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QUEER                                                                    TEORIE                                                                ADOLESCENZA

1/7/2019

 


​VARIETA'

Nella società occidentale contemporanea la distinzione tra omosessuale ed eterosessuale è così radicata che la maggior parte degli autori, che si sono occupati di identità, è partita dall'assunto che ognuno di noi dovrebbe averne una.

Ma come dice Robert W Connell in Questioni di genere, non credo, che esista una successione fissa di stati della formazione del genere, benché lo abbiano creduto molti psicologi, da Freud in poi. Quanto sappiamo della varietà degli ordini di genere rende improbabile l'esistenza di regole universali sul modo in cui si apprende il genere. Forse quello che più si avvicina ad una regola universale è proprio il fatto che ogni progetto di genere non è meccanicamente determinato alla sua origine.


​La varietà della mascolinità e della femminilità che emerge con evidenza dalle ricerche suggerisce una molteplicità di traiettorie di formazione del genere. Le disuguaglianze di classe, la diversità etnica, la differenza regionale, le origini nazionali e l'immigrazione portano esperienze del periodo adolescenziale molto diverse tra loro. ​


​APPRENDIMENTO

Il genere, dunque, non è unidimensionale, né tanto meno uniforme. Può succedere, infatti, che un adolescente sviluppi nello stesso momento due o più strategie di genere diverse l'una dall'altra, e talvolta tra loro in conflitto. Pensiamo ad un giocatore di football americano che scrive poesie o ad una bomba sexy che studia con accanimento per l'università. Simili conflitti sono molto frequenti nell'adolescenza ma possono continuare anche nell'età adulta. E il processo di apprendimento nei giovani consiste nell'acquisizione di una certa competenza di genere.
L'apprendimento è un processo attivo nel corso del quale l'individuo improvvisa, copia, crea, sviluppando strategie specifiche per affrontare le rigidità presenti nelle strutture di genere. In altre parole, impara a tirare avanti e col passare del tempo, queste strategie, specialmente se si rivelano efficaci, si cristallizzano come modelli specifici di femminilità e maschilità. 

Fondere la personalità di un individuo in un'entità unica significa rifiutare la sua intrinseca diversità, la sua apertura, e può anche indicare un rifiuto al cambiamento. Oggi, infatti, si parla di una triade bio-psico-sociale suggerendo che, sia per gli uomini che per le donne, la sanità o la patologia non coincide più con il genere della persona amata, ma con la capacità di amare; questa, come dicono Bion (1975) e Kohut (1985), sarebbe l’espressione più vera della maturazione psichica della persona.

gb 
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QUEER                                                                    TEORIE 1980-2000                                                    QUEER? O DELL'ETERNO RITORNO

1/7/2019

 


​ANNi 80 | femminismo radicale

A partire dagli anni 80, il mutamento di prospettiva si spinse così lontano che Catharine Mackinnon rivendicò per il suo femminismo radicale una linea di discendenza diretta col passato, chiamandolo, nel 1987, semplicemente Femminism Unmodified, femminismo immutato. Il movimento di liberazione della donna ebbe un effetto così potente da dare il via ad un gran numero di altri movimenti.

Così mentre da una parte una rete di ricercatrici femministe elaborava studi politici, un'altra produceva tutta una letteratura di teorizzazioni altamente astratte. I principali autori di riferimento di queste teorie sono Michelle Foucault e Jacques Derrida in Francia.


​FOUCAULT & DERIDDA

​Foucault ne La volontà di sapere del 1976 sosteneva che la società non reprimere la sessualità, la quale semplicemente non esiste in natura, piuttosto, erano stati discorsi che circolavano nella società a produrre la sessualità, come forma culturale, nel momento storico del passaggio dalla tradizione alla modernità. Questo aveva permesso lo sviluppo di una nuova forma di potere sui corpi e sui loro piaceri, grazie al potere esercitato, non solo, dalla legge ma anche dalla medicina, dalla psicoterapia e dalla stessa sessuologia. La tesi foucaultiana condusse così, il costruttivismo sociale verso nuovi territori, e fu adottata da una gran quantità di ricerche successive sulla sessualità e sulla produzione delle identità sessuali.

In generale, la tesi di Deridda sull'infinito differimento del significato nel linguaggio e l'elaborazione della tecnica della decostruzione, sono stati considerati come l'autorizzazione a mettere in dubbio la stabilità di qualsiasi concetto, di qualsiasi identità, comprese le categorie sui quali si basa il pensiero femminista. Un'opera in linea con queste argomentazioni è Scambi di genere di Judith Butler del 1990, divenuta il testo più autorevole del femminismo accademico degli anni novanta. Butler sosteneva che le categorie di genere non hanno fondamenti stabili, e di conseguenza non li ha neppure la strategia femminista. Il genere performativo, diceva, che produce l'identità attraverso l'azione, non può descrivere una qualche realtà preesistente.


​anni 90 | femminismi

​Il risultato di queste divergenze all'interno del femminismo portò, in primo luogo, ad una crescita esponenziale di posizioni, punti di vista e identità. Così, negli anni Novanta, divenne abituale tra femministe bianche delle classi medie parlare di femminismi anziché di femminismo, proprio per riconoscere la diversità e rifiutare il privilegio. Un percorso simile è stato fatto per esempio dalle femministe nere nel nord America, che sostenevano che l'uso acritico della categoria donne nel femminismo radicale liberale, occultasse la realtà del razzismo. 

​L'accento posto sulla razza, poi, ha avuto come risultato il moltiplicarsi delle posizioni che rappresentavano le diverse prospettive di ogni specifico gruppo di donne: 
femminismo nero, femminismo sudamericano, femminismo indigeno, femminismo lesbico, femminismo del terzo mondo. In secondo luogo, si pose il problema di come andava interpretato l'ordine di genere su scala mondiale.

​Già Maria Meis nel 1986, con Patriarchy and Accumulation on A world Scale - testo nato dai grandi dibattiti internazionali - aveva sviluppato un'analisi del colonialismo e del capitalismo mondiale come sistemi intrinsecamente orientati in base al genere; alla fine del secolo, nel 1997, Nira Yuval-Davis riprese l'argomento esaminando il contributo cruciale delle relazioni di genere in diverse dimensioni importanti dei progetti nazionalisti: riproduzione nazionale, cultura nazionale, cittadinanza, conflitti e guerre nazionali. Il suo Gender and Nation resta, a tutt'oggi, il testo di riferimento sull'argomento.


​anni 00 | involuzione

​Alla fine degli anni Novanta la nuova sinistra si stava frammentando. Ovunque il movimento di liberazione della donna come movimento sociale partecipativo si andava smembrando a causa delle divergenze sulle questioni riguardanti la sessualità, mentre, all'esterno, andò incontro a una resistenza ancora più compatta. Politicamente si bloccarono le aperture verso il femminismo e si ritirarono i programmi sociali sotto la pressione del capitale a livello globale.

Antifemminismo e omofobia sono divenuti i temi principali di fazioni sempre più numerose di gruppi razzisti e nazionalisti, che in Francia hanno guadagnato una certa forza, e che in Austria e Italia, dal 2000, sono entrati a far parte della politica ufficiale. 

Schizofrenia insita in qualsiasi struttura preconfezionata, che a partire dagli anni zero, vede, in parallelo, la proliferazione di testi che invece di ricercare - come si è fatto fin ora nella storia - tracce e storie queer, per sottolinearne la normalità, cercano, invece, di avvalorare la tesi, che sia proprio l'eterosessualità ad essere innaturale per l'essere umano, ingabbiandolo in schemi e recinti invisibili, non permettendogli una piena consapevolezza. Un testo per tutti, The Invention of Heterosexuality curato da Lisa Duggan e Jonathan Ned Kanz del 2007.

gb 
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1/7/2019

 

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​«Non esiste alcun ‘essere’ al di sotto del fare, dell’agire, del divenire: ‘colui che fa’ non è che fittiziamente aggiunto al fare – il fare è tutto».

​F. Nietzsche, Genealogia della morale​
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Lévi-Strauss

L’antropologia strutturale di Lévi-Strauss - compresa la distinzione problematica tra natura e cultura - è stata rielaborata da alcune teoriche femministe per spiegare il meccanismo attraverso cui il sesso viene trasformato in genere, stabilendo, così, l’universalità culturale dell’oppressione in termini non biologici. Sancita la costruzione storica, la stessa nozione di patriarcato, in questa rilettura femminista, rischiava di diventare un concetto universalizzante, tanto si concentrava sulla fissità della legge espressa da Lévi-Strauss.

