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Arte e Tecnologia | Scienze Umane

7/3/2017

 
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Come la tecnologia possa sovvertire il tradizionale approccio artista/opera è ben definito dall’antropologia filosofica di Arnold Gehlen. Nel suo L’uomo nell’era della tecnica, Gehlen afferma, in maniera non poco ottimista, che la tecnica, nei confronti dell'arte, ha solo la funzione di "supplenza". L’oggetto tecnico, scrive, sostituisce organi che l’uomo non possiede, potenzia ed amplifica facoltà esistenti. La tecnica è dunque un’integrazione dell’inorganico nell’organico, un’integrazione subordinata, però, alla progettualità dell’uomo. E per quanto possa essere il movente di trasformazioni decisive nel mondo, la tecnica è comunque riconducibile a un fondamento antropologico, in quanto è tratto distintivo dell’Uomo la volontà di farsi surrogare o supplire da qualcos’altro.

Al contrario, filosofi come Max Horkheimer e Theodor Wiesengrund Adorno, che condividono molte delle riflessioni di Benjamin, nella loro Dialettica dell’Illuminismo, del mondo tecnologico hanno un’immagine meno utopica, anzi fortemente critica. Nel modello di riferimento creativo che per molti artisti era stata la razionalità tecnica, i filosofi hanno individuato, in questa razionalità, il co-responsabile di ogni sistema totalitario del Novecento e quindi alla base di ogni meccanismo di oppressione. “La razionalità tecnica, oggi, è la razionalità del dominio stesso, scrivono. È il carattere coatto della società estraniata a sé stessa. Automobili, bombe e film tengono insieme il tutto finché il loro elemento livellatore si ripercuote sull’ingiustizia stessa a cui serviva”. ​

Secondo Adorno, in Dialettica e positivismo in Sociologia, la struttura, servendosi proprio delle scoperte tecnologiche si è trasformata in un sistema vero e proprio. In un aggregato, cioè, che offre tutti i beni necessari e tutte le superficialità, salvo arrogarsi il diritto di determinare tali beni. Ognuno è racchiuso fin dall’inizio in un sistema di istituzioni e relazioni, scrive, che formano uno strumento ipersensibile di controllo sociale. E il sistema ha dovuto indebolire l’individuo per svuotarlo della sua capacità di giudizio e di critica, soggiogandolo a quella che Adorno chiama Industria culturale.

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Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’Illuminismo intendono per industria culturale quegli strumenti con i quali il sistema inganna l’individuo inondandolo di futili valori e modelli di comportamento prestabiliti. Tali strumenti sono essenzialmente i mass media, tra i quali il mezzo televisivo è quello più capillare ed invasivo. La riproduzione meccanica dell’esistente, la ripetizione sempre più standardizzata delle proprie creazioni, l’esaltazione del sempre più perfezionato efficientismo tecnico sono elementi costitutivi dei mass media, strutture che, secondo Adorno, esercitano una potente e nefasta influenza sull’individuo. L’industria culturale abitua l’individuo ad una ricezione passiva, introiettando un’immagine univoca e asettica della realtà, lo persuadono ad adottare costumi e comportamenti stereotipati inibendo le funzioni immaginative e critico riflessive.

L’industria culturale, strettamente intrecciata con l’industria produttiva, nutre la pubblicità che, nella visione adorniana, è probabilmente l’aspetto più inquietante della comunicazione di massa: l’individuo crede di poter scegliere liberamente e di riflettere su prodotti reali, ma non si accorge di essere davanti a meri simulacri. L’immaginario acquista nel simulacro una dimensione sociale, non perché i suoi contenuti ricevano l’adesione, l’approvazione, il consenso dei soggetti, ma perché la società stessa si è de-realizzata, ha acquistato, cioè, una dimensione immaginaria. “Nel simulacro, spiega Mario Perniola in La società dei simulacri, la dimensione immaginaria non sta dalla parte dei soggetti, ma al contrario dalla parte della società: il simulacro è una effettività sociale, il cui statuto è quello di un’immagine priva di originale. L’immagine sociale non è il prodotto dell’iniziativa dell’individuo, ma qualcosa che è già data in partenza e a cui è impossibile sottrarsi, se non ricadendo nella marginalità, nel periferico, nel resto”.

La televisione, insomma, non ha voluto scoprire la “dinamite” per riutilizzare l’espressione usata da Benjamin a proposito del cinema. Tutt’oggi i contributi diretti e creativi degli artisti al mezzo televisivo vengono esclusi perché considerati incapaci di sostenere la larga udienza televisiva.


gb


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