ART IS PRESENT
  • Home
  • Associazione
  • Perchè?
  • Hic et Nunc
    • Hofesh Shechter 21
    • Sidi Larbi Cherkaoui 99 | 19
    • #Pensierobimbo | Incanti 18
    • EgriBianco | Showcase 18
    • TST | Il Cielo su Torino 18
    • Perunteatrocontemporaneo16
  • Editoriali
    • 09 - 19 | 10 anni di?
    • Editoriale | Corpo
    • Editolriale | Relazione (?)
    • Editoriale | Strada
  • Numeri
    • V. Queer 19-22 >
      • Arte 22
      • Danza 21
      • Teatro 20
      • Teorie 19
    • IV. Tecnologia 18 >
      • Téchne e Arte
      • Téchne e Danza
      • Téchne e Teatro
    • III. Corpo 17 >
      • Corpo e Arte
      • Corpo e Danza
      • Corpo e Teatro
    • II. Relazione 16 >
      • Arte Relazionale
      • Danza di Comunità
      • Teatro Sociale
    • I. Strada 16 >
      • Street Art
      • Street Dance
      • Teatro di Strada
    • O. Start >
      • Speciale | La sottise
      • Speciale | Nicola Galli
      • Speciale | Vucciria Teatro
  • Queer
  • Contatti

QUEER E ARTE                                                  1980                                                            ART&AIDS

1/3/2022

 
Foto
Untitled (Portrait of Ross in L.A.) | Felix Gonzalez-Torres, 1991
Gli anni Ottanta, a giudicare con il metro della storia, sono stati fortemente contraddittori. Il decennio può essere ricordato come un periodo di esaltazione dell'arrivismo, del profitto, della competizione interpersonale e del contemporaneo allentamento, non del tutto avvenuto, del sistema dei valori borghesi.

​Gli anni Ottanta sono anche il decennio in cui sono crollati il modello e il sistema comunista, che ha prodotto come effetto l'inizio di un cambiamento strutturale dei rapporti tra i paesi e le culture. È in questo brevissimo periodo di compiacimento dell'Occidente che si coniano idee come quella della “fine della storia” atte ad inaugurare un nuovo modo di interpretare il mondo. 


​EDONISMO e MOrte

Anche dal punto di vista artistico lo scenario si presenta contraddittorio: da un lato l'edonismo, dall'altro lo spettro dell'Aids. I movimenti artistici dei secondi anni Ottanta fanno i conti un'atmosfera culturale divisa tra l'individualismo competitivo eletto a sistema e l'oscura consapevolezza del tabù occidentale della morte. 

Contraddittorietà che si riflette anche nei comportamenti, nelle abitudini, nei modi di pensare di tutti i giorni. Questa penetrazione nel quotidiano è potuta essere non tanto per gli aspetti di politica planetaria, quanto, piuttosto,  per l'enorme impulso dato al consumismo , in nome dell'edonismo. Cosi, il decennio - soprattutto la seconda metà, quando i problemi si sono ormai svelati – si dipana tra questi due poli, edonismo e Aids, che trovano la loro interpretazione e la loro estensione nel linguaggio dell'arte dove più violenti ed evidenti sono le contraddizioni. 

La presenza e la consapevolezza della morte ribalta le tendenze artistiche, cancella quell'idea di felicità consumistica proposta all'inizio del decennio. Costringe a ripensare alla profondità e all'essenza dei rapporti sociali ed interpersonali, e alla presenza assolutamente reale e non virtuale - la “realtà virtuale” sarà un'altra frontiera aperta negli anni Ottanta - della morte.


​NEW YORK

​Se per la prima metà del decennio New York è la città che consacra le tendenze venute dall'Europa, nella seconda metà è la città che “produce” senso e interpretazione, grazie anche al poco invidiabile primato delle morti “illustri” per Aids, tra artisti e intellettuali. A partire dalla metà del decennio, infatti, si moltiplicano i casi e tra le più colpite c'è la comunità degli artisti: tra i morti di Aids, Robert Mapplethorpe, Felix Gonzales-Torres e Keith Harring, 

Mapplethorpe era stato il fotografo dei protagonisti della vita sfrenata newyorchese, di cui ritrae prima la spensieratezza, poi la cupezza di un'atmosfera sempre più pesante, sempre più colpita dalla malattia, di cui storicamente riprende l'ineluttabilità negli ultimi autoritratti. Gonzales-Torres invece raccoglieva in un angolo delle stanza caramelle o cioccolatini il cui peso corrispondesse a quello proprio o del proprio compagno di vita (anch'esso malato), di modo che ogni spettatore potesse partecipare, mangiando un cioccolatino o una caramella, all'esistenza dell'artista e dell'uomo e alla sua dissoluzione.

Chi invece ha posto la morte, e la memoria della vita come punto centrale della propria opera è lo svizzero-francese Christian Boltansky. Focalizzato da sempre su questo tabù occidentale, l'artista costruisce “stanze di memoria” per le moltitudine scomparse - guerre, genocidi o semplicemente vite fantasma - attraverso fotografie di grande formato, immagini di volti e di nomi perduti, accompagnate da pochi dati e qualche ricordo nell'atmosfera raccolta della penombra.


Fonti
traduzioni di Davide Monetto

G. Dorfles, Ultime tendenze nell'arte di oggi, Feltrinelli, Milano 1999
C. Douglas, A. Roiston, (a cura di), AIDS DEMOgraphics, Bay, Seattle, 1990

C. Douglas (a ura di), Aids, Cultural analisys/Cultural activism, Mit press, Cambridge 1988

Gb 
​



Approfondimenti

queer e arte

​

QUEER E ARTE | NOVECENTO | COMPORTAMENTO E ARTE
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | CORPO, RITO, AKTION
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | POST MODERN
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | ARTE SENZA VALORE (SOCIALE)

QUEER E ARTE                                                    PRIMO NOVECENTO                                                  IL BRUTTO E LE AVANGUARDIE

1/3/2022

 
Foto
Umberto Boccioni, Antigrazioso, scultura, 1912

 
​EDUCARE AL DISGUSTO    

Per Carl Gustav Jung, nel suo saggio sull'Ulysses di Joyce, il brutto di oggi è segno e avvisaglia di grandi trasformazioni a venire.

Ciò significa che quello che sarà apprezzato domani come grande arte, potrà apparire sgradevole oggi e che il gusto è in ritardo sull'apparizione del nuovo. Idea che vale per ogni epoca, ma che sembra singolarmente adatta a caratterizzare le opere prodotte dai movimenti dell'avanguardia detta “storica” dei primi decenni del Novecento.

Le Avanguardie si rifacevano agli ideali di sdregolamento dei sensi già propugnati da
Rimbaud o da Lautréamont. In particolare si pronunciavano contro l'arte naturalista e “consolatoria “ dei loro tempi. Agli inizi, coi Manifesti futuristi, si elogiano la velocità, le macchine da corsa (a loro dire) più belle della Vittoria di Samotracia, la guerra, lo schiaffo e il pugno. Ci si batte contro il “chiaro di luna”, i musei e le biblioteche, ci si propone di fare “coraggiosamente il brutto”; Palazzeschi sostiene un'educazione delle giovani generazioni al disgusto, e nel 1913 Boccioni intitola Antigrazioso sia una scultura che un quadro.


​IL BRUTTO FRA PROVOCAZIONE E DENUNCIA

Se quello dei futuristi era un brutto di provocazione, quello dell'espressionismo tedesco sarà un brutto di denuncia sociale. Dal 1906, anno di fondazione del gruppo Die Bruke, sino agli anni dell'ascesa del Nazismo, artisti come Kirchner, Nolde, Kokoschka, Schiele, Grosz, Dix e altri rappresenteranno con sistematica insistenza volti sfatti e ripugnanti che esprimono lo squallore, la corruzione, la soddisfatta carnalità del mondo borghese.