Ne Le strutture elementari della parentela, la sposa, la donna, figura quale termine relazionale tra gruppi di uomini: non ha un’identità, né scambia un’identità per un’altra. Riflette, cioè, l’identità maschile proprio nell'essere la sua assenza. Questa, che l'autore definisce come regola esogamica, esprime un valore sociale: fornisce il mezzo per intensificare la solidarietà tra gli uomini in un sistema maschile, patriarcale e patrilineare.

Lévi-Strauss concepisce, in questo modo, la realizzazione artificiale di un’eterosessualità non incestuosa estratta. Il divieto dell'incesto, che per l'autore non è un fatto sociale ma una fantasia culturale pervasiva, genera il tabù dell’eterosessualità esogamica.


STRUTTURALISMO VS FEMMINISMO

Pur riconoscendo l'esistenza del tabù, alcuni studi femministi, affermavano intelligentemente,  che non significava che il divieto, effettivamente, venisse rispettato. Anzi, la sua stessa esistenza, secondo le cronache nere, confermava, ieri come oggi, che desideri, azioni, persino pratiche sociali di incesto, vengono generati proprio in virtù dell’erotizzazione del tabù stesso. 

Posta così la questione, la naturalizzazione dell’eterosessualità e la capacità maschile di agire sessualmente apparivano, secondo queste teorie, come mere costruzioni discorsive, assunte come fondative della struttura patriarcale. Monique Witting, a questo proposito nell'intraprendere una critica politica della genitalità, parla di «inversione» come pratica critica di lettura, valorizzando quelle caratteristiche di una sessualità non sviluppata individuate da Freud e inaugurando, per superare la sottomissione generata dalla struttura eteronormata, «una politica post-genitale». ​

gb 
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1/7/2019

 
Foto
Stonewall, New York 1969


​NOVECENTO

La comunità lesbica è nata in un momenti storici e in luoghi ben precisi. A Berlino e Parigi negli anni venti e anni trenta, nelle grandi città dell'occidente durante il movimento femminista negli anni settanta, e ha permesso l'inizio, a partire dalla seconda metà del XX secolo, della battaglia per i diritti degli omosessuali.

​Salotti, bar e librerie furono i primi luoghi in cui le lesbiche  affermarono la propria identità. Ed è proprio da queste esperienze che, agli inizi del XX secolo, nacque la distinzione fra le butch e le femme (o lipstick lesbian), in base all'atteggiamento mascolino o femminile con cui le lesbiche si identificavano e si vestivano. Negli Stati Uniti ad esempio, i bar in cui si incontravano erano spesso soggetti a raid punitivi da parte della polizia e alla discriminazione da parte della società dell'epoca.


​FREUD

Psicogenesi di un caso di omosessualità femminile è l'unico saggio che nel 1920 Freud dedica all’omosessualità femminile. Nel testo si esamina la vita di una donna di buona famiglia che, pur interessandosi al marito ed ai bambini, si innamora di un'avvenente donna mondana. Freud ipotizza che l'evento scatenante il cambiamento di rotta, risalirebbe a quando il padre e la madre hanno concepito un altro figlio, suo fratello. Secondo Freud la giovane avrebbe voluto lo stesso figlio dal padre, entrando in conflitto con la madre. Pur non essendo questa l’unica interpretazione possibile, la ragazza, sentendosi delusa e tradita, si identificherebbe con il padre, aumentando l’amore nei confronti della madre, al fine di compensarne l'odio. Non potendola avere come amante, conclude il viennese, la ragazza cerca un sostituto cui legarsi al di fuori della famiglia e diventando lesbica cede il passo alla madre nel rapporto con gli uomini, riappacificandosi con lei.


​DEUTSCH

​Sul lesbismo, Helen Deutsch, importante allieva di Freud, farà un passo avanti in Adolescenza nel 1944. Sviluppando le teorizzazioni del maestro sulla bisessualità iniziale 
​Deutsch studia i possibili sviluppi dell’omosessualità in questo momento particolare della vita, in cui tutti gli adolescenti, anche quelli che diventeranno eterosessuali, hanno la figura dell’amico/a del cuore. Un doppio di sé che facilita il distacco dai genitori favorendo le relazioni con i pari. 
Nell’analisi di una paziente grave, invece, Deutsch parla di un’omosessualità femminile esclusiva, che si manifesta quando la ragazza ha la necessità di compensare il legame precoce con una figura materna sadica e fonte di sofferenza. Attraverso l’esperienza omosessuale, che ricalca i modi di una relazione madre/bambina soddisfacente, la rottura emotiva può essere riparata.


​Daughters of Bilitis

Come conseguenza dello stigma sociale verso l'omosessualità, il rapporto delle lesbiche con la società rimase per lungo tempo all'insegna dell'invisibilità, e ancora oggi, parte di questa invisibilità viene denunciata rispetto all'attenzione data dai media a l'omosessualità maschile. Ma nonostante lo stigma, nel 1955 fu fondata a San Francisco una delle prime organizzazioni lesbiche, la Daughters of Bilitis, con lo scopo di creare un luogo tranquillo per la socializzazione e il confronto, occupandosi, successivamente, anche della lotta per i diritti delle donne lesbiche.


​STONEWALL

​Fu proprio la mancanza di visibilità e il disprezzo della società a spingere la comunità lesbica, gay e trans a forme di ribellione che raggiunsero il culmine con la rivolta di Stonewall, il famoso locale di New York, il 28 giugno del 1969. Per tre giorni la protesta si riversò nelle strade e rappresentò il primo passo verso la liberazione dalla vergogna e dallo stigma sociale e l'affermazione orgogliosa del diritto a vivere la propria vita. Da qui, la nascita del movimento lesbico, gay e trans che, ancora oggi con il nome di Gay pride (orgoglio gay) commemora Stonewall con manifestazioni in molte città del mondo.


​AMORE TRA DONNE

Molti furono gli studi intrapresi in nome della liberazione e del rispetto, e uno dei più significativi fu quello di Charlotte Wolff, una psichiatra di origine tedesca, che nel 1971 pubblicò Amore tra donne, primo studio sul lesbismo ad interessarsi a donne non portatrici di patologie psichiatriche, e in cui il termine lesbismo veniva usato per definire quelle donne che preferiscono a livello emozionale, amoroso, affettivo e sessuale le relazioni con altre donne. Le lesbiche non erano più malate!

Dagli anni Settanta, quindi, si afferma sempre di più l'idea che "lesbica" sia una definizione che spetta alle donne stesse adottare o rifiutare, e che il lesbismo è un tratto importante della personalità di ogni donna.

gb 
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1/7/2019

 
Foto
Joan Hodgson Rivière (1883 – 1962)


​TRAVESTIMENTO

Nel saggio La femminilità come travestimento, Joan Rivière, nel 1929, presentava la sua idea della femminilità come mascherata. Seguendo le tipologie proposte da Ernest Jone, attraverso la teoria dell’aggressività e della risoluzione dei conflitti, Rivière passava in rassegna, lo sviluppo della sessualità femminile secondo forme eterosessuali e omosessuali, concentrandosi però, sui tipi intermedi che annullano i confini sia dell'eterosessualità sia dell'omosessualità. Per tipi intermedi, Rivière intendeva quegli uomini e donne che pur essendo fondamentalmente eterosessuali nel loro sviluppo, rivelano chiaramente delle marcate caratteristiche tipiche dell’altro sesso.

Partendo dal considerare ciò che significa mostrare le caratteristiche del proprio sesso, per arrivare a comprendere, come queste caratteristiche esprimono o riflettono un apparente orientamento sessuale, nella sua ricerca, la psicoanalista postulava che la coerenza tra genitali e orientamento sessuale fosse in realtà una formazione immaginaria. Infatti, la libido, intesa al maschile nella società eteronormata, diventava così, la fonte da cui si presumeva derivasse ogni possibile sessualità, e il riferimento ultimo a cui, le sessualità dovevano adeguarsi. 


​FINZIONE

Ad esempio, in contesti apparentemente altri rispetto l'eterosessualità, ci informa l'autrice, l’omosessuale e la lesbica non rappresentano un’analogia tra omosessualità maschile e omosessualità femminile. Volendo semplificare, una donna che desidera la mascolinità, sceglie la femminilità perché teme le conseguenze dell'avere atteggiamenti maschili in pubblico. Paventa insomma il giudizio eteronormato. Allo stesso tempo, la "mascolinità" parodiata dall'omosessuale maschio viene assunta, per nascondere, non agli altri ma a sé stesso, una incontrollabile femminilità.

La donna eterosessuale, dal canto suo, e rispondendo sempre all'ideale maschile della libido, assume la mascherata consapevolmente, per nascondere la sua mascolinità ad un pubblico di uomini, che in realtà, vorrebbe castrare.

