazione di macchine ed edifici destinati a scopi sia civili che militari.

L’artista era un po’ tecnico, scienziato, filosofo naturale e inventore. All’inizio del Quattrocento Filippo Brunelleschi, architetto fiorentino, aveva dipinto, nel corso di un esperimento, due tavolette che hanno segnato la nascita della prospettiva intesa come insieme di procedure e proposizioni di carattere geometrico-matematico dei passaggi che consentono di costruire l’immagine di una figura nello spazio su un piano, proiettando questa figura da un centro di proiezione posto a una certa distanza ben definita. 

Brunelleschi è l’artista-scienziato che ha segnato il passaggio dal Medioevo al Rinascimento ed è con lui che il progetto inizia ad avere il primato sulla realizzazione. T
utta la sua opera artistica, architettonica, teorica può essere letta come una ricerca matematica, una ricerca delle relazioni geometriche, delle leggi fisiche e meccaniche. Con la prospettiva è stato inaugurato un nuovo atteggiamento nell’osservazione della natura e si andava preparando il terreno per la rivoluzione scientifica del diciassettesimo secolo.
​

Dopo Brunelleschi è la volta di Leonardo, la cui intera opera è un fitto intreccio di arte, scienza e tecnologia al servizio della conoscenza e della rappresentazione. Leonardo è stato il primo a ipotizzare l’esistenza di due prospettive: quella lineare di Brunelleschi e quella aerea con la quale intendeva il meccanismo della messa a fuoco: se si guardano nitidamente le figure in primo piano, l’occhio non può contemporaneamente mettere a fuoco anche le figure sullo sfondo.

Quindi, se il pittore sfoca le immagini in lontananza, riesce a creare un effetto di tridimensionalità che non fa ricorso alle linee geometriche dell’architettura. Inoltre, a Leonardo si devono i primi studi in Europa sulla possibilità di proiettare immagini dal vero su un foglio dove potevano essere facilmente ricopiate, con la cosiddetta camera oscura leonardiana.

​Con la camera oscura l’inventore intendeva dimostrare che le immagini hanno una natura puntiforme e si propagano in modo rettilineo venendo poi invertite da un foro strettissimo che fungeva da obiettivo, arrivando persino a ipotizzare che anche all’interno dell’occhio umano avvenisse un capovolgimento analogo.


La camera ottica risultava ancora utilizzata nel XVIII secolo da pittori come Canaletto e Bellotto che, grazie a quella, hanno acquisito precisione fotografica nel dipingere i paesaggi veneziani per i quali continuano ancora oggi a essere celebri.  


OTTOCENTO

Nel 1800 si pensò alla possibilità di combinare le proprietà creatrici della camera ottica con la possibilità di registrare le immagini ottenute sfruttando le caratteristiche dei sali d’argento sensibili alla luce. Così negli anni trenta dell’800 nasce la fotografia, e molti pensarono, come il pittore Paul Delaroche, che avrebbe decretato la morte della pittura. In realtà la fotografia determina solo il passaggio a forme pittoriche diverse.

Grazie alla fotografia, cui spetta il compito di imprigionare e documentare la realtà, il pittore può permettersi di andare oltre quello che l’occhio vede, esplorando il territorio della percezione, abolendo le regole prospettiche. Gli impressionisti infatti, accogliendo le teorie ondulatorie e corpuscolari sulla luce, ne studiano il movimento, le vibrazioni e i cambiamenti di colore.

​Inoltre, la rivoluzionaria invenzione industriale dei colori in tubetto consente al pittore di abbandonare l’atelier per riprendere en plein air i caffè parigini, i cabaret e la vita dell’epoca, cogliendo l’impressione del momento come Renoir con il 
Ballo al Moulin de la Galette o Monet ne La stazione di Saint-Lazare, dove ciò che interessa al pittore, come dice Gombrich ne La storia dell’arte, non è la stazione in quanto soggetto ma l’effetto della luce che entra dalla tettoia di vetro per investire le nuvole di vapore e la forma delle locomotive e dei vagoni che emergono dalla confusione.


​NOVECENTO

​Con la fotografia prima e il cinema poi, ma più in generale con l’avvento della società industriale, l’opera d’arte entra, come afferma Benjamin, nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Lo sviluppo tecnologico investe i mezzi di produzione e di riproduzione della comunicazione e della rappresentazione, dando vita a nuove forme di produzione e di diffusione del lavoro artistico e a nuove concezioni rispetto alla funzione sociale dell’arte e dell’artista. Queste innovazioni, come sempre per quelle di grandi portate, ebbero risposte contrastanti. Da un lato, soprattutto a partire dal primo decennio del XX secolo, gli artisti sono affascinati dalla tecnologia, la assimilano o addirittura la utilizzano nella sperimentazione di nuove forme di espressione.

