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L'importanza delle fiabe. I Talismani di Claudio e Geraldina..

7/14/2016

 
“C'era un tempo in cui gli uomini e le donne, i ragazzi e le ragazze, i bambini e le bambine potevano vedere, nelle nuvole che corrono basse lungo i monti, le Fate danzare nei loro cerchi e sapevano ascoltare le storie e le leggende che il vento narrava soffiando fra i rami degli alberi, fra le lose dei tetti e nelle gole più strette delle montagne…”
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​Claudio Zanotto Contino, Talismani, Villa del Meleto | Teatro a Corte Agliè, 10 luglio 2016
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D. Quando nasce e da cosa è scaturita la collaborazione con l'asina Geraldina?

R. E' stato un caso di serendipity (quando trovi quello che non cerchi), La necessità di trovare un mezzo di trasporto per "bagagli" durante i miei giri in montagna a cercare e raccontare fiabe e leggende, inizialmente (1997) mi sono rivolto ad una associazione che si occupava della riscoperta del'ASINO, chiedendo loro di accompagnarmi, ma nel periodo che a me interessava loro non potevano, però mi hanno consigliato di prendere un asino, che l'effetto sarebbe stato dirompente, ho ubbidito e così è stato (sono figlio di contadini, dotato di cascina e stalla), il popolo viene per l'ASINO e come dico nello spettacolo senza di lei niente si sarebbe mosso. Poi negli anni ho trovato tante assonanze fra gli asini dimenticati e le fiabe che non si raccontano più, ho imparato cos'è un mondo "non antropocentrico" e con la mia attività è quello che vado a proporre una visione del mondo "NON ANTROPOCENTRICA".

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D. Le fiabe. Fra tradizione e attualizzazione, l'importanza della metafora oggi.. 

R. Aldilà di ciò che si racconta è la situazione ad essere fondamentale. Lo stare insieme, in un luogo raccolto, con la presenza di un animale è qualcosa di atavico, che abbiamo fatto per migliaia  di anni. E' qualcosa che ci appartiene e che oggi ci manca e, questa mancanza, questa nostalgia atavica, deve essere colmata! Io racconto fiabe della tradizione e testi nuovi "di narrazione" scritti per NOI da Luciano Nattino e Antonio Tarantino.

D. La memoria. Il recupero antropologico e letterario del lascito orale nel territorio Gozzano.

R. Gozzano lo ​possiamo inserire come territorio "locale" nel Canavese, in particolare nell'Anfiteatro Morenico d'Ivrea, che io ho negli anni indagato, setacciato e riproposto sempre dal punto di vista di fiabe e leggende per intero, ridando vita a quello che è rimasto, e c'è ancora parecchio e ci sarebbe parecchio ancora da fare.

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​D. Paolo Poli. Fra intelligenza, somma cultura e visione ludica della vita, Talismani vuole essere un tributo, oltre che all'opera di Gozzano, al teatro dell'artista da poco mancato?

R. Qui si tratta delle Celebrazioni del Centenario della Morte di Gozzano. Paolo Poli con lo spettacolo Farfalle ha fatto un lavoro su Gozzano fantastico, per intelligenza, somma cultura e visione ludica della vita e anche sottilmente politico. E' il miglior manifesto che ci sia per valorizzare l'opera di Gozzano è  quasi imperdonabile non tenerne conto, nello spettacolo Farfalle con pochi sintetici interventi lo definisce magistralmente, da a Cesare quello che è di Cesare. Ho ascoltato per mesi il Cd pregando che il suo spirito, nella miseria della mia carne alegiasse, che fosse pioggia e aria. Di certo a parte questo site specific inserirò i testi di POLI nel mio lavoro sulle fiabe di Gozzano, un cappello con la veletta, un paio di guanti e sarò la SUA "amorevole, perfida e compassionevole " Amalia Guglielminetti.

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D. Vivere di teatro in Italia è impossibile, occorre costanza e ricerca di alternative. Più che una passione la tua appare una necessità. Quali "talismani" cela e concede, secondo te, il teatro?  