Insomma 
tutti impersonifichiamo un ruolo. Nessuno è sé stesso. E questo perché, seguendo l'autrice, rispondiamo tutti, consapevolmente o meno, ad un ideale di società, quella eteronormata. Un ideale che nessuno vuole ma a cui tutti dobbiamo rispondere. Sono le credenze inculcate, i luoghi comuni, i pregiudizi e le convinzioni errate, nonché l'educastrazione come la definiva Mario Mieli, che non ci permettono di esprimere la nostra vera natura.

gb 
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1/7/2019

 


SISTEMA OCCIDENTALE
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Le conquiste imperialiste, il neocolonialismo e gli attuali sistemi, hanno messo in contatto delle società molto diverse. La suddivisione del lavoro secondo il genere è comune a tutto l'arco della storia e a tutte le culture, ma, per quanto sia estremamente diffusa, la divisione del lavoro, basata sul genere, non è esattamente la stessa nelle diverse culture, nei diversi momenti della storia. Il medesimo compito, può essere considerato un lavoro da donne in un contesto, un lavoro da uomini in un altro. Il lavoro agricolo ne è un esempio lampante.
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Il norvegese Oyster Holter, nei suoi studi del 1995-1997, sosteneva che la divisione per genere costituisce la base strutturale dell'ordine di genere in Occidente, non negli ordini di genere delle società non occidentali e non capitalistiche. Ciò che venne alla luce, non fu soltanto scoprire che le nostre concezioni della maschilità e della femminilità erano strettamente connesse a questa divisione, ma si prese atto che le relazioni sociali che governano il lavoro in Occidente, fuori erano molto diverse.

In un contesto capitalistico il lavoro viene svolto per un compenso monetario, viene comprato e viene venduto, seguendo la regola del profitto. Nei contesti fuori le mire del mercato globale, invece, il lavoro viene svolto gratuitamente, per amore o per dovere reciproco, secondo la logica dello scambio. Lavoro salariato e lavoro gratuito avvengono in contesti relazionali diversi, sottolineava Holter, e di conseguenza “producono” significati culturali diversi. Da queste differenze strutturali, affermava il norvegese, scaturiscono delle esperienze diverse tra uomini e donne, così come le idee sulla differente natura degli uni e delle altre.


​DIVISIONE DEL LAVORO

La divisione di genere nella cura dei figli fa parte della più ampia divisione del lavoro all'interno della società. In America, grazie allo sviluppo di un filone femminista di ricerche, si mise in luce, proprio, la differenza di genere nel modo di allevare i bambini. Queste ricerche pur appurando che anche gli uomini potessero fare le madri, come scrisse Riesman nel 1986, nella società occidentale contemporanea, ben pochi di loro lo fanno effettivamente, rintracciando le ragioni più nella sfera economica che nella sfera psichica.

La divisione del lavoro, però, 
è solo una parte di un processo più generale. Nel moderno sistema economico, il lavoro condiviso di uomini e donne è incorporato in tutti i prodotti e i servizi maggiori, quindi nel processo di crescita economica. Il potere, in quanto dimensione del genere, costituiva un elemento centrale nel concetto di patriarcato elaborato dal Movimento di liberazione della donna che si opponeva all'idea degli uomini come classe sessuale dominante, alla violenza sessuale come affermazione del potere maschile sulle donne, e alle immagini mediatiche che dipingono la donna come passiva, frivola e sciocca. Il Movimento riconobbe che il potere patriarcale non si poteva semplicemente ridurre a una questione di controllo da parte degli uomini sulle donne, ma si concretizzava a un livello più personale, attraverso lo Stato impersonale. 


​DONNA E DIRITTI

​​Un classico esempio è la procedura giudiziaria nei casi di stupro analizzata da Catharine Mackinnon in un suo articolo del 1983. Indipendentemente dalla predisposizione personale del giudice, denunciava l'autrice, la procedura, con cui vengono giudicate le cause di violenza, finisce per mettere sotto processo l'accusatrice più che l'accusato, dimostrando come i pregiudizi impliciti nelle credenze sociali siano molto difficili da estirpare.

Il movimento femminista 
che reclamava dei diritti nella sfera pubblica, lottava contro, anche, l'oppressione maschile nella sfera privata. Gli studi di Dobash e Dobash, pubblicati nel 1992, documentano proprio, come l'opposizione avvenuta sul doppio binario pubblico/privato, abbia condotto in linea generale all'uguaglianza dei diritti formali tra uomini e donne: il diritto al voto, alla proprietà, il diritto a intentare un'azione legale, e così via. 

Il femminismo - inaugurato durante il decennio della donna delle Nazioni unite, 1975-85, l'impegno più prolungato sulle tematiche di genere mai realizzato da un'organizzazione internazionale – alla fine degli anni Ottanta entrava in crisi. Come mostra Cilla Bull Back in One World women's movement del 1988, all'interno del movimento si sviluppò un violento dibattito intorno alla questione del modello del femminismo americano, che le donne dei paesi del terzo mondo vedevano come una nuova forma di imperialismo culturale. Così, negli anni Novanta, divenne abituale tra femministe bianche delle classi medie parlare di femminismi anziché di femminismo, proprio per riconoscere la diversità e rifiutare il privilegio.

Non bastava riflettere, però, sottolineava Butler in Scambi di Genere del 1990, solo sul modo in cui le donne potrebbero essere più rappresentate nel linguaggio e nella politica; il femminismo dovrebbe considerare, invece, come la categoria donna, viene prodotta e delimitata dalle stesse strutture di potere dalle quali cerca l’emancipazione.

gb



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QUEER                                                                    CELEBRATE YOURSELF                                            DAVIDE MONETTO INTERVISTA ALICE ARDUINO

5/2/2018

 
Foto
"Celebrate yourself" 2017, locandina
Il 4 maggio verrà inaugurata al MAU – Museo di Arte Urbana una mostra fotografica di Alice Arduino dal nome “Celebrate Yourself”. Trentacinque ritratti fotografici, accompagnati da interviste. Immagini e storie di vita quotidiana, che tratteggiano le personalità dei protagonisti, anche del loro essere gay, lesbiche, trans. La volontà è quella di sensibilizzare su temi sentiti dalla comunità LGBT, ma l'esigenza artistica di Alice sta anche nell'identificarsi con le storie degli altri, conoscendole attraverso il racconto. La conoscenza in questa mostra passa attraverso il rispecchiamento e l'empatia.

In Homosexuality: storie di vita quotidiana, un suo lavoro del 2013, omini Lego si abbracciavano, convolavano a nozze, andavano in vacanza col compagno e i figli. Quattro anni dopo, l'espediente che suggeriva l'esistenza di vite non ancora così rappresentate, è sostituito da persone che vivono quella vita, e la raccontano parlando di sé serenamente. Gli scatti mettono a fuoco la quotidianità, e sono privi di retorica o di intenti didascalici. L'epoca delle rivendicazioni sta lasciando il passo alla esigenza di raccontarsi per quello che si è, mettendo a disposizione degli altri il proprio vissuto quotidiano. Sta anche in questo la volontà di attivista di Alice Arduino: far sì che si esca allo scoperto. Non tanto per “rivendicazione” o “affermazione di sè”, ma perchè, al giorno d'oggi, c'è la possibilità per tutti di vivere, e viversi, serenamente, senza freni o filtri.
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Un lavoro lungo e paziente ha trasformato l'urgenza di testimoniare di Alice in ritratti morbidi, che trasmettono la relativa sicurezza di
persone che hanno trovato, nel continuo scorrere ed evolversi della vita, un loro posto e una loro dimensione.
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D. Qual é il tuo rapporto con il MAU? Come è cominciato?

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R. Il tutto è iniziato nel 2013 quando ho partecipato ad un concorso indetto dal MAU “Leggi=Ama”. La mia foto dal titolo “There is a letter for you” aveva vinto ed era stata esposta alla BAM - Biennale d’Arte Moderna - Contemporary Photobox presso la sala espositiva dell'NH Lingotto Tech di Torino. La foto vincitrice apparteneva al progetto “Homosexuality: storie di vita quotidiana”. Lo stesso anno il MAU mi propose di esporre il progetto per intero con tutte le foto realizzate. Da allora è iniziata la collaborazione con il Museo e ogni anno espongo con loro.


D. Ti concentri molto su tematiche relative all'omosessualità, inoltre scattare delle foto per te è raccontare delle storie: in cosa ti rispecchi di più, come persona oltre che come fotografa e attivista, negli incontri che hanno portato agli scatti?