Cubisti come 
Braque e Picasso, nel proseguire una decostruzione delle forme, cercavano sorgenti d'ispirazione nelle arti extraeuropee, nelle maschere africane che l'opinione corrente considerava mostruose e repellenti. Nel movimento Dada, invece, il richiamo al brutto emerge con decisione attraverso l'appello al grottesco; mentre una particolare propensione per situazioni conturbanti e immagini mostruose si ha con il Manifesto Surrealista del 1924.


​NUOVO MODELLO DI BELLEZZA

​​L'artista surrealista è chiamato a riprodurre situazioni oniriche che aprono spiragli sull'inconscio attraverso operazioni come la scrittura automatica, per liberare la mente da ogni freno inibitorio e lasciarla vagare secondo libere associazioni di immagini e di idee.

La natura viene trasfigurata per dare via libera a situazioni incubatiche e inquietanti in artisti come Ernst, Dalì, Magritte. Cosi facendo le Avanguardie perseguivano la rottura di ogni ordine e di ogni schema percettivo istituzionalizzato, la ricerca di nuove forme di conoscenza capaci di penetrare sia nei recessi dell'inconscio che in quelli della materia allo stato brado. Il brutto dell'Avanguardia è stato accettato come nuovo modello di bellezza.

​Nello stesso anno in cui, il 1917, Marcel Duchamp tentava di far esporre in un museo la sua donna-pisciatoio, e Rudolf Otto, storico delle religioni della Scuola di Marburgo, pubblicava un libro destinato a esercitare un'influenza considerevole, Il Sacro (Das Heilige).

La sacratio, secondo Otto, è la figura archetipica del sacro in quanto consacrazione agli dei infernali, analoga nella sua ambiguità alla nozione etnologica di tabù, angusto e maledetto, allo stesso tempo degno di venerazione e suscitatore di orrore. È sacer ciò che, in un essere vivente o in un oggetto, appartiene simultaneamente al campo del sacro e della lordura, del tabù e dell'intoccabile, della consacrazione e della messa al bando, del segreto da serbare e dell'osceno da rifiutare.

​
Fonti

1. C.G. Jung, Ulysses: a monologue, Folcroft Library Editions, s.l.,1976
2. U. Eco, Storia della Bruttezza, 2007
​3. Rudolf Otto, Il Sacro. L'irrazionale nell'idea del divino e la sua relazione al razionale, a cura di E. Buonaiuti, Feltrinelli, Milano 1966

gb 
​



ApprofondiMENTi
queer e arte
​
​

QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | ART CHEZ LES FOUS
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | ART BRUT
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | DUBUFFET E LE SORTI DELL'ART BRUT
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | CORPO, RITO, AKTION

QUEER E ARTE                                                        SECONDO NOVECENTO                                            POST MODERN

1/3/2022

 
Foto
Wim Delvoye | Peau de porc tatouée 1995


​post moderno

Il post moderno, rovescio repulsivo del modernismo greenberghiano, coltiva spesso il cattivo gusto, veicolo di un humor a lungo rimosso, o emarginato, dalle arti visive. Molti critici o intenditori, nostalgici di un'arte più austera, si sentono però urtati.

E spesso la discriminante non è economica bensì culturale: è esperienza consueta rilevare la rozzezza del nuovo ricco che, per ostentare la sua ricchezza, va oltre i limiti che la sensibilità estetica dominante assegna al “buon gusto”. 

E' per altro imbarazzante definire la sensibilità estetica dominante: non è necessariamente quella di chi detiene il potere politico o economico. E' piuttosto quella fissata dagli artisti, dalle persone colte, da chi viene ritenuto esperto di “cose belle”. Ma si tratta di un concetto molto volatile, soprattutto oggi che ogni “comunità” detiene la sua concezione di bello. Jean-François Lyotard, quando spiegava il post moderno metteva in guardia proprio dal caos che regna intorno l'arte kitsch:


Facendo kitsch, l'arte asseconda il disordine che regna nel 'gusto' dell'amatore. L'artista, il gallerista, il critico e il pubblico trovano, tutti insieme, soddisfazione in qualsiasi cosa, e il rilassamento è in agguato.

Ovviamente non tutta l'arte post moderna è di cattivo gusto, e tanto meno comica. Ma era indispensabile che le istanze formali, filosofiche o etiche del modernismo si affievolissero perché il kitsch, nella sua versione critica, acquistasse diritto di cittadinanza.


​citazione e sarcasmo

Se il termine Kitsch ha un senso, non è dunque perché designi un'arte che tende a suscitare effetti - in molti casi l'arte si propone anche questo fine - né un arte che utilizzi stilemi apparsi in altro contesto, perché questo può verificarsi senza che si cada nel cattivo gusto. Kitsch è l'opera che, per farsi giustificare la sua funzione di stimolatrice di effetti, si pavoneggia con le spoglie di altre esperienze, e si vende come arte senza riserve.

​Ma se il kitsch innesta una critica ai valori, spesso questa è ben dissimulata. Jeff Koons, ad esempio, senza dubbio uno dei più noti esponenti del kitsch, fa costruire un'enorme struttura a forma di cane accucciato, interamente ricoperta di piante fiorite (Puppy, 1992) e la pone all'ingresso di un castello. E Martin Honert con i suoi sketch ricostruiti tridimensionalmente e dipinti a colori vivaci lascia le stesse perplessità.

​Rientrano invece in un registro più dichiaratamente sarcastico le navette spaziali, rivestite di pelle sintetica – un materiale particolarmente kitsch – da Silvy Fleury (First Space-Ship on Venus, 1996) e opere di Wim Delvoye come la betoniera in legno scolpita come un buffet lavorato o Peau de porc tatouée (1995) che inalbera una croce ornata di rose, motivi floreali e la scritta: One life. One love. One God.

gb
​


​
approfondimenti
queer e arte


QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | IL KITSCH
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | KITSCH | JEFF KOONS
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | IL BRUTTO E LE AVANGUARDIE
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | ART CHEZ LES FOUS

QUEER E ARTE                                                        SECONDO NOVECENTO                                              IL KITSCH

1/3/2022

 
Foto
Jeff Koons | Michael Jackson and Bubbles, 1988


​​Arte della felicità o cattivo gusto?

Tra i valori un tempo rifiutati nell'universo dell'arte, il kitsch è senza dubbio uno di quelli più conflittuali. Come si è visto, la promozione dei disegni infantili o dell'Art Brut tendeva a riabilitare produzioni solitamente screditate. Così come l'arte popolare e l'arte primitiva possedevano già una forte dignità, che solo la cecità di un'ideologia classica o etnocentrica non riusciva a legittimare. 

Con il Kitsch, invece, la questione è diversa. Perché non si tratta di una cultura alternativa o di una controcultura, bensì della negazione di determinate esigenze culturali a vantaggio di un appagamento immediato dei gusti, giudicati grossolani della maggioranza. Stando almeno a quanto affermano i suoi detrattori1. 
​
I sottotitoli di due testi dedicati al Kitsch indicano chiaramente come questo tipo di arte catturi un certo pubblico e ne allontani, invece, un altro. Il Kitsch è al tempo stesso un'arte della felicità (secondo A. Moles) e un'espressione del cattivo gusto2 (secondo G. Dorfles).


​​​Arte per tutti?

Secondo alcuni la parola 'kitsch' risalirebbe alla seconda metà dell'ottocento, quando i turisti americani a Monaco, volendo acquistare un quadro, ma a poco prezzo, ne chiedevano uno schizzo (sketch). Da quì sarebbe derivato il termine, utile ad indicare la volgare paccottiglia per acquirenti desiderosi di facili esperienze estetiche. Il kitsch, quindi è anche, e soprattutto, un fenomeno sociale.

La cultura “alta” definisce kitsch i nanetti da giardino, le immaginette devozionali, i falsi canali veneziani dei casino di Las vegas, il falso grottesco del celebre Madonna Inn californiano, che regala ai fortunatissimi avventori un'esperienza “estetica” ineguagliabile. E Kitsch senza remissione è stata definita l'arte celebrativa (che si voleva popolare) delle dittature staliniana, hitleriana o mussoliniana, che definivano l'arte contemporanea come “degenerata”.1     
​ 
Chi si compiace del kitsch ritiene, invece, di stare godendo di una esperienza qualitativamente alta. Ma mentre i cultori di un'arte “colta” trovano kitsch il kitsch, i cultori del kitsch non trovano disprezzabile la grande arte dei musei (i quali peraltro, espongono spesso opere che la sensibilità colta giudica kitsch). Anzi, ritengono le opere kitsch “simili” a quelle della grande arte. 