R. Il mio è un percorso molto personale, tarato sulle mia vita, sicuramente una "necessità", a cui ho sempre dato risposte coerenti e in sintonia con le mie "mancanze" e i miei "bisogni". Negli ultimi 10 anni ho lavorato molto per accettare il mio teatro e a 60 anni sono molto contento di quello che ho fatto e convivo sempre meglio con questa "necessità". Il TALISMANO che cela il Teatro è la possibilità che hai  di "studiare" sempre, di "crescere", "scoprire" esperienze di vita, di mettersi in gioco.. (banalità?)

giovanni bertuccio

Se si vince o si perde, il Teatro non deve morire! Conseguenze e considerazioni dopo il No del TAR

7/1/2016

 
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Un plauso al Teatro Elfo Puccini, scrive sul suo profilo Facebook CRISTINA CAPPELLINI - Assessore alle Culture, Identità e Autonomie di Regione Lombardia, Lega Nord - che ha deciso di intraprendere la strada del ricorso non solo con motivazioni mosse da spirito di salvaguardia della propria realtà, ma andando direttamente alla radice del decreto e smontandone l’impianto generale. Se tutti i teatri (milanesi, lombardi e non) avessero fatto squadra fin dall’inizio contro l’impianto generale del decreto, anziché pensare ognuno al proprio orticello, com’è avvenuto in linea generale, non avrebbero perso tre anni in rimostranze varie e si sarebbe potuto fare un lavoro comune, più organico e lungimirante.Comunque sia il TAR del Lazio alla fine ci ha dato ragione e ha suonato la sveglia al Governo con una sonora bocciatura!”
E ancora, la Commissione Cultura del 
MOVIMENTO 5STELLE, scrive, “Come volevasi dimostrare: il Tar del Lazio ha bocciato il meccanismo previsto nel decreto ministeriale per la distribuzione dei finanziamenti statali del Fus. Un decreto calato dall’alto, che porta la firma dell’ex direttore generale per lo spettacolo dal vivo Salvatore Nastasi, e che introduce un sistema basato su un algoritmo per stabilire quali associazioni possono beneficiare dei fondi pubblici e quali no, un sistema inconcepibile che di fatto ha portato alla chiusura di numerose realtà culturali, soprattutto quelle più piccole e periferiche, ma innovative. Il M5S da subito ha denunciato con forza il decreto, dando voce alle proteste del mondo della cultura, della danza e del teatro contro l’ennesima riforma ispirata al principio dei grandi numeri, che penalizza e svilisce la qualità, concepita in totale assenza, o meglio spregio, del necessario confronto e coinvolgimento con gli operatori del mondo della cultura”.​
​
La sentenza del TAR del Lazio sul ricorso del Teatro dell’Elfo.
La sentenza del TAR del Lazio sul ricorso del Teatro Due.

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Tutti contenti insomma, tutti felici per una bocciatura, forse doverosa; per la vittoria, presunta, di teatri e teatranti. Ma la verità è che l'annullamento del Decreto conduce dritto al Blocco dei finanziamenti, quindi niente soldi, programmazioni paralizzate, stipendi in stand by. E' DARIO FRANCESCHINI - Ministro del Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, PD - che spiega: "il direttore generale bloccherà i finanziamenti perché il decreto è già annullato da una sentenza esecutiva quindi se non c’è un cambiamento in Consiglio di Stato vengono purtroppo bloccati i finanziamenti, anche quelli in corso di pagamento. Quando ci sono 120 ricorsi si può anche immaginare che se un ricorso viene accolto produce degli effetti, non è che i ricorsi sono delle dichiarazioni di principio. Ma sono fiducioso, perché ci sono ottime ragioni che l’Avvocatura sosterrà in Consiglio di Stato”.

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Il decreto. Pro
Dal decreto emergevano alcune note positive, ovvero la progettazione triennale, l'apertura agli under 35, il principio della multidisciplinarietà. Non è inoltre da sottovalutare che il 75% dei richiedenti ha avuto nel 2015 contributi più alti che nel 2014. Bisogna ammettere che senza la Commissione Consultiva – l'insieme delle Commissioni Prosa e poi danza e circhi – non si sarebbe capito bene, come stavano funzionando i meccanismi. E pareva, tutto sommato, che i gli algoritmi attuali non sono peggio del decreto del 2007 – in vigore fino al 2014 – che attribuiva alla qualità un valore del 300%.