R. Nelle mie immagini c’è la volontà di raccontare delle storie e nei miei progetti metto la mia esperienza, vissuto, vita. Attraverso questo mi pongo delle domande e cerco di trovare risposte. La mia è una fotografia “ribelle” e “riflessiva” che ha lo scopo di far ragionare le persone che osservano i miei lavori. Per Celebrate Yourself sono partita dal mio attivismo negli anni a come ho affrontato il mio coming out, le difficoltà e le gioie. Mi sono chiesta quale fosse il percorso fatto da altri e l’importanza di “metterci la faccia” nel raccontarsi per dare l’esempio a chi ancora non è “uscito allo scoperto”. Allo stesso tempo non volevo parlare solo alla comunità lgbt ma a tutti/e portando il mio progetto a superare le etichette “lesbiche, gay, bisessuale, transessuale” facendo conoscere le persone con i loro hobby, passioni, lavori, principi, valori e vita quotidiana. Credo fortemente che le barriere e i pregiudizi si possano superare attraverso la conoscenza delle persone.

D. Ti occupi anche di matrimoni e eventi sportivi: il tuo lavoro con committenti che ti chiedono di rappresentarli in un momento per loro importante ha influenzato il tuo modo di rapportarti con i protagonisti della tua mostra?
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R. Cerco sempre di essere empatica, di capire le persone e immedesimarmi in loro. Ma il lavoro si svolge su piani diversi: negli eventi sportivi cerco di catturare le emozioni, fatiche e l’azione del gioco; nei matrimoni mi concentro sugli sguardi, situazioni, dinamiche e relazioni tra gli sposi (o le spose) e gli invitati. Diventa quindi un reportage che narra la storia del momento. In entrambi segui la scena e la fotografi devi quindi essere molto attento a ciò che capita davanti ai tuoi occhi. I miei progetti, invece, sono ragionati, pensati. Prima mi chiedo cosa voglio rappresentare, perché è necessario farlo e poi come tradurlo in immagini. C’è quindi uno studio a priori che dura molto tempo. L’obbiettivo è sempre far passare il messaggio nel modo più semplice e comunicativo possibile. Ciò che si vede in una immagine è il risultato di mesi di lavoro a tavolino, di contatti, diffusione e promozione del progetto.

​
D. Gli scatti avvenivano prima, durante o dopo l'intervista? È stato difficile costruire una atmosfera di fiducia e naturalezza?


R. Ho cercato di creare un rapporto di fiducia con le persone perché stavano parlando e raccontando di sé ad una estranea. Ho impiegato molto tempo a parlare del progetto a spiegarlo e solo dopo c’è stato l’incontro con gli intervistati. Prima dell’intervista incontravo le persone si parlava e scherzava un po’ per sciogliere la tensione, dopo iniziava l’intervista fatta in modo informale e attraverso una chiacchierata. Credo che questo abbia permesso di mettere le persone a proprio agio. Solo a fine intervista realizzavo la foto, gli intervistati erano più rilassati e spontanei, avevo avuto modo di conoscerle meglio e capire come fotografarle, in che posa metterle e dove, all’interno dello spazio in cui avveniva l’incontro. L’immagine, diventava la fase finale, il momento in cui catturavo la loro essenza, utilizzando talvolta lo sfondo come componente del racconto fotografico e relazione con l’individuo nel suo ambiente.

D. Da “Homosexuality: storie di vita quotidiana (2013)” a “Celebrate Yourself (2017)” passando per lavori che trattano l'attraversamento dei ruoli di genere in “Drag King: uno Sguardo sui Generi (2013)” o esplorano l'uso del corpo e la sua rappresentazione, come “Raggi X (2014)” e “Jacket & Naked (2016)”. L'evoluzione dei temi trattati rispecchia il dibattito pubblico sulla sessualità e sul corpo di questi anni o è una tua evoluzione personale?


R. È entrambe le cose. Il mio percorso personale è fondamentale perché nei miei progetti mi interrogo su ciò che voglio rappresentare, sul tema da trattare e su come realizzarlo. La mia esperienza va di pari passo con il tempo in cui vivo, con le lotte che faccio e che avvengono in Italia. Sono una donna, lesbica, attivista, ribelle, anticonformista e queste componenti creano la base su cui si sviluppano i miei lavori, realizzati con sfumature e indagini sul corpo e la sessualità in modo differente.


D. Celebrate Yourself è un progetto chiuso o vorresti arricchirlo con altre interviste e altri scatti? C'è qualcos'altro che vorresti esplorare della vita e del percorso di persone LGBT?


R. È stato difficile trovare 35 persone che volessero fotografarsi e raccontarsi. Non tutti/e sono disposti a metterci la faccia a dire apertamente chi sono. C’è ancora molta paura di essere giudicati e discriminati. Molte persone contattate si sono tirate indietro, altre avevano problemi sul lavoro o non lo avevano detto ai genitori e non ho trovato nessuna famiglia arcobaleno che volesse fare una foto con la famiglia, forse anche a causa dei figli minorenni. Credo ci sia ancora molto lavoro da fare sulle tematiche lgbt, molte sfumature da narrare e rappresentare. È necessario continuare a parlarne per sensibilizzare e portare l’attenzione su questi temi alle istituzioni. Celebrate Yourself potrebbe continuare qualora avesse le attenzioni di Comune e Regione che vogliano diffondere e promuovere il progetto attraverso i loro canali e spazi. In questo caso, potrei creare nuovi ritratti e pensare ad una mostra più grande, dinamica e interattiva inserendo le interviste complete anche con l’audio da ascoltare.
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Non so dirti cosa vorrei ancora esplorare sulla tematica lgbt. Cerco sempre di trattare il tema in modo semplice e simpatico dando un’immagine positiva cosicché le persone possano identificarsi con chi rappresento. Forse, davanti all’attuale situazione politica italiana e con l’avanzare di estremismi e ideologie razziste e fasciste potrei affrontare il tema della violenza e della resistenza. Ma è solo un’idea. La verità è che ci sono molti temi che mi stanno a cuore, come la disabilità, la povertà, la disoccupazione, il sessismo e la violenza verso le donne. Vorrei essere identificata come una fotografa che si impegna per i “diritti umani” nella lotta verso le minoranze e non solo per quelle lgbt. Le dinamiche discriminanti sono molto simili, come l’esclusione, l’indifferenza, l’intolleranza, l’abuso e sopruso. Per me, la fotografia è denuncia e come tale c’è molto di cui parlare.  


​www.alicearduino.com

Davide Monetto 
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approfondimenti 
queer fra centro e periferia

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ARCIGAY TORINO | INTERVISTA A FRANCESCA PUOPOLO
ARCIGAY TORINO | INTERVISTA A RICCARDO ZUCARO
GRANDAQUEER CUNEO | INTERVISTA A SIMONE BALOCCO
GRANDAQUEER CUENO | INTERVISTA A ELISABETTA SOLAZZI

QUEER | INCHIESTA                            GRANDAQUEER CUNEO                                          SIMONE BALOCCO                                            INTERVISTA

4/9/2018

 
Foto
Simone Balocco in posa per i social a favore del DDL ZAN
​D. C'è differenza, secondo te, fra l'uso della tecnologia fra provincia e città?
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R. Penso che non ci sia alcuna differenza. Molte volte l’uso di applicazioni o siti d’incontri vengano usati per creare una selezione iniziale. Esempio, un gay scarica grindr e non badoo perchè su grindr sa che tutti sono gay o bisex o suoi simili, si sente accettato insomma. Da trentenne posso dire che una volta era più difficile conoscere persone omosessuali, bisognava andare in discoteca o in un locale gay freendly. Oggi, purtroppo, con l’arrivo delle chat si è facilitato il percorso conoscitivo ma si è perso un po' quel senso di conquista e ricerca. Per non parlare del fatto che la comunità gay di provincia è la più pettegola: sanno con chi sei andato a letto chi frequenti e cosa fai. Informazioni che, poi, vengono usate per metterti in buona o cattiva luce. Anche nelle grandi città non aiuta molto, rischia di creare tanti piccoli "branchi" di persone senza portare ad una reale apertura. Spesso è proprio il contrario.


D. Le chat, i siti di annunci, le community hanno realmente aiutato nel fare coming out?
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R. Dipende da cosa intendiamo per coming out. Se le persone vogliono rivelarsi a sé stesse acquistando in consapevolezza, consiglierei siti specifici come Arcigay e/o community. Se intendiamo invece, coming out come dichiararsi agli altri, direi che le community hanno aiutato un po', le chat non molto poiché, come detto prima, il rischio è la creazione di gruppi chiusi. Molti ventenni che ho conosciuto in chat, erano agguerriti virtualmente ma nella realtà mostravano molti più pregiudizi e paura di molti etero. Le community, credo siano più istruttive, dando la possibilità di leggere esperienze di vita vissuta e aiutando a non ripetere errori già fatti in passato. Non prendo in considerazione i siti di annunci, dal momento che non credo bisogna "prendere il pezzo migliore al prezzo più basso". Sui siti, purtroppo la maggior parte cerca solo sesso o lo sfogo di fantasie sessuali che abitualmente non farebbe con il/la proprio/a compagno/a.
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D. Noti delle differenze d'approccio nell'intendersi queer fra la tua e le generazioni a cui parli?