​​Trasporto vs citazione

Se una delle definizioni del kitsch lo vede come qualcosa che mira a provocare un effetto passionale invece di consentire una contemplazione disinteressata, l'altra ritiene kitsch quella pratica artistica che, per nobilitarsi, e nobilitare l'acquirente, imita e cita l'arte dei musei.     
​                                         
Clement Greenberg studiando quest'arte ha affermato che, mentre l'avanguardia (intendendola in generale come l'arte nella sua funzione di scoperta e invenzione) imita l'atto dell'imitare, il kitsch imita l'effetto dell'imitazione. L'avanguardia nel fare arte pone in evidenza i procedimenti che portano all'opera, mentre il kitsch pone in evidenza le reazioni che l'opera deve provocare, e l'emotività del fruitore.1 

Hermann Broch, uno dei primi studiosi del kitsch, vi scopre invece, una forma di male radicale. Distruttivo del sistema dei valori, fondato com'è sulla confusione della categoria etica e della categoria estetica. Alla ricerca del bell'effetto, l'arte kitsch non mira assolutamente al lavoro ben fatto bensì alla bella fattura. Per riuscirvi, il kitsch usa mezzi sperimentati che volgono le spalle all'inventiva e alla creatività. Da Il Male nel sistema dell'arte cosi si può leggere:

L'essenza del kitsch consiste nello scambio della categoria etica con la categoria estetica: esso impone all'artista non un “buon “lavoro ma un “bel “ lavoro; ciò che gli importa è il bell'effetto. Malgrado si atteggi spesso in senso naturalistico, e cioè malgrado il suo abbondante impiego di vocaboli della realtà, il romanzo Kitsch illustra il mondo non “come è” ma “come lo desidera o lo teme” e analoga tendenza rivela il Kitsch nelle arti figurative (…) Come non concludere che nessuna arte può fare a meno di una goccia di effetto, di una goccia di Kitsch? (…) E' assai significativo e caratterizzante il fatto che, data la mancanza di una fantasia propria, il Kitsch debba costantemente richiamarsi ai metodi più primitivi.


​saccheggiare la tradizione

La condizione preliminare del kitsch, la condizione senza la quale non sarebbe possibile, è la completa disponibilità di una tradizione culturale matura delle cui scoperte, acquisizioni e piene consapevolezze, il kitsch possa approfittare per i suoi propri scopi. Dalla tradizione il kitsch ricava dispositivi, artifici, stratagemmi, pratiche, temi, per convertirli in sistema.

Da questa riserva di esperienze accumulate. Carl Greenberg in Avanguardia e Kitch, conferma che solo quando è trascorso abbastanza tempo, il nuovo viene saccheggiato per delle nuove bevande miste, dei “cocktails” che vengono poi annacquati e serviti come kitsch.

​Di solito non si sa bene se il kitsch è soltanto un brillante artificio o deve essere considerato, al di là del lato buffo, uno stimolo critico. A meno che non resti, più semplicemente, un'operazione velleitaria.




Fonti

C. Greenberg, Avanguardia e Kitsch, in Arte e cultura, Allemandi 1991
​H. Broch, Il male nel sistema di valori dell'arte, in Il Kitsch, Einaudi, Torino 1990
J.-F. Lyotard, Le postmoderne expliqué aux enfants, Galilée, Paris 1986
A. Moles, Il Kitsch. L'arte della felicità, Officina, Roma 1978
G. Dorfles, Il Kitsch. Un catalogo ragionato del cattivo gusto, Mazzotta, Milano 1968
A. Kohn, Introduction a H.Broch, Création littéraire et connaissance (1955), Gallimard, Paris 1966

Gb 
​



APPROFONDIMENTI
QUEER E ARTE


QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | ART CHEZ LES FOUS
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | IL BRUTTO E LE AVANGUARDIE
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | ART BRUT
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | CORPO, RITO, AKTION

QUEER E ARTE                                                        SECONDO NOVECENTO                                              IL CAMP

1/3/2022

 
Foto
Jean Cocteau | litografie 1956-1958


​DANDYSMO DI MASSA

Nel periodo in cui la pop art metteva a soqquadro la gerarchia dei valori dell'Avanguardia, una forma deliberata di kitsch si faceva largo nel panorama dell'arte: il camp.

Il gusto camp nasce come segno di riconoscimento tra i membri di una élite intellettuale, così sicuri del loro gusto raffinato così da poter decidere la redenzione del cattivo gusto di ieri, sulla base di un amore per l'innaturale e l'eccessivo – e il richiamo è al dandismo di Oscar Wilde per cui “essere naturali è un atteggiamento così difficile da mantenere”, come scriveva in Un marito ideale.

In tal senso è manifestazione di gusto aristocratico e comunque snobistico: come il dandy era nell'Ottocento il surrogato dell'aristocratico nelle faccende della cultura, così camp è il dandy della cultura di massa. Però mentre il dandy cercava sensazioni rare, non ancora profanate dal gradimento delle masse, l'intenditore di camp si realizza nei piaceri più rozzi e più comuni.


​ECCENTRICITA' | AMBIGUITA' | CANDORE

Il Camp è una forma di sensibilità che, più che trasformare il frivolo in serio, tramuta il serio in frivolo. Il camp è anche, se pur non sempre, l'esperienza del kitsch di chi sa che quello che vede è kitsch. Camp, dunque, è l'amore per l'eccentrico, per le cose-che-sono-come-non-sono e l'esempio migliore ne è l'Art Nouveau, in quanto i suoi oggetti trasformano gli impianti di illuminazione in piante fiorite, il soggiorno in una grotta o viceversa, gli steli d'orchidea in ghisa, come nelle entrate delle Metro parigine di Guimard.

Ma non solo, il gusto camp è attratto dall'ambiguità sessuale:


L'androgino è certo una delle grandi immagini della sensibilità Camp (…) Su questo punto il gusto camp tocca una delle verità più misconosciute del gusto: la forma più raffinata dell'attrazione sessuale (nonché del piacere sessuale) consiste nell'andar contro l'inclinazione del proprio sesso. Ciò che c'è di più bello negli uomini virili è qualcosa di femminile; ciò che c'è di più bello nelle donne femminili è qualcosa di maschile (…) Accanto al gusto per l'androgino, c'è in Camp qualcosa che sembra molto diverso ma non lo è: una predilezione per l'esagerazione delle caratteristiche sessuali e delle affettazioni della personalità (…) Camp è il trionfo dello stile ermafrodita, la convertibilità tra uomo e donna, tra persona e cosa.1​

Va detto, comunque, che non tutto il brutto può essere visto come camp. Lo è solo quando l'eccesso è innocente e non calcolato. Gli esempi puri di camp non sono intenzionali, sono estremamente seri: “l'artigiano Art Nuveau che fabbrica una lampada con un serpente avvolto intorno non lo fa per scherzo, e neanche cerca di affascinarci. Dice soltanto, con tutta serietà: ecco l'oriente! Non si può decidere di fare una cosa camp. Il camp non può essere intenzionale, poggia sul candore con cui si mette in opera l'artificio.


​SUSAN SONTAG

Nel suo Note sul Camp del 1964 Susan Sontag dichiara: “è bello perché è orribile”.1 Questo slogan, giustamente provocatorio, apre a considerazioni interessanti in merito l'arte contemporanea. Innanzitutto che i canoni del camp possono cambiare e “ciò che era banale può, col trascorrere del tempo, diventare fantastico”.

​In tal senso il
camp trasforma il brutto di ieri attraverso un'operazione ambigua in cui non è chiaro se il brutto venga redento come bello o il bello si declassi a brutto. Ma non è importante perché il camp, dice Sontag “rifiuta la distinzione tra bello e brutto tipica del normale giudizio estetico (…) non sostiene che il bello sia brutto o viceversa. Si limita a offrire all'arte un insieme di criteri di giudizio diversi, e complementari”.