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Il decreto. Contro
Era diventato un caso su Facebook, l'indignazione del mondo del Teatro e dei lavoratori: artisti, registi, attori. Ricordiamo, uno per tutti, la battaglia mediatica che Juri Ferrini, insieme ai commentatori, aveva intrapreso sempre nella sua pagina Facebook. Insomma, tutti concordi nell'affermare che le falle risiedono:
​nella sopravvalutazione della quantità sulla qualità, sull'arbitrio/carattere discutibile nella ripartizione delle risorse fra i cluster, sull'ambiguità della qualità indicizzata che è quantità mascherata. E, infine, la questione delle competenze Stato/Regione e della probabile natura regolamentare di questi decreti (che regolamenti non dovrebbero essere).


Corsi e Ri-corsi. Il déjà-vu italiano
Dieci anni fa, il panico era analogo a quello attuale. Il Governo aveva emanato il decreto legge 18 febbraio 2003, n. 24 (Disposizioni urgenti in materia di contributi in favore delle attività dello spettacolo, regolamento convertito con legge n. 82/2003, che disciplinerà l’assegnazione dei contributi fino al 2007). La Regione Toscana, ritenendo che una tale regolamentazione non fosse di competenza dello Stato, presentò un ricorso di legittimità presso la Corte Costituzionale. Le sentenze della Corte Costituzionale (n. 255 e 256 del 21 luglio 2004, interessanti anche per altri aspetti), non diedero torno alla Regione, ma rigettarono il ricorso perché annullare il regolamento avrebbe comportato il sacrificio dei valori protetti dagli art. 9 e 33 della Costituzione; in altri termini l’annullamento del regolamento avrebbe compromesso l’intervento contributivo pubblico a favore del teatro, che è la conseguenza di un principio costituzionale, quindi più forte delle ragioni del ricorrente.

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Le responsabilità
Il 
Ministero:  per tenere tutto al centro ha fatto molto in fretta, senza tener conto degli impatti e della crisi, senza meditare sulle funzioni delle (nuove) organizzazioni e sulle competenze dello Stato e delle Regioni.
Il 
MiBACT: inseguendo l'Europa si è infatuato della valutazione comparativa.
Le Regioni, che hanno avallato i dettami alti ma purtroppo, ad oggi, scavalcate ancora una volta, nelle loro competenze, che forse sempre meno desiderano e che in ogni caso vengono ridisegnate dalla riforma costituzionale in corso.
I ricorrenti (teatri e compagnie, dall’Elfo in giù, che hanno le loro ragioni, ma conoscevano le regole del gioco prima di giocarlo, e forse non avevano capito che l’”algoritmo” (questo sconosciuto) poteva danneggiare anche loro. 
Le organizzazioni di categoria, l’AGIS ma anche CRESCO, che hanno condotto patteggiamenti invece di chiedere di meditare sui principi, sulle competenze, e magari chiedere di sperimentare qualche novità sul multidisciplinare, sulla promozione, sui giovani.

L'alternativa?

Il MiBACT potrebbe aver pensato ad una possibile soluzione. Se l’annullamento del Decreto 2014 fa rientrare in vigore quello del 2007, non dovrebbe essere troppo complesso riassegnare i contributi, considerando che “l’entità del contributo è determinata con provvedimento del direttore generale, sentita la Commissione” (e ci si può giocare la carta qualità fino al 300%).

giovanni bertuccio

Arte dionisiaca | Caos e Tragedia

6/8/2016

 

In origine era il Caos

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Apollo non era il contrario di Dionisio nella Grecia arcaica, bensì l'altro aspetto, e questi due dei, insieme, davano espressione alla realtà esistenziale percepita dai greci. Le pulsioni incontrollate, personificate dal dio caprino, non rappresentavano un polo morale, o meglio, come si direbbe oggi, immorale, bensì erano accettate per quello che sono: una parte del proprio sé. Similarmente Freud arriverà alle medesime conclusioni quando affermerà:

"chiamiamo Es la più antica di queste province o istanze psichiche: suo contenuto è tutto ciò che ereditato, presente fin dalla nascita, stabilito per costrizione, innanzi tutto dunque le pulsioni che traggono origine dall'organizzazione corporea e che trovano qui in forme che non conosciamo una prima espressione psichica. Sotto l'influsso del mondo esterno reale che ci circonda una parte dell'Es ha subito un'evoluzione particolare. Da quello che era in origine lo strato corticale munito degli organi per la ricezione degli stimoli, nonché dei dispositivi che fungono da scudo protettivo contro gli stimoli, si è sviluppata una particolare organizzazione che media da allora in poi fra Es e mondo esterno. Questa regione della nostra psichica l'abbiamo chiamata Io."

Originariamente, dunque, nella storia evolutiva della persona, tutto era Es e l'Io si è sviluppato, come ci dice Freud, dall'Es per influsso persistente del mondo esterno (l'educazione, la civilizzazione). Il mondo esterno, che qui possiamo soprannominare “l'educazione di Apollo”, media e filtra le pulsioni e le trasforma in sublimazione, in arte. Le energie filtrate e sublimate conservano, arrivando alla meta della rappresentazione, una carica sufficiente per produrre l'ebbrezza di Apollo, quella di cui Nietzsche parla e concede anche al dio delfico. Questa non è la stessa ebrezza della scarica nella sua epifania dionisiaca, quella bestiale che si traduce nel grido orgiastico dell'organismo, bensì quella della contemplazione, uno stato di godimento celestiale, paradisiaco, che può essere molto intenso ma da un punto di vista topico si trova all'altro polo. Il concetto di una sublimazione che canalizza le energie dionisiache distillate e depurandole fino al raggiungimento della loro meta.
. Freud, all'intuizione folgorante di Nietzsche, contrapponeva un lungo lavoro empirico ma le conclusioni furono le stesse:

"come da tempo abbiamo appreso, l'arte offre soddisfacimenti sostitutivi per le più antiche rinunce imposte alla civiltà e contribuisce perciò come null'altro a riconciliare l'uomo con i sacrifici da lui sostenuti in nome della civiltà stessa. Le creazioni dell'arte promuovono d'altronde i sentimenti d'identificazione, di cui ogni ambito civile ha tanto bisogno, consentendo sensazioni universalmente condivise e apprezzate: esse giovano però anche al soddisfacimento narcisistico allorché raffigurano le realizzazioni di una certa civiltà alludendo in modo efficace ai suoi ideali.

Muore Dioniso. Muore la Tragedia

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Certo è, da quanto emerge fin qui, che l'alternarsi dei due elementi, apollineo e dionisiaco, è all'origine non solo della vita, essi sono un binomio inscindibile che caratterizza anche l'interiorità dell'uomo. L'uno è necessario all'altro. L'arte, in quanto diretta espressione della vita, ne riproduce il conflitto tragico. Le diverse forme artistiche si sono generate a seconda del prevalere dell'uno o dell'altro elemento, ma il culmine dell'espressività si è raggiunto nella tragedia greca, in quanto al suo interno si riproduce infatti il conflitto in atto nella vita.

"L’eccitazione dionisiaca è in grado di comunicare a tutta una massa questo talento artistico, di vedersi attorniata da una tale schiera di spiriti, con la quale essa sa di essere intimamente una. Questo processo del coro della tragedia è il fenomeno drammatico originario: vedere se stessi trasformati davanti a sé e agire poi come se si fosse davvero entrati in un altro corpo, in un altro carattere […] C’è qui qualcosa di diverso dal rapsodo, che non si fonde con le sue immagini, ma che, simile al pittore, le vede fuori di sé con occhio contemplante; qui c’è già un annullamento dell’individuo per il l’ingresso in una natura estranea […] Il coro ditirambico è un coro di trasformati, in cui il passato civile e la posizione sociale sono completamente dimenticati: essi sono diventati i servitori senza tempo del loro dio, viventi al di fuori di ogni sfera sociale. Tutto il resto della lirica corale dei Greci è soltanto un’enorme estensione del singolo cantore apollineo, mentre il ditirambo ci sta innanzi una comunità di attori inconsci, che si considerano tra loro come trasformati […] In questo incantesimo chi è esaltato da Dionisio vede se stesso come Satiro, e come satiro guarda a sua volta il dio, cioè nella sua trasformazione egli vede fuori di sé una nuova visione, come compimento apollineo del proprio stato."