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R. Se prendiamo il termine queer nel vero senso della parola ovvero “strano” “eccentrico” non trovo differenze tra le generazioni. Se ci pensiamo, siamo tutti queer poiché dopo anni e anni di stereotipi e pregiudizi siamo stufi di esser categorizzati e catalogati. Oggi il termine queer viene usato un po' per tutto. A volte, il termine viene usato come uno schermo quando omofobia, bifobia e transfobia sono così interiorizzati che il singolo non si vuole esporre neanche con sé stesso. Oppure viene usato per un fattore di fluidità di genere e orientamento sessuale per chi - come detto prima - non ha voglia di appartenere a delle categorie o a gruppi da cui non si sente rappresentato. L’unica differenza che trovo non si limita ad un un termine o ad una espressione di genere, ma, sta nella voglia di affermarsi in qualcosa che ci appartiene e che ci rappresenta interamente. nei primi anni del 2000 si aveva voglia di far parte di qualcosa di importante, di creare un cambiamento e mettersi in gioco. I giovani d’oggi a mio giudizio non hanno più l’ambizione di imporre un cambiamento, quindi usano termini come queer per sentirsi parte di un qualcosa di non ben definito, per non esporsi troppo ma neanche nascondersi.


D. I social stanno producendo un'immagine di noi altra, iper-reale. Come poni la questione nelle scuole?


R. Purtroppo i social producono un’immagine iper-reale su tutto. Dovrebbero esser usati per il loro vero scopo: migliorare la "socialità" e la condivisione delle storie di vita. A me sembra invece che si faccia la gara a chi è più bella/o, a chi "ce l’ha più grosso", con l'effetto di creare ulteriori immagini e alimentando così un circolo vizioso. Agli studenti dico sempre che Facebook, i social, e tutto il contorno delle piattaforme sono canali fittizi, qualunquisti e al 70% inutili. Se uno vuole la "realtà" e la concretezza delle cose ad oggi ha la possibilità di cercarla tra associazioni, biblioteche e Wikipedia. Se sei curioso non ricorrere ai social, cerca qualcuno che possa rispondere alle tue domande. I social vanno trattati come tali. Ma la colpa non è tutta dei social, poiché molte volte è la comunità LGBT che vuol esser "iper-reale". Per fare un esempio, Mario Mieli che  negli 80 andava vestito da donna fuori dai cancelli delle fabbriche. la nascita dei movimenti LGBT durante gli anni 80 era di per sè iper-reale, ma le conquiste ci danno possibilità di essere altro. Noi LGBT possiamo essere "reali", "iper-reali", forse troppo reali, ma siamo qui e useremo soprattutto i social per fare capire che esistiamo come tutti.


D. Ti sembra corretto supporre che in provincia vige ancora l'idea, ma nella mente dell'omosessuale stesso, di essere parte di una minoranza e quindi autodiscriminarsi (nascondersi, vergognarsi, e non vivere una sana sessualità)?

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R. Assolutamente Sì. Mi allaccio alla domanda di prima: l’omofobia interiorizzata è una delle piaghe più grandi per la comunità. Purtroppo nella provincia si ha ancora molta paura di "cosa possono dire”, dello “sparlare”.In provincia il problema più grande è apparire al meglio agli occhi dei concittadini e rispecchiare il ruolo di genere che fa comodo alla "cittadina". Arcigay da una possibilità di tutela, che non viene sfruttata perché il partecipare alle iniziative di Arcigay è visto come un outing, tralasciando il fatto che in queste realtà ci sono molti etero. Una cosa che io odio è il vittimismo: se sei gay e abiti ad esempio a Mondovì, e non riesci ad esser te stesso al 100%, ma non fai nulla per cambiare, allora in fondo la tua condizione ti fa anche comodo. A Torino e Milano la situazione è uguale seppur meno visibile, perché se un gay si nasconde altrettanti cento usciranno allo scoperto. Il bello è che le associazioni del territorio conquistano diritti per tutti, anche per chi si nasconde. Uscite dal guscio, vivete la vostra vita! ne avete una sola e solo quella, per quanti anni volete ancora vedervi passare la vita davanti? Per chi o cosa vi nascondete? Ricordatevi che vi nascondete perché amate - ripeto, AMATE una persona; cosa c’è di così spaventoso, aberrante e ghettizzante?


D. Il web. Dalla tua esperienza i confini fra etero e gay sono così netti? Secondo me più che differenza è parallelismo quando potrebbe esserci unione, ora non mi ricordo una pubblicità negli 80 dove c’erano uomini che pubblicizzavano l’asse da stiro, abbiamo dovuto aspettare 30 anni per farlo? E poi cosa fa un etero che un gay non può fare?


R. Più che confini si creano delle piccole “battaglie” sempre per la prevaricazione l’uno dell’altro. Diciamo pure che noi gay abbiamo aiutato gli etero a migliorarsi, o meglio l'uomo gay ha aiutato gli uomini etero ad emanciparsi. Tutti quei confini dei vecchi tempi oggi non ci sono più. Aiamo tutti abitanti liberi e felici, basta non pestarci i piedi.

gb 
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​ApprofondiMENTI
QUEER FRA CENTRO E PERFERIA


GRANDAQUEER CUNEO INTERVISTA AD ELISABETTA SOLAZZI
ARCIGAYTORINO INTERVISTA A FRANCESCA PUOPOLO
ARCIGAYTORINO | INTERVISTA A RICCARDO ZUCARO
QUEER | RICONOSCERSI OLTRE I PROPRI "FILTRI" di DAVIDE MONETTO

QUEER | INCHIESTA                                              RICONOSCERSI OLTRE I PROPRI "FILTRI"                DAVIDE MONETTO

4/9/2018

 
Foto
“QUEER STREET. Wrong. Improper. Contrary to one’s wish. It is queer street, a cant phrase, to signify that it is wrong or different to our wishes”
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Parte della nostra vita è decisa da passi codificati dalla società in cui viviamo: la scuola, il lavoro, le relazioni famigliari sono tutti ambienti entro cui le nostre esperienze sedimentano andando a formare i mattoni della nostra identità. Siamo parte di un processo di accumulazione di cui pensiamo di essere il centro ma di cui siamo soltanto una parte fra tante altre che ci condizionano. Ci illudiamo di essere i protagonisti di una vita interiore che col tempo si arricchisce in complessità, che si ramifica silenziosamente, formando e modificando col tempo il nostro modo di pensare.

​Via via cambiano le forme di un futuro che percepiamo inavvicinabile ma che vezzeggiamo e desideriamo. Credo che la giovinezza consista nel farci plasmare da una serie di esperienze che, mentre ci passano attraverso, riponiamo disordinatamente, quasi sovrappensiero, oltre una porta chiusa. In una stanza via via più ampia che, una volta abitata, costituirà la vita adulta, il momento in cui il futuro immaginato diventerà un presente vissuto. Per molte persone questa rivoluzione avviene a cavallo dei trent’anni. 
Io, come molti miei amici, sono esposto a ciò che la mia individualità mi pone di fronte, e all’ansia che provo rendendomi conto di quanto io sia lontano da un me stesso che inevitabilmente avevo idealizzato. Perché questa età è quella del disorientamento, della frustrazione. Arrivati a cavallo dei fatidici trenta, ci rendiamo conto che siamo cambiati noi ed è cambiato il nostro punto di vista.

​Ci ritroviamo fra le mani esperienze che avevamo filtrato attraverso l’aspettativa del ricordo che ne avremmo avuto, o dell’utilità che ci è stato suggerito potessero avere. Prima o poi, volente o nolente, voluto o temuto questo futuro si avvicina, e noi ci disponiamo finalmente a prenderne possesso. Varchiamo quella porta che avevamo chiusa e percorriamo a tentoni i confini di questo luogo caotico. Cerchiamo di organizzare ciò che ci è utile e riponiamo quello che può essere messo da parte, scoprendo che non siamo in grado di farlo.
Ci sentiamo diversi rispetto alla persona che, da giovani, pensavamo di essere. Ci sentiamo privati del nostro potere su noi stessi. Viviamo con sofferenza lo scollamento fra ciò che è diventata la nostra vita e le aspettative su noi, imposte dalla società e dalla cultura che ne è l’immaginario. Viviamo urgenze, desideri, sensi di colpa “altri” rispetto a noi. Siamo abitati, in ogni fase della nostra vita, da attori con cui interagiamo senza che la loro presenza ci sia palese.