“Valutiamo un'opera d'arte sulla base della serietà e della dignità che riesce a raggiungere”, e nell'apprezzarla, ci dice l'autrice, identifichiamo un giusto rapporto tra l'intenzione e l'esecuzione, anche se esistono altre forme di sensibilità artistica i cui caratteri distintivi sono l'angoscia e la crudeltà, per cui “accettiamo una disparità tra intenzioni e risultati”. A questo proposito Sontag cita Bosch, Sade, Rimbaud, Jarry, Kafka, Artaud e molte altre persone dell'arte del XX secolo, il cui fine non era di creare armonia bensì di affrontare temi sempre più violenti e insolubili.

C'è nel camp, insomma, qualcosa di smisurato nelle intenzioni, per cui “gli sgargianti e magnifici edifici di Gaudì a Barcellona”, e in particolare la Sagrada Familia rivelano, secondo Sontag, “l'ambizione di un uomo di fare da solo ciò che per essere realizzato richiederebbe gli sforzi di tutta una generazione”. Se il kitsch era una menzogna pronunciata in riferimento all'arte “alta”, il neo brutto internazionale sarà una menzogna pronunciata nei confronti di un “orribile” che il gusto camp aveva tentato di redimere.1


Fonti

Umberto Eco, Storia della Bellezza, Bompiani, 2007
​
Sontag, Note sul Camp (1964), in Contro l'interpretazione, Mondadori, Milano 1967

Gb 
​



approfondimenti
queer e arte


QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | IL BRUTTO E LE AVANGUARDIE
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | IL KITSCH
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | ART BRUT
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | CORPO, RITO, AKTION

QUEER E ARTE                                                        PRIMO NOVECENTO                                                  ART CHEZ LES FOUS

1/3/2022

 
Foto
Adolphe Julien Fouéré | Rothéneuf, 1910


​L'INTERESSE DEI MEDICI

Non poche collezioni, a partire dalla fine del XIX secolo, hanno raccolto le produzioni plastiche e letterarie degli alienati. La psichiatria era una disciplina ancora giovane, e l'arte dei folli suscitava l'interesse dei medici.

Marcel Réja, ad esempio, pubblicò L'art chez les fous. L'intento del libro, come è chiaramente indicato nell'introduzione, è quello di studiare un'“arte” specifica, o, più precisamente, un'infanzia dell'arte, per riuscire a illuminare i meccanismi del genio. A tale scopo l'autore esamina anche i “disegni dei bambini e dei primitivi”, ne rileva le differenze e constata che hanno in comune un certo “disprezzo” della realtà: non mirano a “evocare le forme in sé, ma solamente la loro idea”.


​HANS PRINZHON

​Hans Prinzhorn, che lavorava presso la clinica universitaria di Heidelberg, scrisse un testo dal titolo Espressioni della follia pubblicato nel 1922. Prinzhorn apprezzava l'arte del suo tempo e incoraggiava i malati a esprimere sé stessi mediante la pittura e la scultura. Dalle sue analisi emersero temi comuni:
​

E' assai proficuo rilevare i tratti comuni alla sensibilità artistica contemporanea. Constatiamo infatti che l'avversione a un'idea semplicistica del mondo, un disconoscimento sistematico delle apparenze esteriori alle quali l'arte occidentale era rimasta da sempre fedele, in definitiva un deciso ritorno all'Io, sono i tratti fondamentali della nuova ricerca artistica. Ebbene, tali termini ci sono stati resi familiari grazie agli sforzi dello schizofrenico per descrivere il suo sentimento del mondo.


​ARTE E FOLLIA

​Il libro e i lavori di Prinzhorn testimoniano sia una approccio nuovo alla creatività, destinato a propiziare sia una maggiore comprensione dell'arte moderna, sia un mutato atteggiamento nei confronti della follia. Ne seguirono mostre, attentamente visitate dagli artisti, in particolare gli espressionisti tedeschi. E ne seguì un maggiore interesse per l'arte dei malati di mente.

Artisti e poeti hanno sempre manifestato, dunque, interesse per le opere prodotte da una creatività sregolata, ma nessuno è mai sembrato preoccuparsi della loro conservazione. Possiamo vedere ancora oggi i disegni spiritici di Victor Hugo o le figure scolpite nel granito dall'abate Adolphe-Julien Fourè sulla scogliera di Rothéneuf perché molto resistenti, ma la maggior parte delle opere marginali è scomparsa. Le collezioni psichiatriche, in questo senso, hanno avuto un ruolo determinante.


​DUBUFFET E L'ART BRUT

​Jean Dubuffet ne visitò parecchie quando pensava di scrivere un'opera sulle creazioni degli irregolari. Dopodiché il suo progetto iniziale si modificò. E il pittore decise di farsi promotore di una collezione che consentisse la conservazione e lo studio dell'art brut, che egli definì questi termini:

Noi intendiamo con ciò opere eseguite da persone prive di cultura artistica, nelle quali il mimetismo, contrariamente a quanto accade negli intellettuali, ha dunque scarsa o nessuna importanza, dal momento che i loro autori attingono tutto quanto (soggetti, scelta dei materiali adoperati, mezzi di trasposizione, ritmi, modelli di scrittura, ecc.) dal fondo di se stessi e non dagli stereotipi dell'arte classica o dell'arte alla moda. Noi assistiamo qui all'atto artistico assolutamente puro, bruto, reinventato dall'autore nella totalità delle sue fasi, muovendo unicamente dai propri impulsi. Arte, dunque, dove si manifesta la sola funzione dell'invenzione e non quella, costante nell'arte colta, del camaleonte e della scimmia.

L'arte accademica, in quanto tecnica, veniva messa al bando. Si favorivano al contrario, quei gesti artistici scaturiti da nessuna mediazione, dove erano gli impulsi ad essere il motore scatenante, divenendone cosi sia il punto da cui si originava certa arte, sia il significante dell'arte stessa. Si parte dagli istinti per spiegarli e conoscerli.
​
​
​​
Fonti

1 M. Réja, L'art chez les fous (1907), Z' éditions, Nice 1994
2 H. Prinzhorn, Expressions de la folie (1922), Gallimard, Paris 1984
3 Cfr. D. Riout, in Riferimenti e modelli, in L'arte del Ventesimo secolo. Protagonisti, temi, correnti, Einaudi, Torino 2002
4 J. Dubuffet, L'art brut préféré aux arts culturels (1949), in L'homme du commun, Museum of Fine Arts, Montreal, 1970


gb 
​



ApprofondiMENTI
QUEER E ARTE


QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | ART BRUT
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | DUBUFFET E LE SORTI DELL'ART BRUT
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | IL BRUTTO E LE AVANGUARDIE
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | CORPO, RITO, AKTION

QUEER E ARTE                                                      PRIMO NOVECENTO                                                ART BRUT

1/3/2022

 
Foto
Adolf Wolfli | Musicisti, 1913


​ACCOGLIERE LA VITA   

​La riflessione sul brutto si sviluppa quando il concetto di bello e la sua definizione vengono messe in discussione e al brutto è riconosciuto un “significato estetico”. Si rivendica, dunque, la positività di determinati valori che fanno capo al brutto acquisendo lentamente una propria autonomia, fino ad essere inserito a pieno titolo in un sistema pluricategoriale.

In effetti dopo il Romanticismo - a cavallo fra Ottocento e Novecento – l'arte non può più venire equiparata all'inestetico o all'extra estetico (vedi Il brutto e le avanguardie). Come ricorda Dessoir “nella violenta rottura delle norme di ogni grandevolezza e di ogni superficiale appagamento formale si svela “un regno che non è di questo mondo”. Il brutto prende il significato di “espressivo”, come positivo valore estetico, contro un bello che nell'armonia delle sue forme e nell'equilibrio dell'apparenza, si fa superficiale conciliazione e non permette di guardare in faccia alle cose”.