​Il futurismo è manifestazione del dinamismo del mondo moderno, vuole cantare la civiltà della macchina e della tecnica anche attraverso l’esaltazione della guerra che, come scriveva Marinetti nel 
Manifesto per la Guerra Coloniale in Etiopia, “grazie alle maschere antigas, ai terrificanti megafoni, ai lanciafiamme e ai piccoli carri armati fonda il dominio dell’uomo sulla macchina soggiogata”. Dall’altro lato, alcuni artisti rifiutano sdegnosamente la tecnologia e la modernità scegliendo la strada dell’idealismo o dell’irrazionalismo. 

​Baudelaire afferma: “se​ alla fotografia si permetterà di integrare l’arte in alcune sue funzioni, quest’ultima verrà ben presto soppiantata e rovinata da essa, grazie alla sua naturale alleanza con la moltitudine”. Per il poeta, il fare artistico è un’attività creativa, opera di un individuo eccezionale e l’opera è un oggetto unico e irripetibile. Nel momento in cui la macchina fotografica si sostituirà alla mano dell’artista nella produzione di immagini, questa unicità e irripetibilità verrà meno.

gb 
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TECNOLOGIA E ARTE                                                ARTISTI                                                                  LASZLO MOHOLY-NAGY

1/9/2018

 
Foto
László Moholy-Nagy | Fotogramm 1926
Fra i maggiori teorici del Bauhaus, László Moholy-Nagy fin da subito cerca di scindere l'apparato produttivo dall’apparato riproduttivo. Nel suo saggio Pittura, fotografia, film, scriveva:

“Poiché la produzione serve soprattutto allo sviluppo dell’uomo, noi dobbiamo cercare di estendere a scopi produttivi quegli apparati finora usati solo a fini riproduttivi”.

Produzione qui intesa come creatività produttiva atta allo sviluppo dell’uomo. Un invito ad usare i mezzi finora adoperati a fini riproduttivi per la creazione di cose e mondi nuovi, la poiesis insomma.

E Moholy Nagy, per spiegarsi meglio ricorre all'esempio del grammofono. Questo, dice, “ha avuto sinora il compito di riprodurre effetti acustici preesistenti […].Un’estensione dell’apparecchio a scopi produttivi potrebbe avvenire in questo modo, che le scalfitture vengano praticate nel disco di cera dall’uomo stesso, senza l’intervento di una azione meccanica esterna, e producano, all’atto della riproduzione, un effetto sonoro, così da rendere possibile, senza nuovi strumenti e senza orchestra, un rinnovamento nella produzione sonora e con ciò contribuire alla trasformazione delle concezioni musicali e delle possibilità compositive”.

​Ma per rovesciare l’impiego degli “apparati tecnici”, portarli cioè dal semplice utilizzo ri-produttivo a quello produttivo, bisogna piegare il medium verso l’elaborazione di “nuovi esperimenti creativi”, di nuovi linguaggi, lontani da ogni orizzonte mimetico o rappresentativo. In questo contesto, fondamentale risulta l’apporto tecnologico.

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Non è un caso che la videocamera è messa in commercio proprio nel momento in cui andavano affermandosi happening e performances.

gb 
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TECNOLOGIA E TEATRO                                            VIDEOTEATRO

1/9/2018

 
Foto
Eneide | Krypton Teatro, 1983
Diverso dal teatro per il video, il videoteatro definisce genericamente sia la produzione videografica d’ispirazione teatrale, sia creazioni completamente autonome: videodocumentazioni, biografie videoartistiche; sia produzioni di teatro televisivo, pensiamo alle sperimentazioni televisive di Luca Ronconi, Carlo Quartucci, Carmelo Bene e Mario Martone ad esempio.
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Nato in Italia nei primi anni Ottanta dall’interazione tra la ricerca teatrale e le prime forme di videocreazione, il videoteatro è soprattutto performances tecnologiche o spettacoli teatrali che utilizzano l’elettronica in scena. Le prime produzioni si ebbero nell’ambito della postavanguardia teatrale, coniugando la performance con le pratiche video, misurandosi più con la sensibilità dei videoclip musicali che con quella della videoart.

​Il termine viene coniato alla realizzazione, nel 1982, di Tango Glaciale di Falso Movimento, per la regia di Mario Martone, un’opera che traduce nella nuova tecnologia elettronica una scrittura scenica che già contemplava in sé una spiccata composizione multimediale. Quella produzione rappresenta un unicum per quel decennio, un’eccezione rispetto tutta un’area di produzione indipendente al di fuori delle logiche del broadcast.


​PROGETTO OPERA VIDEO VIDEOTEATRO

Rispetto al teatro televisivo o alla documentazione video di spettacoli, il videoteatro esprime un nuovo linguaggio multimediale.