Privo dell’elemento dionisiaco la commedia nuova non prese le sembianze, come si potrebbe credere, di un’opera devota ad Apollo, bensì seguace di quello che Nietzsche chiamava un socratismo estetico, e quindi di un arte devota e che serve un nuovo demone: Socrate. Sarà questo il nuovo contrasto, non più fra apollineo e dionisiaco, ma fra dionisiaco e socratismo. “tutto deve essere razionale per essere bello”. Questa proposizione che si sposa perfettamente con il principio socratico: “solo chi sa è virtuoso” fu il canone con cui Euripide si misurava per la creazione delle sue opere; tutto divenne razionale, chiaro perché spiegato. E tale tendenza, denuncia il filosofo, è chiara ed evidente all’interno del prologo: 

"che un singolo personaggio si presenti all’inizio del dramma e racconti chi è, che cosa procede l’azione, che cosa è accaduto fin ora, e anche che cosa accadrà nel corso del dramma […] si sa già tutto quello che accadrà; chi vorrà attendere che questo realmente accada, dato che qui in nessun modo si presenta lo stimolante rapporto fra sogno profetico e una realtà che si verificherà più tardi?"

Con il cambiare della struttura e della funzione che il teatro rivestiva, alla tragedia si sostituì la “commedia attica nuova”. In essa sopravvisse, tuttavia, la forma, degenerata, della tragedia, ma ciò che la caratterizzò fu il portare lo spettatore sulla scena: "lo specchio in cui prima venivano riflessi solo i tratti grandi e arditi mostrò ora quella meticolosa fedeltà che riproduce coscienziosamente anche le linee non riuscite della natura". Ora lo spettatore vedeva e sentiva sulla scena il suo sosia, lo prendeva ad esempio, imparava il suo linguaggio: imparava a discutere con le più furbe sofisticazioni, traeva delle conclusioni. È con questo capovolgimento del linguaggio che fu possibile al suo ideatore, Euripide, creare la commedia nuova. Se fino a quel momento il linguaggio era stato determinato dal semi-dio nella tragedia, prendeva ora a parlare la mediocrità cittadina su cui Euripide fondava le sue speranze: ora tutta la massa filosofava, ora conduceva i suoi processi. Euripide portò lo spettatore sulla scena, e così facendo lo mise, per la prima volta, in condizione di poter giudicare il dramma, creando un rapporto di corrispondenza tra opera d’arte e pubblico.