Il brutto diventa, per usare un'espressione di Feldman, “una vera struttura del mondo” e l'arte che non fa consistere la propria dignità nella cesura o nella neutralizzazione del brutto o del negativo in generale, recupera la propria vitalità proprio attraverso un confronto costante e proficuo con le tematiche del deforme, del mostruoso e della caricatura.


​IL BRUTTO ESTETICO

Non l'esorcizzazione del brutto, ma una sua attenta analisi mette in discussione i limiti e il significato dell'arte e il ruolo del bello. A partire dal Romanticismo l'arte ha ricercato una molteplicità di strade possibili in una continua messa in discussione del proprio statuto. Dunque l'oggetto artistico si vanifica perdendo la propria identità categoriale e il suo ordine antico. All'interno dei suoi eterogenei sviluppi, l'arte accoglie la vita, ma nello stesso tempo disgrega fino a invadere campi che non le appartengono. Anche i contenuti perdono il loro riferimento a valori universali e rimandano l'arte nella causalità del quotidiano, nella soggettività delle singole passioni ed emozioni.

Per questo, concettualmente, all'interno dell'Art Brut rientrano un variegato gruppo di opere, espressioni di propri, autonomi, criteri estetici, e non è possibile paragonare l'Art Brut a un movimento o a una corrente artistica. Il creatore d'Art Brut, per definizione marginale e autodidatta, elabora una sintassi tematica, iconografica, stilistica e tecnica, che testimonia una peculiare inventiva e uno spirito indipendente.


​ESTETIZZARE L'OSCURITà

​Lavora in solitudine e nell'anonimato, come se stesse compilando le pagine di un personale diario intimo. Idealmente ignora l'esistenza di un potenziale destinatario ed è totalmente svincolato dall'aspettativa di un riconoscimento sociale. Non è neppure consapevole di operare nel contesto della creazione e la sua produzione si compie al di fuori di un qualsiasi ambito istituzionale. Potremmo dire che il suo operare non è mediato, se pur non totalmente, dalla cultura.

Proprio questa assenza di informazioni permette loro di sperimentare tutte le potenzialità espressive del proprio processo creativo. La creazione, nell'Art Brut, raggiunge la sua massima intensità generando un'“esteriorizzazione dei moti d'umore più intimi e più profondi dell'artista”. L'indagine rivolta all'essenza “degli strati più nascosti” della personalità, impegna Wolfli o Jeanne Tripier a confrontarsi con le sfere più oscure dello stato selvaggio e della violenza.


DEVIANZA E ROTTURA

​Descritti come autori o persone, le produzioni di Art brut sono qualificate come opere o come lavori. Questo vocabolario si differenzia, volutamente, dalla terminologia tradizionale che mette in primo piano i maitre (maestri) e i loro chefs-d'oeuvres (capolavori).

I principali protagonisti dell'Art Brut saranno Adolf Wolfli, Heinrich Anton Muller e Aloise e le loro opere costituiranno il nucleo fondamentale delle collezioni di Dubuffet. L'eclettismo che caratterizza tali collezioni dimostra quanto le “direttive” dell'Art Brut non fossero ancora definite. Inizialmente le sue scelte riflettono ancora i gusti e gli interessi degli intellettuali dell'avanguardia europea. Tuttavia è già possibile scorgervi una chiara predilezione per le creazioni di carattere deviante ed estranee alle norme dettate dalla tradizione estetica occidentale.

L'
Art Brut precedeva, dunque, il concetto stesso e la sua definizione e la nascita della nozione fu postuma all'esistenza delle opere. Questo duplice paradosso era intrinsecamente legato al particolare concetto dell'Art Brut e, in sostanza, costituì il primo segno di una rottura nell'ambito culturale occidentale.


ART BRUT OGGI

Adolf Wolfli, Aloise o Podestà, ci informa Lucienne Peyri, non rappresentano soltanto le loro biografie o le loro memorie, anche se lavorano in uno stato di assoluto ripiegamento su se stessi. Essi danno anche prova di un vero superamento e di una sublimazione della loro personalità, realizzando una produzione tutta visionaria.

Per questo, continua Peyri a proposito della Art Brut di oggi: “La crociata che aveva condannato tutta l'arte moderna e contemporanea a favore dell'Art Brut non avrebbe più senso oggi. La tendenza dualistica e ieratica, che considerava la prima come espressione di una creazione intellettuale e sofisticata e la seconda come espressione della purezza emozionale e primitività naturale, non si rivela soltanto non pertinente, ma totalmente sbagliata. Le produzioni dell'Art Brut sono certamente cariche di emozione ma scaturiscono anche da una elaborato sistema espressivo.”

L'autore di Art Brut, oggi, si situa dunque a mille miglia dall'innocenza e dall'inesperienza che si ricercavano alle origini del movimento. Il suo impegno personale – spesso le opere vengono realizzate nel corso di molti anni – così come il suo spirito contestatario, umoristico, che sfocia nella parodia, ne sono una prova evidente. Infatti le opere di Hofer, Mets o Santoro si rivolgono allo sguardo dello spettatore stimolandolo tanto sul piano emozionale quanto su quello intellettuale.
​
​

Fonti

1 Cfr. E. Franzini, M. Mazzacoult-Mis, in Brutto. Un valore estetico positivo, 2010
2 M. Dessoir, Estetica e scienza dell'arte, L. Pennecchi, G. Scaramuzza, Unicopli, Milano 1986
3 V. Feldman, Estetica francese contemporanea, a c. e trad. it. di D.Formaggio, Minuziano, Milano 1945
4 K. Rosenkraz, Estetica del brutto, Aesthetica, Palermo 2004, p. 36; si veda anche T.W. Adorno, Teoria estetica, a cura di G. Adorno e R. Tiedemann, trd. it. di E. De Angeli, Einaudi, Torino 1981
5 L. Peiry, in L'art brut, in Arte, genio Follia. Il giorno e la notte dell'artista, catalogo della mostra (31 gennaio-25 maggio), Mazzota, Siena, 2009
6 J. Dubuffet, Honneur aux valeurs sauvants, in Prospectus et tous écrits suivants, 1967
​

gb



​ApprofondiMENTI
QUEER E ARTE

​

QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | BUBUFFET E LE SORTI DELL'ART BRUT
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | IL BRUTTO E LE AVANGUARDIE
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | ART CHEZ LES FOUS
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | CORPO, RITO, AKTION

QUEER E ARTE                                                        2000                                                                  ARTE E PRIVATO

1/3/2022

 
Foto
Tracey Emin alla sua personale "Tracey Emin ‘My Bed’/JMW Turner" al Turner Contemporary, 2017 ph Stephen White
​Il ​secolo scorso, come si è visto, si è concluso con un’esaltazione degli aspetti noir, terrifici e violenti di un’espressività che sembrava compiacersi della cinica negatività di cui è impregnato il mondo. Sembra che il rischio, che confina con la morte, o quanto meno con il danno, la menomazione, la consapevolezza e l’esibizione dell’orrido, siano l’unico fattore di attrazione per una umanità collassata, sopraffatta dalla tecnologia, incapace di opporvi la barriera di ragione e sentimenti.

Oggi l’Arte mostra altri segnali e quelli funerei degli anni Novanta si modificano in nuove modalità di comunicazione. L’Arte, come le vicende umane, trascolora di continuo, cogliendo i passaggi, le sfumature o le contraddizioni dei nuovi scenari socio-politici che si configurano nel pianeta.


​MY BED

Un'opera che può essere presa a simbolo di questo nuovo millennio è My bed di Tracey Emin. Creato per la prima volta nel 1998, è stato esposto alla Tate Gallery nel 1999 come una delle opere selezionate per il Turner Prize.

Nonostante non abbia vinto, My bed ha generato un notevole clamore fra media e critica, dal momento che le lenzuola erano macchiate di secrezioni corporee e il pavimento conteneva oggetti della stanza dell'artista, come bottiglie di vodka, preservativi usati, biancheria intima con macchie di sangue mestruale, test di gravidanza e oggetti di uso quotidiano. Presentato al pubblico esattamente nello stato in cui l'artista lo aveva lasciato dopo diversi giorni di profonda depressione:

“Nel 1998 mi lasciai con il mio compagno e trascorsi quattro giorni a letto, a dormire, in uno stato di semi incoscienza. Quando mi svegliai, mi alzai e vidi tutto il caos che si era ammassato dentro e fuori dalle lenzuola.”