Ci scopriamo in una realtà sospesa, vischiosa; una nebbia in cui molte energie girano a vuoto e si disperdono. Il presente è privato di prospettive: il futuro immaginario che prima popolavamo di sogni e progetti è desertico. Al contempo scopriamo una vita interiore molto più affollata e caotica di quanto potessimo mai aspettarci. C’è un popolo sotterraneo che si muove e mormora sotto ciò che ci illudevamo di essere.

​Ci vediamo finalmente come delle goffe creature piene di malfunzionamenti; strani mostri: Queers. Scegliere per noi la nostra identità implica il ragionare sulla distanza fra ciò che realmente ci rende felici e i modi di vivere messi a disposizione dal mondo in cui viviamo.


​TEORIA VS PRASSI

I miei coetanei, almeno quelli con cui parlo, raccontano di una lenta transizione di fase, in cui diventano spettatori giudicanti del proprio presente e del proprio passato. Difficile riuscire a passarne attraverso senza rimanerne almeno in parte disorientati o peggio traumatizzati.

Molti si ritrovano di fronte ad un presente cresciuto in forme e direzioni inaspettate. Si aspettavano che, gettando radici sulle cose che più sentivamo proprie, crescesse e si irrobustisse un presente stabile. Fatto di un lavoro, una serie di passioni, una vita di relazione, magari di famiglia.

La maggior parte dei trentenni oggi si ritrova invischiata nella sterpaglia, persa
in una macchia dura e ostile, o assiste impotente al lento avvizzirsi di un presente tanto agognato, ma che non viene nutrito a sufficienza.

Davide Monetto 
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​APPROFONDIMENTI
QUEER FRA CENTRO E PERIFERIA


QUEER | TORINO | ALICE ARDUINO | INTERVISTA DI DAVIDE MONETTO
QUEER | TORINO | FRANCESCA PUOPOLO | INTERVISTA DI DAVIDE MONETTO
QUEER | TORINO | MONETTO COMMENTA ZUCARO
QUEER | TORINO | RICCARDO ZUCARO | INTERVISTA

QUEER | INCHIESTA                                            CASA ARCOBALENO TORINO                                      MONETTO COMMENTA ZUCARO

4/9/2018

 
Foto
Casa Arcobaleno, Logo
Riccardo Zucaro oltre ad essere vicepresidente di Arcigay Torino cura l'ufficio stampa di Casa Arcobaleno, un "polo integrato di servizi alla comunità" che al momento raccoglie in sé 18 associazioni. È costantemente immerso in una serie di progetti che differiscono per forma, argomento, concezione, e destinazione d'uso. Questa mole di impegni e informazioni viene amministrata in parallelo ad un lavoro e a una vita di relazione: un sacco di carne al fuoco per un giovane uomo di trent'anni.

Le parole che più emergono dalle sue risposte sono "servizio", "alternative", "diritti". L'attenzione si concentra su tutte le possibilità di crescita personale e di incontro che vengono fornite agli interlocutori delle associazioni. L'idea stessa di Queer, così come la categorizzazione delle persone LGBT, sono viste come strumento per la crescita sociale e psicologica, e in definitiva per realizzazione di sé in una società con consuetudini rigide e fisse..

In qualche maniera la parte umana e personale, dunque la fatica che una vita da attivista comporta, rimangono nascoste dietro le iniziative descritte in questa breve intervista. Per fare tutto questo ci devono essere motivazioni forti.

​L'impressione che emerge nell'ascoltarlo è che Riccardo sia cresciuto, come persona oltre che come attivista, all'interno di questo ambiente, e che lo abbia scelto per conoscersi e per scegliere le parti di sé da coltivare. In un certo senso Casa Arcobaleno è Arcigay Torino "Ottavio Mai" sono emanazioni dirette della sua vita personale e della sua crescita.
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​Eppure questa volontà di accogliere e fornire servizi non rischia di raccogliere fruitori, e non persone con una mente autonoma, o ancora non parti attive di un rinnovamento sociale? Lo scopo dell'associazionismo, oltre all'ottenimento di diritti e al miglioramento delle condizioni di vita di determinate categorie, è di formazione, raccolta e potenziamento di una visione di comunità, alternativa a quella fornita dalla società.

​Casa Arcobaleno e i volontari che la formano si impegnano a distribuire queste alternative sotto forma di servizi, ma quanto di questo lavoro è percepito dalla comunità? Quanto essa è umanamente partecipe delle vite che si strutturato sotto il tetto di casa Arcobaleno?

Il fattore umano è la chiave per superare i muri che la società oppone all'emancipazione delle persone. La partecipazione emotiva, al di qua di qualsiasi categorizzazione, è il motore che da la spinta ai progetti, soprattutto ai più grandi. Muovere da Movere, ovvero trasformare, e commuovere. 

Davide Monetto 
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APPROFONDIMENTI
QUEER FRA CENTRO E PERIFERIA

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QUEER | TORINO | INTERVISTA A RICCARDO ZUCARO
QUEER | TORINO | INTERVISTA A FRANCESCA PUOPOLO
QUEER | TORINO | INTERVISTA AD ALICE ARDUINO
QUEER | RICONOSCERSI OLTRE I PROPRI "FILTRI" di DAVIDE MONETTO

QUEER | INCHIESTA                                                  ARCIGAY TORINO                                              FRANCESCA PUOPOLO                                         

4/9/2018

 
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Corpus Dominae - Il Corpo della Signora | Shooting, 2016
​D. Quanto la tua arte ti ha portato ad esplorarti? O è la volontà di esplorarti e conoscerti che ti ha condotto alla drammaturgia e al teatro?

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R. Non credo di avere avuto scelta. A partire dalla prima infanzia tutto ciò che costituiva il “dialogo interiore”, quell'insieme di suggestioni, impressioni, immagini, decodificazioni della realtà si costituiva in volontà di esplorazione di me e dell'Altro da me. Alle elementari la lettura ad alta voce era per me un momento in cui tutto ciò che percepivo del mondo finalmente si traduceva in messaggio; recitavo le poesie a memoria con tale coinvolgimento che l'insegnante spesso commentava con un “il teatro è la tua strada”. La scrittura per la scena è venuta da sé, con la necessità di esprimere un messaggio, più che per volontà di narrazione.
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D. In "Pupeide - Bettina balla il Boogie" il protagonista condensa e realizza in Bettina la sua spinta vitale, anche carnale e sessuale. Nella società odierna le persone sentono il bisogno di identificarsi in categorie. Seppur con retroterra opposti ci si affida in entrambi i casi ad un "personaggio", una caratteristica presa e resa altra da sè per esplorarsi e viversi più apertamente. Che significato ha per te, come artista e come persona sensibile alle tematiche queer, l'uso del personaggio e il rapporto con esso?


R. Il personaggio per me è il medium. Il fine scenico, nel mio lavoro, non è mai una narrazione fine a se stessa (sempre che una qualsivoglia narrazione possa esserlo), ma un canale portatore di uno o più messaggi. A volte, il medium, il tramite, è il messaggio stesso.

​In “Pupeide”, Bruno/Bettina è un carattere ispirato ad una persona che è esistita, un ragazzo dell'entroterra siciliano arrivato a Torino giovanissimo, in cerca di fortuna. Bruno è morto nel 1979, io sono nata nel 1980, ma la sua voce è arrivata al mio orecchio oltre il tempo e lo spazio, e un grande senso di appartenenza mi ha legata a lui, da subito. L'ho percepito sempre presente, come se utilizzasse la mia scrittura per tornare nel mondo. Alla fine degli anni Settanta, ricono
scersi come omosessuali e vivere con orgoglio non era certamente scontato, data la cultura eteronormata e machista che tanto affligeva ed affligge la società occidentale.

Attrave
rso la costruzione del carattere, cerco di esprimere la necessità di guardare all'Altro da noi come ad un universo da esplorare: mi piace pensare che dovrebbe essere la meraviglia a guidarci nell'apprendimento emotivo e cognitivo, come accade nella prima infanzia. Purtroppo viviamo in un sistema che esprime in se stesso la necessità di omologazione, rifiutando tutto ciò che propaga la propria unicità rivendicandola come tale. Ripeto spesso che siamo tutt* pezzi unici, con una radice comune. Sguardi multidirezionali appartenenti allo stesso occhio.

La società è intrappolata nel simulacro di un'unica visione, di uno sguardo monodirezionale: nelle mie drammaturgie denuncio la pericolosità della Norma e la necessità di superarla, di rivendicare una libertà di esistenza e di espressione.