giovanni bertuccio

Arte dionisiaca | Il Sublime. Da Burke a Nietzsche

5/25/2016

 
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Uno dei temi che sono maggiormente in grado di mostrare la molteplicità delle fonti e dei problemi relativi all'inizio di un discorso estetico è probabilmente quello del sublime, in cui argomenti poetici, filosofici, etici e artistici in esso si fondono, o si scontrano, in direzioni spesso ambigue e confuse. Il sublime rischia anzi di presentarsi, sul piano storico, proprio come la storia di un equivoco, in cui vi è sempre timore dell'arbitrarietà critica quando, sotto un solo nome, si racchiude l'incrocio di più discipline. Non potendo soffermarci su un percorso lineare ed esaustivo sulle teorie nate attorno al sublime, ci limiteremo a prendere in considerazione le idee di alcuni autori che, attraverso i secoli e le correnti, hanno guardato da diversi punti di vista la questione prima del Novecento.
Certo è che soltanto a partire dal Settecento il sublime diviene una vera e propria categoria estetica, contrapponendosi alla centralità del bello oppure rafforzandone le potenzialità estetiche. Il godimento estetico nelle belle forme, nella grazia e nella proporzione lasciava, nel Settecento, anche se in fase germinale, il posto alla predilezione verso un nuovo sentimento, quello del sublime, in grado di aprire, al nostro interno, un orizzonte oscuro, lo stesso che lega la natura alle passioni dell'uomo. Ed è seguendo questa direzione che Edmund Burke con la sua Indagine filosofica sull'origine delle nostre idee di Sublime e Bello, rappresenta un fondamentale passaggio storico-teorico del concetto. Nella ricerca di Burke il sublime è definito come <<ciò che produce la più forte emozione che l'animo sia in grado di sentire>>; emozione che tuttavia non deriva da una “reale” esperienza negativa ma da una situazione in cui, pur avendo una ben precisa idea del dolore e del pericolo, non né siamo a diretto contatto. Di fronte a sentimenti quali paura, dolore o orrore, lo stupore che invade e paralizza non deve condurre alla distruzione del soggetto, bensì deve indurre la consapevolezza di un dolore “mancato”, che si guarda a distanza. Il piacere generato da questa situazione, sublime perché ambigua, non è per Burke un vero e proprio piacere “positivo” vista la sua relazione con il dolore. Il sublime si pone dunque come istinto di auto-preservazione in tutte quelle situazioni in cui il soggetto è in uno stato di “privazione”, ad esempio di fronte all'infinito, al vuoto, all'oscurità, alla solitudine o al silenzio. È chiaro come questo tipo di sensazione, o meglio sensazioni al plurale, si contrappongano nettamente al concetto di bello, sia nei risvolti estetici che artistici. Il bello non è più forma, proporzione con Burke. Il bello non deve soddisfare più il piacere degli occhi attraverso giochi cromatici o trovate prospettiche. Più che condizioni esterne il bello deve soddisfare necessità interne. Dalla messa in pratica di regole che ne decretavano la bellezza, l'arte più che essere vista, da qui in poi, e molto lentamente, andava sentita financo vissuta.
Ovviamente le riflessioni estetiche sul sublime andarono alimentandosi, il secolo di Burke si chiuse con le osservazioni kantiane e le opere di Schiller e Schelling; l'Ottocento caricò di nuova enfasi le definizioni, dando vita alle opere di Hegel e Schopenhauer, con le quali il divario arte vita andava rimpicciolendosi. Consideriamo sinteticamente le opere dei due. Nella sua Estetica, Hegel pone il sublime, concordando con i suoi predecessori, come la manifestazione estetica di un contrasto fra finito e infinito.