​la sfera pubblica del privato

L'opera, ci dice Jean Clair, è stata acclamata per la sua “valenza realistica”. Ma la domanda, legittima, che insieme ad Angela Vettese ci si pone è, perché dovremmo interessarci dell'intimità e privacy altrui?

Certo, in una società votata all'immagine e ad un voyerismo patologico, le risposte possono essere tante, ma se l'Arte, come nel caso della Emin, deve avere un fine sociale è necessario che entri nel personale, e che questa dimensione privata, gestita ad arte, diventi pubblica. Diventi, cioè, simbolo di qualcos'altro. 


La provocazione, la trasgressione, lo scandalo, non sono espedienti d’avanguardia, sono necessità per ribaltare l’ovvietà del senso comune, per insinuare in un pubblico sempre più appiattito dalla colonizzazione televisiva, riletture non convenzionali delle cose del mondo. É il dolore, più dell'amore nell'evo contemporaneo, ad unire gli esseri umani. E il dolore fa regredire.

Molti degli artisti emersi negli anni Zero ruotano attorno al tema pulsante del corpo, del sesso e delle trasgressioni ad esso connesse, penetrando in quel privato che la cultura convenzionale impedisce di affrontare con naturalezza.1 L’impulso psicanalitico da cui discendono queste operazioni comporta l’appropriazione del lato negativo dell'esistenza per liberarsene.

È il nuovo “urlo” dell’artista-uomo contemporaneo, che nello smarrimento generale, vuol far sentire la sua voce, al di sopra delle regole prestabilite. Come Munch, sullo scorcio del XIX secolo ha urlato la propria solitudine all’indifferenza del mondo.



Fonti

M. Campitelli, in Il corpo, il sesso, l'anomalia, presentazione della mostra Shock & Show, 2002
M. Campitelli, in Gotico, avanguardia, l'urlo, presentazione alla mostra Shock & Show, Trieste 2002
J.Claire, La responsabilità dell’artista, le avanguardie tra terrore e ragione, Allemandi 1998

Gb 
​



approfondimenti
queer e arte


QUEER E ARTE | 1990 | REGRESSIONE E ABBIETTO
QUEER E ARTE | 1980 | ART&AIDS
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | CORPO, RITO AKTION
QUEER E ARTE | NOVECENTO | ARTE E COMPORTAMENTO

QUEER E ARTE                                                    SECONDO NOVECENTO                                      GÜNTER BRUS

1/3/2022

 
Foto
Günter Brus | Zerreissprobe, 1970


​VIENNA 

L'Austria, all'inizio degli anni cinquanta, si scandalizzò per il comportamento di un giovane artista, Arnulf Rainer. Fondatore di un gruppo effimero, lo Hundsgruppe (Gruppo del cane, 1950), si lasciava andare a discorsi aggressivi e non disdegnava l'abbaiare, tanto da suggerire accostamenti con le strategie sovversive dei cinici greci. Come i filosofi della scuola cinica che s'appellavano al comportamento canino e si lasciavano andare in pubblico ad atti contrari alla morale comune, gli artisti dello Hundsgruppe non risparmiavano sberleffi e provocazioni. Pur sempre artista, egli proclamava di disprezzare l'arte, banale surrogato in un mondo privato dei valori fondamentali. A questo proposito lui stesso scriverà nel 1952:
​
I quadri, le poesie, le idee, i discorsi sono solo la schiuma, la fermentazione, il cascame, la cenere, il tentativo assurdo di ritrovare questo contatto con l'estasi del vissuto (…) Sono solo tentativi impossibili di provocare qualcosa, una maniera deviata per la nostra razza peccatrice di realizzazioni in parole e non nel silenzio. Sono solo concessioni al nostro mondo corrotto di cui proviamo vergogna. 


​PROVOCARE SENSAZIONI INTENSE

Nei primissimi anni Sessanta Gunter Brus, figlio di quella tradizione, voleva andare oltre il quadro, per farne un brandello di mondo. Un mondo che, nota l'artista nel suo diario, deve però includere il grido, il sonno, la zuppa di fagioli, il bassotto a pelo lungo, il tifone, la melodia infinita, ecc., insomma la vita in tutti i suoi aspetti. Nell'autunno del 1964 Gunter Brus diede avvio a una serie di “azioni” nelle quali dipingeva sé stesso oppure faceva sul suo corpo un collage di diversi oggetti legati a sensazioni di pericolo e dolore, come per esempio una zappa, una sega, dei chiodi o puntine da disegno. 

Nel 1965, come un tableau vivant, cammina per le strade di Vienna con il corpo coperto di biacca e diviso in due da una linea nera irregolare. Il giorno dopo, in occasione del vernissage della sua mostra Malerei-Selbstbemalung-Selbstverstumme-lung (pittura, autopittura, automutilazione), dà vita alla prima azione alla presenza del pubblico. Da questo momento definirà il suo lavoro arte diretta, riferendosi alle dinamiche che subentrano ed che esasperano le azioni, che ora si svolgono anche e per lo più davanti ad un pubblico, provocando sensazioni sempre più intense, fino all'auspicato shock. 


URINE AUTOMUTILAZIONI ONANISMO

La sua partecipazione al Destruction in Art Festival, organizzato nel 1966 da Gustav Metzger, portò alla consapevolezza che l'elemento demolitorio, l'atto distruttivo sarebbe stato un tema ricorrente, e integrante, di tutta una serie di azioni in cui metteva a dura prova sé stesso e il pubblico.
​
Nel 1968, invitato a Aix-la-Chapelle, Gunter Brus, realizza Der helle Wahsinn. Con La follia pura, l'artista urina e defeca davanti al pubblico, incidendosi la pelle con un rasoio. L'analisi corporea, dirà Brus, non ha bisogno della simbolica, è ormai il corpo stesso, con le sue funzioni, reazioni ed escrementi, a costruire il medium. Con Follia pura comincia a usare il corpo in maniera ancor più radicale, con allusioni a scenari di automutilazioni e sofferenza, inscenando funzioni corporee sessualmente connotate e tabù. Di fronte a questa drammatica evoluzione si potrebbe ampliare l'equazione posta da Brus “autopittura = automutilazione superata” con l'analogia “analisi corporea = autodistruzione superata”. 


ANALIZZARE IL CORPO

La violenza sul corpo raggiunge il culmine in occasione della mostra Kunst Und Revolution, organizzata da Brus e Muhl all'Università di Vienna il 7 giugno 1968. Invitati da un gruppo di studenti socialisti, i due provocano il caos. Muhl legge un pamphlet e frusta un masochista. Un filosofo tiene una conferenza. I membri del Direct art Group organizzano un concorso: chi piscia più lontano? Brus si spoglia, si produce dei tagli ai fianchi, raccoglie la propria urina nella mani e la beve. Defeca e insozza il suo corpo con i propri escrementi, per sdraiarsi sul pavimento e masturbarsi intonando l'inno nazionale austriaco. I due, saranno condannati dal tribunale a una pena detentiva e ripareranno a Berlino.

​Qui, nel 1969, Brus realizza, Analisi corporea 1. Si tratta di un processo di ritrovamento che viene fissato con la macchina fotografica e questa volta anche su cinepresa. Diversamente dal gesto pittorico di Autopittura 1 e dalla simbologia allora ancora presente nel linguaggio materiale, ora Brus impiega segnali riferiti direttamente al corpo e alle sue funzioni. Arte diretta, in questo caso, significa superare ciò che nell'arte ha il ruolo di rappresentare, di fare le funzioni di qualcosa.
 
Con l'azione Prova di lacerazione (Zerreißprobe) Brus, nel 1970, conclude la fase dimostrativa della propria autoanalisi, ponendo fine all'azione corporea e preferendo forme espressive che maturano nella discrezione dell'atelier, come la letteratura e il disegno, compiendo, con Fuoco Fatuo, un passo in avanti nella sua ricerca.