D. In molte delle tue produzioni si descrive qualcosa che che non ha definizione e sta oltre le parole. IL non luogo, la realtà proteiforme- come il "letto di sotto" ne "corpus dominae - il corpo della signora" si realizza nei corpi e nelle maschere. Questa ineffabilità si concentra soprattutto nella carnalità per te? Cosa c'è nel rapporto con il corpo, e per te con la tua corporeità, di così profondo e difficile da imbrigliare?


R. Vivo nella trascendenza, con tutte le difficoltà del caso. Il corpo è un medium splendido, quasi un manifesto di per sé, che però subisce spesso mortificazioni a causa della non aderenza agli standard comuni. Ognun* di noi ha una percezione interiorizzata del proprio corpo, che a volte si scontra con la percezione che l'esterno, l'Altro da noi, ha dello stesso.

Mettere il proprio corpo al servizio della scena costringe l'attore a lasciare da parte se stesso: il corpo scenico non è più una tua proprietà, è qualcosa di inafFer
rabile, che si esprime nell'istante e che può mutare lungo il percorso, arrivando anche ad avere una propria “identità separata”. La mia corporeità, l'espressione del mio corpo scenico è per me un momento di arte assoluta: divento il mezzo del mezzo stesso, a volte trovandomi a scoprire e percorrere vie di espressione corporea non convenzionali, avulse anche alle regole teatrali – per questo a volte diventa inafferrabile. Anche la carne può essere trascendente.



D. Osceno ha molte etimologie; oltre che o-skene, ovvero al di fuori della norma, anche ob cœnium: proprio del fango, della melma. Streghe, prostitute, omosessuali in un epoca in cui vi era solo condanna. Tutte figure di esclusi oltre che (o in quanto?) portatori di umanità. Quanto della tua ricerca  -  umana  e  artistica  -  parla  di  scoperta  e  messa  a  nudo,  e  quanto  di  accettazione  e riconciliazione? Quanto questi aspetti sono legati fra di loro e a te?

​
R. Moltissimo. L'archetipo della Strega, per esempio, è l'espressione queer per eccellenza: donne che rivendicavano la propria unicità e che hanno rifiutato  il  controllo,  oppure  donne  sapienti, vere e proprie esperte di erboristeria medica, epurate da una società in cui la logica di profitto ed il controllo dei corpi erano priorità assoluta. Streghe,  prostitute e persone LGBTQIA+ sono state perseguitate,  torturate  ed  uccise  perchè  esprimevano qualcosa  che  si  discostava  dalla Norma; è così ancora oggi, purtroppo.

Ma chi ha deciso che l'autodeterminazione debba avere un prezzo? La  mia ricerca verte sicuramente sulla scoperta e sulla messa a nudo, ma non sull'accettazione: accettare qualcosa presuppone uno standard di partenza con cui fare un confronto, per poi decidere se il soggetto è “all'altezza” dell'esame. No, grazie. Forse sono un'idealista, ma realmente perseguo l'obiettivo di una società in cui ci sia sana curiosità e sete di conoscenza dell'Altro, costituzione collettiva di voci e di corpi difformi, anime libere.


D. Il teatro, privato della dimensione dell'intrattenimento, al di fuori della scena, diventa momento di condivisione quasi sacrale, in cui il pubblico diventa da spettatore a parte integrante di ciò che avviene. IL discorso queer può liberarsi della parte normativa e di rivendicazione? Dove ci porterebbe? Cosa vuol dire essere queer per te, come persona oltre che come artista?
​


R. Nel momento in cui il pubblico si riconosce in ciò che accade in scena, il messaggio è giunto a destinazione. Credo che le questioni queer si esprimano proprio nell'unicità di chi ne rivendica gli aspetti ed I messaggi : se ancora oggi qualcun* si sente minacciat* dalla mia unicità (data l'espressione del mio orientamento sessuale, della mia identità di genere, del mio ruolo o dalla mia espressione di genere, oltre che da tutti gli aspetti che compongono la personalità) e crede di avere il diritto di prescrivere ciò che dovrei o non dovrei fare, allora nel rito collettivo si libera, almeno  per  qualche  istante,  l'antidoto:  l'annullamento  della  paura. 

Il  teatro  è  nell'Altrove  che tutt* neghiamo, sempre più inscritt* in una collettività legata all' apparenza.    Attraverso il teatro, l'essere  umano  riacquista  il  senso  del  sacro,  e  si  libera  dal  timore.  Purtroppo,  poi  torna  alla quotidianità e ricade nella paura, vittima di quella “ratio a tutti I costi” che ci ha privat* di ogni aspetto di accompagnamento – e quindi di elaborazione – dei riti di passaggio (nascita, morte, etc.).     

​Per me essere queer significa esprimere, nell'arte e nella vita, il diritto all'unicità, senza che per questo qualcun* si senta minacciat*. Potremmo vivere realmente liber*, ma il controllo della cosiddetta “società civile” richiede ancora che si rivendichino I diritti umani, oltre che civili, fondamentali – e lo dico con amarezza.
​

D. Come  riesci  a  conciliare  il  tuo  percorso  con  la  presidenza  di  una  grande  associazione  come arcigay  Torino  "ottavio  mai",  che  con  casa  Arcobaleno  si  declina  in  servizi  forniti  ai  cittadini? Quanto  le  persone  sono  sensibili  al  tema  della  scoperta  della  propria  individualità,  e  quanto cercano semplice rassicurazione?


R. Beh,  diciamo  che  devo  organizzarmi  con  molta  precisione!  Casa  Arcobaleno  è  un  progetto voluto  da  Arcigay  Torino  proprio  nell'ottica  di  creare  qualcosa  di  nuovo,  di  sperimentare  un melting  pot  tra  realtà  eterogenee.  Arcigay  è  un'associazione  con  una  storia  alle  spalle,  ma  il lavoro  del comitato   non   si   esaurisce   nei   servizi   forniti   ai  cittadini.   

La   creazione   e l'organizzazione di eventi culturali, ad esempio, è parte integrante del percorso del comitato di Torino; il lavoro delle volontarie e dei volontari dei diversi gruppi spazia dalla gestione di eventi all'offerta  di  servizi  come  lo  sportello  Accoglienza,  che  fornisce  ascolto  e  supporto,  oltre  al sostegno  per  le  persone  richiedenti  asilo  politico;  il  gruppo  Giovani  è  molto  partecipato  e organizza  attività  di  formazione  e  aggregazione  tese  all'inclusività  e  alle  buone  pratiche; il Gruppo Scuole e Formazione porta le testimonianze delle ragazze e dei ragazzi che ne fanno parte   nelle scuole   superiori   di   Torino   e   Provincia,   in   un'ottica   di lotta costante   alle discriminazioni (tutte) e al bullismo omotransfobico.

E così tutti I gruppi tematici che costituiscono  il  corpus del  comitato. Il  mio percorso  prosegue  in  parallelo,  spesso  ho  potuto mettere a disposizione la mia professionalità in percorsi culturali, anche grazie alla squadra che lavora alacremente affinché l'associazione cresca giorno dopo giorno. Abbiamo un obiettivo comune,  che  si  traduce  nella  creazione  di una reale  inclusività e un di un buon accompagnamento alla scoperta della propria individualità e condivisione delle alterità.

Davide Monetto 
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APPROFONDIMENTI

QUEER FRA CENTRO E PERIFERIA


QUEER | ALICE ARDUINO | INTERVISTA DI DAVIDE MONETTO
ARCIGAY TORINO | INTERVISTA A RICCARDO ZUCARO
GRANDAQUEER CUNEO | SIMONE BALOCCO
GRANDAQUEER CUNEO | INTERVISTA A ELISABETTA SOLAZZI

QUEER | INCHIESTA                                                  ARCIGAY TORINO                                            RICCARDO ZUCARO                                    INTERVISTA

4/9/2018

 
Foto
Riccardo Zuccaro fotografato da Alice Arduino per "Celebrate Yourself" nel 2018
D. Associarsi oggi, con internet e le global community, quale significato assume?


R. Sottoscrivere la tessera di una associazione porta con se alcune responsabilità: da una parte, si sposano le lotte e le rivendicazioni mosse dalla realtà associativa, che possono andare in varie direzioni; dall’altra, si sostiene un progetto di cittadinanza attiva che produce i suoi frutti attraverso i servizi, gratuiti, messi a disposizione della cittadinanza.

Nello specifico, con la tessera di Arcigay si sostengono servizi curati da volontarie e volontari che mettono a disposizione la loro professionalità nell’ascolto empatico per fornire sostegno a chi chiede aiuto per affrontare questioni legate all’orientamento sessuale, alle identità di genere, alla consulenza psicologica e legale, al sostegno di fasce di popolazione migrante che chiedono asilo politico, a giovani che cercano un luogo frequentato da pari per confrontarsi e crescere.