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Il sublime diviene il tentativo di esprimere l'infinito, senza che tuttavia si riesca a trovare nel mondo delle apparenze un oggetto che offra per tale infinità un'adeguata rappresentazione. Nel sublime hegeliano, più che il dolore interiore e il tormento etico introdotti in Kant, è presente una tensione inappagata, che spinge verso il superamento delle situazioni sublimi attraverso il divenire dello spirito artistico, in quanto l'arte è in grado di restaurare l'assoluto. Ne Il mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer, invece vede il sublime come vicino a quegli oggetti che invitano con la loro forma alla pura contemplazione ma che, al tempo stesso, per la loro grandezza e “forza superiore”, hanno un atteggiamento ostile e minaccioso nei confronti della volontà umana. È dunque proprio con Schopenhauer che il termine sublime tende ad allontanarsi dal contesto estetico in cui si era inserito da più di un secolo, per presentarsi come una grande metafora della condizione umana, come una sorta di stato esistenziale al tempo stesso eccelso e minaccioso.1
Con i pensatori romantici l'attenzione della riflessione filosofica si sposta dalla natura, come oggetto di indagine, all'arte. Originale, nel periodo romantico, è soprattutto il legame tra le diverse forme, dettato non dalla ragione, ma dal sentimento e dalla ragione, legame che non mira a escludere le contraddizioni o a risolvere le antitesi (finito/infinito, intero/frammento, vita/morte, mente/corpo), ma ad accoglierle in un insieme unitario. La bellezza cessa di essere forma e diventa bello l'informe, il caotico. Non interessa più l'appagamento degli occhi, ma si è più inclini alla fascinazione di ciò che viene suscitato nell'animo dello spettatore.
Con il progredire della società e il suo, conseguente, complicarsi, cambia inevitabilmente, anche il singolo che vive in questa società. L'uomo moderno non è più, come si credeva, il frutto di un'evoluzione ma, comincia a insinuarsi l'idea che l'uomo sia il prodotto di una degenerazione della purezza originaria, e poste cosi le cose, la battaglia contro la civiltà andava combattuta con armi nuove, non più trattate dall'arsenale della ragione (che è prodotta dalla medesima degenerazione), ma far prevalere le armi del sentimento, della natura. La natura stessa, contrapposta all'artificio della storia appariva oscura, informe, misteriosa: non si lascia catturare da forme precise e nette, ma travolge lo spettatore con visioni grandiose e sublimi. Per questo non si descrive la bellezza della natura, ma la si sperimenta direttamente, la si intuisce lanciandovisi dentro.
I significati classici di bellezza, dunque, sono definitivamente ridiscussi e si giunge a ipotizzare, come accadrà in Victor Hugo, che siano la molteplicità delle cose brutte, e non l'armonia della bellezza, le sole capaci di dire la complessità dell'arte. Anche Baudelaire, esaltando il senso simbolico del bello, ne afferra anche la contingenza e di conseguenza la pluralità di modi e categorie attraverso le quali la sua forza può esplicarsi. La bellezza apollinea è ormai attraversata, come dimostra la Nascita della tragedia di Nietzsche, da un impulso dionisiaco, spirito di ebrezza e di trasgressione eccedente. Con quest'opera si chiude il secolo dei romantici e si saluta da vicino il Novecento portando in eredità la distruzione dell'idea classica del bello e della sua autonoma pienezza simbolica. Elementi che avranno pieno compimento nel corso di tutto XXI sec., ma che già, all'epifania del nuovo secolo, trovarono nuova linfa nei movimenti d'avanguardia: Dadaismo, Surrealismo, Espressionismo, Futurismo contestarono fermamente la possibilità di una forma assoluta per il bello e ancor più radicalmente negarono che l'arte possa trovare nella bellezza un principio di sintesi o di definizione.

giovanni bertuccio

Vucciria Teatro. Battuage | L'intervista

5/10/2016

Commenti

 
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Battuage è un non luogo dell'immaginazione, un confine - urinatoi, toilett pubbliche, autogrill, parcheggi, parchi, autostrade, cruising - in cui le differenze si dissolvono. Valgono ancora, secondo te, le categorie lgbt in questi luoghi? Nel senso il padre di famiglia che va a trans e svolge il ruolo passivo, e tornato a casa consuma un rapporto con la moglie, è gay o no? Forse che la dipendenza da sesso e sé stessi, insieme alla necessità di evadere dalle gabbie sociali, va al disopra dei generi e delle categorie?

Assolutamente si. BATTUAGE racconta di come la ricerca spasmodica del sesso può tramutarsi in una tendenza del tutto anti-erotica che rivela la morte stessa del sesso, o meglio dell’eros. La nostra società è sempre più virtuale e più solitaria e l’individuo finisce per instaurare un rapporto erotico con la propria immagine, reiterando diverse declinazioni di autoerotismo . Anche quando si parla di un rapporto con un altro corpo, un altro spirito, un’altra persona. C’è sempre meno voglia di esporsi e di condividere.

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Il Maschio. Quello che racconti, sia nel primo che nel secondo spettacolo, è un mondo non solo omosessuale, ma prettamente maschile. Dove maschile è da intendersi come il genere della razza uomo. Dunque l'uomo istintivo ed animale. Libero e cacciatore? Incapace, forse denunci in Battuage, di rapporti sani e puri, “fin che morte non ci separi”?

Nei nostri spettacoli c’è sicuramente il risultato di un interrogativo aperto su che cosa sia oggi maschile e femminile. Io credo che maschile nella nostra società voglia dire solo in apparenza maggiore libertà. Piuttosto coincide spesso con maggiore (auto)-imposizione. Credo che questa società sia strettamente fondata solo su un aspetto particolare del maschile legato più al POTERE e all’imposizione del potere sugli altri. Ma machile è davvero solo questo? La società capitalista e consumista sembra valorizzarne solo questo aspetto. E noi uomini finiamo per perdere di vista il resto. Il potere si trasforma troppo presto in affanno distruttivo.