Fonti
​

J.Claire, De Immundo, trad. it. di P. Pagliano, Abscondita, Milano 2005
A. Rainer, La peinture pour quitter la peinture (1952), in Arnulf Rainer, catalogo della mostra, Centre Pompidou, Paris 1984
T.Binkley, <<Pièce>>. Contre l'esthétique, in Esthétique et poétique, Seuil, Paris 1992
H. Klocker, Wiener Aktionismus, Wien, 1960-1971, in Genio e follia, 2009
G. Brus, citato in Gunter Brus. Limite du visible, catalogo della mostra, Centre Georges Pompidou, Le Centre, Paris 1993

gb 
​



ApprofondiMENTI
QUEER E ARTE

​

QUEER E ART | SECONDO NOVECENTO | HERMANN NITSCH
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | CORPO, RITO, AKTION
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | ART CHEZ LE FOUS
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | IL BRUTTO E LE AVANGUARDIE

QUEER E ARTE                                                        SECONDO NOVECENTO                                              ARTE SENZA VALORE (SOCIALE)

1/3/2022

 
Foto
Fuck face | Jake&Dinos Chapman, 1994


​arte senza valore

Jean Clair è il critico al quale spetta l'aver analizzato meglio questo tipo di arte, di aver individuato il suo stare al centro entro qualcosa di sacro e di sacrilego, l'averle concesso una sorta di potere catartico: quello di sublimare i tanti bisogni e desideri, che nell'insieme compongono la nostra vita individuale, ed il nostro vivere associati. All'interno di una dimensione pubblica, spesso volta, nella pratica, alla disfunzione di tale equilibrio.

L'arte attuale, così come la storia artistica degli anni Novanta, mette in scena il disagio dell'uomo contemporaneo, che si trova perso entro i mille ruoli che la società impone, perdendo di vista, così, la sua vera identità. Perde il contatto non solo, banalmente, con sé stesso, ma viene meno quella consapevolezza che l'uomo è un animale, evoluto certo, ma pur sempre tale.
​

Come Renato Barilli, il critico francese, per interpretare quest'arte, interroga, sbagliando, il corso lineare della storicizzazione artistica. Se il primo pone Duchamp come avo lontano di tale arte, il secondo fa riferimento a Salvador Dalì. Tutti e due, questa volta in accordo, pongono come esponente centrale di questa corrente visiva, Jeff Koons. Se Barilli, in Uomini e oggetti dopo Duchamp “catturava” lo spirito del tempo, constatando la capacità dell'uomo contemporaneo di abituarsi a tutto, Jean Clair, nel suo Jeff Koons e i suoi fratelli quell'arte senza valore (sociale) va oltre e addirittura si chiede:


Che senso ha? E soprattutto perché i poteri pubblici ormai sono felicissimi di mostrare e sovvenzionare queste imprese cosiddette "artistiche"? Perché il 'socius' ha bisogno di ricorrere a questo espediente (cosiddetto) estetico quando il suo ordine non è più accettato consapevolmente, né nell'ambito religioso né nell'ambito politico? È forse l'ordine scatologico che può garantirci questa coesione mancante? Sarei tentato di fare riferimento a Giorgio Agamben, e in particolare al suo Homo sacer (l'uomo sacro, la nozione di sacer nell' antichità romana, lo status particolare dell'homo sacer) e di tornare alla vecchia distinzione aristotelica tra zoè e bios: bios la vita intelligente, la vita degli esseri logici, e zoè la vita primitiva, la vita animale, la vita bestiale.

Nonostante tali intuizioni il Clair non sembra apprezzare queste espressioni artistiche. In primo luogo mettendo come sotto titolo al sul articolo “quell'arte senza valore (sociale)”, forse a sottolinearne la fortuna nel mercato dell'arte, e non riconoscendo in questa creatività, nessuna tematica intrinseca. In secondo luogo, Clair, ironizza su queste “imprese cosiddette artistiche” che usano “espedienti estetici”, sottolineando, ancora una volta, come il gusto d'oggi, sia plasmato dalla presenza imperante dell'ideale di un'arte che deve essere, bella, o nei migliori dei casi, appagare solo il senso della vista.


​arte e politica

A questo punto risulta utile analizzare meglio il contesto artistico della fine degli anni Novanta e prendere atto dei possibili risvolti negativi che quest'arte può assumere: dalla perdita della purezza originaria e contestatrice dei primi artisti, financo coincidere con un arte che dal sistema stesso è prodotta, piuttosto che ostacolarlo o volerlo migliorare. Negli ultimi anni, infatti, si è potuto notare come particolari identità politiche, nelle loro strategie di crescita sociale, abbiano usato e incentivato lo sviluppo di certa arte contemporanea.

Nel corso del postmoderno maturo l'arte contemporanea diviene sempre più un veicolo di commercializzazione proprio come fosse un «logotipo», un enorme spot testimoniale di una identità politico-sociale proiettata in ambito internazionale. Attraverso l'arte si manifestano apertamente nuove tendenze politiche, nuove identità.

Se questo implica una necessaria rivalutazione del soggetto «arte» nel novero delle attività fondamentali, dall'altra parte questo ha significato anche un diretto asservimento di quest'arte «prescelta» ai motivi ed alle dinamiche utilizzabili dal sistema di potere in atto. Non si tratta di questioni da poco conto.


​Quale credibilità di denuncia può avere infatti quest'arte programmaticamente sostenuta - a partire proprio dalla fine del decennio - dal sistema sociale che essa stessa dovrebbe in qualche modo criticare?

gb



approfondimenti
queer e arte


QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | IL KITSCH
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | IL CAMP
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | ART BRUT
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | IL BRUTTO E LE AVANGUARDIE

QUEER E ARTE                                                        SECONDO NOVECENTO                                      KITSCH | JEFF KOONS

1/3/2022

 
Foto
Jeff Koons 2021 | ph Cindy Ord/Getty Images for Qatar Museums
Jeffrey Koons, conosciuto come Jeff Koons, è l'artista statunitense noto per le sue opere di gusto kitsch, che illustrano ironicamente l'american way of life e la sua tendenza al consumismo[2]. Considerato un'icona dello stile neo-pop e riconosciuto fra gli artisti più ricchi del mondo, Koons oltre all'arte coltiva il culto della propria immagine. Il suo volto, il suo corpo, sono diventati, nello stesso tempo, parte delle sue opere e un brand riconoscibile.

Nato nel 1955 a York, Pennsylvania, si forma al Maryland Institute College of Art di Baltimora e alla School of the Art Institute di Chicago. Dalla prima mostra personale nel 1980, le sue opere sono state esposte nelle principali gallerie e istituzioni di tutto il mondo. Nel 2014 il Whitney Museum of American Art lo ha celebrato con Jeff Koons: A Retrospective, ospitata poi dal Centre Pompidou di Parigi e dal Guggenheim Museum di Bilbao. A cavallo fra il il 2021 e il 2022 la Fondazione Palazzo Strozzi ospita Shine con opere dagli anni Settanta fino alle produzioni più recenti.


​vANITY fAIR


Le serie Statuary o Luxury & Degradation, in cui oggetti banali come un mobile bar da viaggio o un comunissimo gadget da pochi soldi venivano fusi in acciaio inossidabile, il gioco era più raffinato e perverso: un tipo di lavorazione comunemente usata nella produzione di massa diventa ultracostosa se limitata a pochi esemplari. Dopo l’età dell’acciaio, nel 1988 venne quella delle porcellane lavorate con le stesse tecniche utilizzate dagli artigiani settecenteschi e dei legni scolpiti e dipinti da maestranze bavaresi della serie Banality, un mondo di pantere rosa, orsetti natalizi, santi e porcellini che da soprammobili di pessimo gusto diventavano monumentali totem del kitsch sotto lo sguardo assente del più famoso di loro, Michael Jackson ritratto con il suo amatissimo scimpanzé Bubbles.