​Inoltre, quel ritaglio di plastica colorata, che a prima vista può essere privo di significato, porta con sé il lavoro di decine di volontarie e volontari che si spendono quotidianamente nell’ideazione di momenti aggregativi, formativi e culturali, nella rivendicazione della visibilità, dei diritti che ci spettano per essere tutte e tutti uguali davanti alla legge, con l’ònere di consegnare un bagaglio di conoscenze ed esperienze nell’incontro con l’altra persona. Quindi, nonostante una buona parte della comunicazione finalizzata alla conoscenza reciproca sia passata su canali informatici, l’incontro vis-à-vis detiene ancora l’energia che genera movimento e, quindi, socializzazione e creazione di senso di gruppo.
​
​
D. Che tipo di utenza ha CasArcobaleno?


​R
. CasArcobaleno è un polo integrato di servizi di interesse pubblico rivolti alla popolazione LGBTQI* e di servizi diretti alla popolazione cittadina tutta. Nasce in un quartiere di costanti conflitti e dialoghi, di incontri e necessità, Porta Palazzo, e cerca di rispondere ad alcune esigenze della città e della sua popolazione LGBTQI*.

Si tratta di un luogo di sovrapposizioni e contaminazioni, dove hanno sede molte associazioni e gruppi della variegata galassia LGBTQI* e non; è un luogo di cittadinanza attiva che vive l’incontro come apertura a nuove dinamiche e punti di vista, in modo che le battaglie per i diritti siano davvero di tutte e tutti, fuori dai confini ristretti e ghettizzanti dei limiti costruiti dalle proprie mission.

CasArcobaleno è, dunque, una crisi cercata, positiva; è, soprattutto, una casa, un luogo pubblico e privato abitato da molte associazioni in base al momento scelto per visitarlo. Al momento aderiscono al progetto 18 associazioni, quindi il tipo di utenza varia in base al contesto associativo: troviamo genitori, amici e parenti di persone LGBTQI*, giovani, sportivi, gruppi di forze dell’ordine LGBTQI*, genitori omosessuali, comunicatori multimediali, atei, agnostici, di tutte le fedi. 
​
​

D. Su cosa si basa la sensibilizzazione degli associati?
​

R
. Le socie e i soci che si avvicinano alle realtà che abitano CasArcobaleno entrano in contatto con contesti che propongono una visione differente da quella prevalente della società che ci circonda. Fornire un’alternativa, che può avvicinarsi alle peculiarità di ogni persona, tende a creare un ambiente il più variegato possibile, dove nell’incontro con l’altr* si genera conoscenza e si abbattono quei muri di paura e ostilità.

CasArcobaleno, frequentata dalle socie e dai soci delle 18 associazioni che la abitano, basa la sensibilizzazione sulle tematiche della salute e del benessere, sull’approfondimento cinematografico e culturale, sulla mobilità internazionale e sui diritti europei, sull’accoglienza delle persone migranti, l’ascolto dei famigliari e amici delle persone LGBTQI*, su ragionamenti sul concetto di famiglia allargata, ricomposta e formata da persone dello stesso sesso, sul potenziale delle e dei giovani, sull’abbattimento di stereotipi e pregiudizi attraverso lo sport, su credi religiosi non maggioritari, o su ateismo e agnosticismo, su turismo LGBT, giornalismo e comunicazione innovativa, e molto altro.
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​

D. Cosa muove, secondo te, l’esigenza di sottocategorizzare l’essere umano?


R. Parto dal presupposto che le categorie, in base alle modalità con cui vengono utilizzate, possono essere un’arma a doppio taglio. Per fare un esempio, che reputo negativo, utilizzare l’etichetta gay per giustificare la presunta incapacità di una persona omosessuale di poter crescere un/a figlio/a, o di non aver accesso al matrimonio, è sicuramente un uso scorretto e stigmatizzante, visto che dovremmo essere tutt* uguali davanti alla legge; al contrario, per usare un esempio che reputo positivo, utilizzare l’etichetta gay per autodeterminarsi e comunicare ciò che piace, ciò da cui siamo attratti, ma anche i soprusi che una categoria ha subito nella storia o la letteratura ad essa dedicata, è un modo interessante per non dimenticare quanto sia fondamentale decantare le differenze, senza oscurarle.

​La letteratura omosessuale ci ha regalato autori e autrici interessanti, basti pensare ad Allen Ginzberg con il fenomeno della Beat generation e l’esplorazione delle sessualità, il libertinaggio eversivo descritto da Pier Vittorio Tondelli, ma non solo letteratura, anche l’attivismo scritto e manifesto di Judith Butler, le canzoni di Alfredo Cohen, i testi e le azioni queer-rompenti di Mario Mieli: pensare di inserire tutte e tutti loro in un unico calderone potrebbe significare non restituirne dignità.


Per tentare di rispondere con più precisione alla domanda, l’essere umano è abituato, forse per comodità, a classificare tutto in confini ben definiti, sicuri e rassicuranti. Tentare di rompere quei confini è uno dei compiti più complessi che conosca, ed è uno sforzo che richiede molto lavoro su se stess*. Quindi, sapere che a un certo tipo di caratteristiche e comportamenti corrisponde la definizione gay ne facilita la comprensione, riducendo al tempo stesso la possibilità di “uscire dagli schemi” e di autodeterminarsi, liberandosi dalle imposizioni della società.
​
​

D. Com’è il contesto queer a Torino?


R.
 A Torino esiste un contesto queer interessante e stimolante, che rivede in chiave contemporanea il significato del termine. Tra assemblee e luoghi di incontro e confronto, festival cinematografici indipendenti e intersezionali, eventi ricreativi stimolanti e liberi, i temi trattati sono molti, dal contrasto alla schiavitù all’assistenza sessuale per disabili, dal tema del consenso all’etica negli allevamenti, dalla fluidità di genere all’antispecismo, generando dibattito, attualità e stimolando coscienze politiche.

​Anche in CasArcobaleno, nel nostro piccolo, insieme ad alcune attiviste, si sta portando avanti un discorso queer attraverso serate di approfondimento quali Bed Time Stories, un contenitore ideato da me e da Francesca Puopolo, Presidente di Arcigay Torino, progetto di ricerca accurata di raccolta della memoria orale, attraverso la narrazione delle persone LGBTQI* che non hanno mai avuto occasione di raccontare particolari emotivamente significativi della loro storia: in passato abbiamo avuto ospite un marchettaro di Torino, che ha portato all’attenzione delle molte persone presenti la vita spesso celata di un ragazzo che si prostituiva negli alloggi del centro città, ma anche autrici, autori e attivist* di lunga data. E poi serate di approfondimento su Mario Mieli, su bisessualità e bifobia, proiezioni di film d’essai, mostre fotografiche a tematica trans*, poliamore e molto altro.
​
​

D. Il disagio, che può lamentare un individuo queer, è sociale o individuale oggi come oggi? 

​
R.
Ammetto di essere in una fase di conoscenza e studio della realtà queer, quindi quanto dirò resterà una mia opinione personale. Credo che il disagio che una persona può provare in un contesto sociale venga ribaltato, in chiave queer, trasformandolo in rivendicazione.

Per definizione, queer significa eccentrico, sia sessualmente, sia socialmente, sia etnicamente, ovvero distaccato dalla normalità della cultura egemone: nell’eccentricità troviamo la ribellione a un comportamento imposto e non condiviso, l’allontanamento da precisi dettami che non tengono conto delle particolarità di ogni individuo, che respingono le differenze e le etichettano come negative.

​La favolosità quale strumento di rivendicazione del diritto a far uscire allo scoperto checche, frocie, travestite, trans* e chiunque non si senta a proprio agio nel binarismo di genere uomo-donna, che porta con sé l’imposizione di un comportamento preciso che vuole maschi e femmine cisgender calati nello stereotipo machista e sessista, e con modalità personalizzabili che tendono a liberarsi da ideologie maschiliste, ecclesiastiche, politicamente corrette, autocratiche e legate a una culture intolleranti. Il disagio, dunque, non viene assorbito passivamente e lamentato, ma viene trasformato, o trans-formato, così da diventare movimento, in direzioni ostinate e contrarie. 

gb 
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​ApprofondiMENTI
QUEER FRA CENTRO E PERIFERIA

​

QUEER | INCHIESTA | MONETTO COMMENTA ZUCARO
ARCIGAY TORINO | INTERVISTA A FRANCESCA PUOPOLO
GRANDAQUEER CUNEO | INTERVISTA A ELISABETTA SOLAZZI
GRANDAQUEER CUNEO | INTERVISTA A SIMONE BALOCCO
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​Teatro e Danza. Queer

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