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La donna. A volte appare come Medea, genitrice e divoratrice al contempo della propria prole. Indifferente in "Io mai ninete con nessuno avevo fatto", “magnaccio” in "Battuage". Mentre la si crede, apparentemente, vittima della società dei maschi, la moglie, in Battuage, pone fine allo squallore del marito, uccidendolo. E' la donna che deve prendere posizione, nella speranza di un futuro meno ipocrita?

Io credo tantissimo nelle donne e credo di amarle molto. Al di la dei risvolti legati alla storia raccontata da Battuage credo che la donna debba prendere posizione (ma bisogna anche che gli sia concesso!). La società è maschio. Le donne hanno bisogno di scrollarsi di dosso l’etichetta che storicamente le dipingono come sesso debole, inferiore rispetto all’uomo. Ma questa è la donna dipinta da una società maschilista. Io auspico ad una società maggiormente concentrata sull’universo femminile in quanto portatore dei veri valori fondanti dell’umanità. Auspicherei ad una società fondata più sull’empatia che sul potere. Ma non bisogna dare per scontato che anche per le donne “il femminile” coincida sempre e automaticamente con il genere femminile. Molto spesso la donna finisce (per non rimanere schiacciata) per aderire perfettamente al modello maschile, a reiterarlo e a svilire anche la sua figura di donna.

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Dio. Con lui hai un rapporto ambivalente. Sembri deriderlo quando lo associ ai dogmi della religione (sicurmanete d'impatto la preghiera in un gloryhole e le promesse degli sposi simulando l'amplesso ondeggiando il bacino), inseguirlo, invece, quando non resta altro che cercare dentro sé stessi un sentimento spirituale. Forse il Dio che ci ha fatto a sua immagine?

Il rapporto con la spiritualità, con il divino è indubbiamente qualcosa per me di aperto e non ancora del tutto definito. Mi definisco ateo o ancora meglio non credo nella religione, ma questo non significa che la società (e io stesso) non abbia bisogno di coltivare la propria spiritualità, anzi. Personalmente non riesco ad aderire a qualcosa di dogmatico e precostituito cosi forse dentro il nostro percorso artistico c’è tanta conflittualità con questo dio. Tanto desiderio di sentirlo e anche di rimpianto di non averlo al nostro fianco. Così spesso dio è un urlo propagato nel vuoto.

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La società. Il protagonista è un perfetto prodotto della società odierna. E' Ruby e Fabrizio Corona. E' l'universitaria/o che si vende per un cellulare. E' il ragazzo/a che si esibisce in cam nella sua camera. Salvatore è espressione di una generazione miope e sorda, che non chiede e non domanda. Che usa il suo libero arbitrio solo per scegliere, individualmente, brand imposti da altri e sognare di arricchirsi diventando famoso in preda la lobotomizzazione televisiva?

Purtroppo tutti questi sono i modelli proposti di ‘nuova classe media’ che si sta sempre più imponendo e delineando non tanto da un punto di vista culturale come è stata storicamente nel ‘900 ma a partire da una sua reiterata e consapevole degenerazione. Siamo ben al di là sotto del concetto di cultura di massa. Una volta la tv assolveva a compiti ben più nobili. L’intrattenimento era anche culturale. Oggi invece c’è la precisa volontà di proporre modelli beceri e a cui spesso si finisce per aderire perché non se ne hanno degli altri così forti. Ma perché? È la domanda che non trova risposta. Prima per ‘agire’ quasi sempre bisognava unirsi e farlo nel contesto della collettività. Oggi si ‘agisce’ in una dimensione pubblica fintamente collettiva (la piazza pubblica dei social network) ma che rivela solo la nostra solitudine e il nostro isolamento. E tutto questo non è affatto inconsapevole. Manchiamo sempre più l’appuntamento con una dimensione carnale delle cose. Con una dimensione creativa e di confronto con l’altro. E finiamo per sprofondare dentro noi stessi arrivando a deformare la nostra stessa percezione della realtà. Siamo tutti delle star. Ci affanniamo ad essere “speciali”. E che cosa resta di noi?

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