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INTERVISTA
D. Il tuo corpo, insieme di mente e carne, come è cambiato in questi 10 anni? Insomma Silvia sta Ofelia, ancora oggi come allora?
R. Il mio corpo penso abbia maturato una certa consapevolezza data dal tempo e dai personaggi che lo hanno plasmato, attraverso quel movimento interiore invisibile che si fa respiro, traccia, segno, e che inevitabilmente matura nel corso degli anni, grazie al lavoro su sè stessi e agli incontri preziosi della vita. Oggi Silvia e Ofelia si ritrovano come due amiche che dopo diversi anni si amano come il primo giorno, e forse si conoscono anche più di dieci anni fa.
R. Direi che all’inizio è come un colpo di fulmine, e quindi se vogliamo è una forma di “possessione”, un istante di passione che si accende, che si infiamma e ti fa innamorare. Ma poi, come nell’amore credo, affinchè il personaggio prenda forma e cresca radicandosi nel corpo, nei sentimenti e nella pelle, è necessario camminargli affianco, volergli bene giorno per giorno, a partire dal lavoro in sala, per passare al pensiero, allo studio, alla scrittura, fino ad arrivare a scegliere per lui gli oggetti e i costumi di scena. E tutto questo combinato insieme si inserisce nel lavoro sul corpo del personaggio che quindi diventa una “parte di noi”.
D. L'esperienza con l'Odin Teatret cosa ha contribuito, se lo ha fatto, nel tuo intendere il corpo in scena?
R. L’esperienza con l’Odin Teatret ha contribuito soprattutto da punto di vista della “gestione del tempo”, perché mi ha dato modo di sperimentare un percorso di creazione in completa pace, lontano da tutto, una pace in cui “azione” e “attesa” avevano lo stesso diritto di cittadinanza, nel pieno rispetto del lavoro artistico. Azione e attesa, ovvero due facce della stessa medaglia grazie alle quali è possibile una completa immersione, quasi ascetica, che non solo accelera i tempi di creazione, ma li migliora nettamente. Inoltre lo sguardo presente e altamente umano e artistico di Julia Varley, durante il periodo di residenza all’Odin Teatret, è stato un tocco di determinante bellezza che ha conferito forza e determinazione alla mia ricerca fisica ed emotiva su Lolita, e sul mio percorso in generale.
R. Come formatrice teatrale, penso sempre che innanzi tutto sia fondamentale aiutare i giovani a pensare in modo fisico, lasciandosi alle spalle le paure, i giudizi, le gabbie del pensiero razionale, gli schemi, e aprendosi, con fiducia e pazienza, allo studio su sè stessi attraverso le meccaniche del corpo e dei sentimenti ad esso connessi. Certamente aprire la finestra della fantasia e dell’immaginazione coadiuva questo processo di “liberazione” e di studio sul corpo, ma sono assolutamente indispensabili anche la costanza e la determinazione, nello studio delle tecniche e delle metodologie, per poter raggiungere una piena padronanza del proprio strumento corpo/voce. E per questo ci vuole spirito di sacrificio e una buona dose di forza di volontà.
R. Il mio rapporto col corpo come artista lo sento pieno e dedicato completamente a ciò che sono chiamata ad interpretare, nella vita è un po’ diverso, paradossalmente laddove in scena ci si sente più sicuri di sè stessi, nella vita scopriamo ogni giorno zone di fragilità e sensibilità che non sapevamo di avere, ma è anche vero che l’artista per definizione è un essere umano che porta con sé un mondo di contraddizioni e chiaroscuri tali da poter avere la forza per andare in scena ed esporsi, ogni volta, come fosse la prima volta. Forse la fragilità dell’essere umano corrisponde alla sua forza come artista? Chissà…
gb
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Giovanni Bertuccio
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