​Il concept video prodotto, nel 1988, dal festival POW  - Progetto Opera Video Videoteatro - di Narni, definito poi Scenari dell’Immateriale, ha permesso d’individuare i cambiamenti di linguaggio apportati dal videoteatro, tracciandone una prima topografia.

​Un'importante documentazione video, una mappa iper-mediale ante litteram, al cui interno si rilevano opere in cui si traspone la scena in video, attraverso la traduzione elettronica della messinscena, secondo una regia conforme - spesso dello stesso autore teatrale - o si ricostruisce, con un’elaborazione audiovisiva una alterità video - o, ancora, opere disancorate dalla messinscena, quindi autonome ed originali, o opere video definite “presagi”, anticipando lo spettacolo in clip di carattere promozionale o evocativo.

Tra i protagonisti della prima ondata del videoteatro: Krypton, Riccardo Caporossi, Falso Movimento-Mario Martone, Societas Raffaello Sanzio, Magazzini Criminali, La Gaia Scienza, Teatro della Valdoca, Michele Sambin_Tam TeatroMusica, Giacomo Verde, Studio Azzurro, Koinè.

gb



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TECNOLOGIA E DANZA                                          VIDEODANCE                                                          INGHILTERRA E GERMANIA

1/9/2018

 
Foto
Two falling too far | Mark Murphy and Sue Cox, 1990


​INGHILTERRA

​In Gran Bretagna, la televisione ha svolto un ruolo fondamentale per lo sviluppo, la diffusione, la promozione e la produzione della danza prima, e della videodanza poi. Intenti educativi, divulgativi e di informazione che rendono difficile una distinzione netta fra televisione e videodanza, dal momento che il fenomeno di broadcasting e quello creativo-artistico sono due sistemi integrati, anche dal punto di vista economico. I paesi anglosassoni hanno un modo particolare di produrre danza in video, un metodo che unisce allestimenti live a valori propriamente coreografici, come nel caso della ripresa di uno spettacolo esistente, un esempio potrebbe essere Eight Jelly Rolls di Trisha Brown per la regia di Dereck Bailey.

Negli anni Ottanta, in concomitanza con l'esplosione della danza, si intensificano le produzioni, facendo emergere le nuove generazioni di coreografi come Richard Alston, Karol Armitage, l'italiana Adriana Boriello. I provocatori DV8 con Never Again; Dead Dreams of monochrome men del 1989; l'atletico Mark Murphy - vimeo.com/mrmarkmurphy - con Two Falling Too Far, la politicizzata Rosemary Butcher con Body as Sight, del 1993.

Negli anni Novanta, grazie al progetto Dance for Camera, vengono prodotti alcuni video shot format, fra i quali vale la pena ricordare Never Say Die di Nigel Charnock, Dwell Time di Siobhan Davis, entrambi del 1995. Fra le produzioni indipendenti e fra quelle ibride, un capolavoro è Enter Achilles, dall'omonimo lavoro teatrale coreografato da Lloyd Newson, del 1996, preceduto da Strange Fish. La cifra visionaria degli esponenti di DV8 oscilla fra proiezione onirica e desiderio, in una carrellata di personaggi di grande energia, ma anche di forte impatto visivo, in qualche caso al limite dell'erotismo.

Fra le realizzazioni inglese più recenti presentati alla rassegna milanese Teatri90 nell'edizione del 2000, il video The Reunion del 1997 con la coreografia di Ian Spink è incentrato sul nuovo incontro fra un uomo e una donna; sempre del 1997, Exit, coreografia di Jamie Walton, racconta con ritmi martellanti il viaggio nella memoria di cinque danzatori nel Greenwich Foot Tunnel che passa sotto il Tamigi. Nel recente The Link, 2000, il performance artist Glyn Davis Marshall traccia il breve ritratto di un proprio antenato morto cinquant'anni prima in circostanze misteriose.


​GERMANIA

In Germania, già da molti anni vi era la buona abitudine di riprendere per la telecamera balletti e produzioni di teatrodanza. Grazie a questo, ad esempio oggi possiamo vedere le riprese delle opere originali del tempo, pensiamo a Barbe Bleue del 1977 di Pina Bausch, che oggi possiamo vedere con i danzatori di allora, o Café Müller del 1985, dove a danzare è la stessa coreografa. Ma aldilà delle riprese, per una vera e propria produzione di videodanza, come prodotto autonomo, bisogna aspettare gli anni Novanta.

E ancora una volta torna la firma Baush con Der Klager Der Kaiserin, Il lamento dell'Imperatrice, alla quale si accompagnano, da un lato, opere visive dalla forte concentrazione narrativa come quelle di Lutz Gregor, pensiamo ad Angelus Novus del 1991 o a Kontakt Triptychon del 1992; dall'altro video produzioni più sperimentali come nel caso dell'artista Tamara Stuart Ewing, pensiamo ad esempio alla sua opera del 2000, Mile “0”, sul tema della gravità della caduta.

gb 
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