Ma in Koons c’è ancora, in quei primi anni Ottanta, il desiderio di stupire lo spettatore anche ricorrendo alla magia della scienza, della fisica, della chimica. Per la serie One Ball Total Equilibrium Tank l’artista consulta il fisico Richard P. Feynman per mantenere in sospensione nel suo «liquido amniotico» un pallone da basket racchiuso in un acquario. Koons ha dichiarato che i palloni da basket gli evocano «qualcosa di molto, molto puro, proprio come sarebbe un embrione e l’acqua nell’utero».

La chimica gli sarebbe tornata molto utile più tardi, nella definizione della densità e delle cromie delle patine delle sue sculture gonfiabili e dei dipinti prodotti conpulsalmente nel suo studio. La serie Made in Heaven ad sempio, i poster, le sculture e i dipinti nei quali l’artista mette in scena un tenero kamasutra con Ilona Staller, la pornostar che di lì a poco sarebbe diventata sua moglie, non gli procurò l'accoglienza sperata alla Biennale di Venezia del 1990 e il successo agognato sul mercato dell'arte.


​ARTE O MERCATO?

Ispirata al consumismo e alla banalità della vita moderna, ma anche a considerazioni filosofiche, l'arte di Jeff Koons asseconda la tendenza della cultura e della società occidentale, tra Ventesimo e Ventunesimo secolo, di tentare di superare il divario fra le classi e, dunque, il superamento dell'ingiustizia sociale. A tal fine, è necessario che il confine tra la cosiddetta cultura alta - patrimonio della upper class - e la cosiddetta cultura bassa, popolare, che comprende anche la categoria del kitsch - patrimonio della middle class - venga infranto. Questo è l'obiettivo che Koons, sull'esempio della recente tradizione della pop art, si era proposto di raggiungere centrando l'obbiettivo. In Contemporanea: arte dal 1950 a oggi si legge:


«...(Jeff Koons) mette a nudo il lato kitsch del nostro attaccamento all'oggetto. Egli afferma che la sua opera aspira a comunicare con le masse attraverso un vocabolario visivo estrapolato dalla pubblicità commerciale e dall'industria dell'intrattenimento, portando al limite estremo il confine tra linguaggio artistico e cultura popolare.»

​
Portare l'arte verso il popolo è propedeutico, per Koons, a produrre una condizione di totale sicurezza. Chiunque, a qualsiasi ceto appartenga, visitando ad una sua mostra, dovrebbe trovarsi in uno stato di non conflittualità e di appagamento. L'esperienza artistica, così concepita, fa pensare ad una società utopica e totalmente pacificata in cui tutti, singoli e gruppo, potranno trovarsi in una condizione che Koons definisce entropica:

«L'individuo all'interno di questa società vivrà in uno stato di entropia, di riposo, e abiterà un ambiente decorato con arte oggettuale al di là di qualsiasi dialogo critico.»




​
Fonti
traduzioni di Davide Monetto

Franco Fanelli, Jeff Koons, il mormone pornografo, Il giornale dell'arte, 23 dicembre 2021
Judy Collischan, Made in the U S A: Modern/Contemporary Art in America, iUniverse, 2010
Schjeldahl, Peter. "Funhouse – A Jeff Koons retrospective", The New Yorker, June 9, 2008
Francesco Poli, Contemporanea. Arte dal 1950 a oggi, Mondadori, 2008
Eric Shanes, Pop Art, Gribaudo, 2007
Sarah Cosulich Canarutto, Jeff Koons, Mondadori Electa, 2006
New York, New York, su repubblica.it, La Repubblica, 5 agosto 2006
Barbara Bolt, Art Beyond Representation: The Performative Power of the Image, I.B.Tauris, 2004
​Lara Vinca Masini, Dizionario del fare arte contemporaneo, Universale Sansoni, 1992
Giancarlo Politi, Jeff Koons, in Flash Art, volume 141

Gb 
​



approfondimenti
queer e arte

​
​

QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | IL KITSCH
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | IL BRUTTO E LE AVANGUARDIE
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | CORPO, RITO, AKTION
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | ART BRUT

QUEER E ARTE                                                        1990                                                          REGRESSIONE E ABBIETTO

1/3/2022

 
Foto
Paul McCarthy | Mixed Bag, 2019


​REGREDIRE

Durante il corso degli anni Novanta si è approfondito quel ritorno al reale che Hal Foster intravide già alla fine degli anni Ottanta e che lo indusse a parlare di un'arte che, proprio per la tendenza a non nascondere nulla, poteva diventare pornografia, necrofilia, segnata dall'impudenza e quindi persino “abbietta”.

Rivedendo l'arte degli anni Novanta ci si stupisce delle tante figure di psiche frustrata e corpi feriti, ma bisogna ricordare (come si è fatto in Art&Aids) che fu un periodo di grande risentimento e disperazione per la persistente crisi del virus dell'HIV, la sconfitta dello stato assistenziale, nonché per la povertà crescente. In questo periodo molti artisti misero in scena la regressione come espressione di protesta e di sfida, spesso in forma di performance, video e installazioni.

L'Arte è invasa di avvilimento e rigetto, di confusione, di sporco ed escrementi. Condizioni e sostanze che si oppongono all'ordine sociale e se leggiamo Il disagio della società (1930), Freud afferma, confermando, che la civiltà si fonda sulla rimozione del corpo basso, dell'analità e dell'olfatto, e sul privilegio del corpo eretto, della genitalità e della vista.


E' come se questo tipo di arte cercasse di rovesciare la civiltà, per annullare rimozione e sublimazione attraverso un'ostentazione dell'anale e del fecale. Questa sfida, rappresenta una corrente sotterranea nell'arte del XX secolo: dal manichino da caffè di Duchamp, passando per la merda in scatola di Pietro Manzoni, fino alle pratiche di Kelley e Miller, con cui diventa autocosciente.


Miller e Kelley


“Parliamo di disobbedienza”, dice uno striscione fatto in casa da Kelley, “Me la faccio addosso e ne vado fiero” recita un altro. Per quanto patetica, questa sfida può anche essere perversa: una distorsione delle leggi delle differenze sessuali, una messa in scena delle regressione a un universo anale dove la differenza in quanto tale è oscurata.

Per esempio, in Dick/Jane (1991) Miller sporcò di marrone una bambola bionda con gli occhi azzurri e la seppellì fino al collo in qualcosa che assomigliava a degli escrementi. Personaggi familiari della vecchia scuola elementare, “Dick” e “Jane” insegnarono a una generazione di bambini americani a leggere – e a leggere le differenze sessuali. Nella versione di Miller, Jane è trasformata in un composto fallico e affondata in un tumulo fecale. La differenza tra maschi e femmine è cancellata e sottolineata allo stesso tempo, come la differenza tra bianco e nero. In questo modo Miller crea un mondo anale che testa i termini convenzionali della differenza: sessuale e razziale, simbolica e sociale.

Anche Kelley, spesso, colloca le sua creature in un universo anale. “Noi interconnettiamo tutto, creiamo un campo”, ha fatto dire Kelley dal coniglio all'orsetto, in Teoria, spazzatura, animali di pezza, Cristo, “così non c'è più nessuna differenziazione.” L'artista esplora lo spazio dove i simboli si mescolano, dove “i concetti feci” (denaro, dono), bambino e pene sono a malapena distinti l'uno dall'altro”, come scrisse Freud sullo stadio anale. Kelley partecipa a questo stato di cose non tanto per celebrare l'indistinzione materiale, quanto per mettere in crisi la differenza simbolica. Lumpen, la parola tedesca dalla quale viene Lummpenproletariat (“il rifiuto, la feccia, la schiuma di tutte le classi che interessò Karl Marx), è un termine cruciale nel lessico di Kelley, una sorta di sinonimo di abbietto.

La sua arte è infatti caratterizzata da forme
lumpen (animali giocattolo sporchi legati insieme in masse deformi, tappetini sporchi gettate sopra forme disgustose), temi lumpen (immagini di sporco e spazzatura) e personaggi lumpen (uomini disfunzionali che costruiscono nei semi-interrati e nei giardinetti dietro casa bizzarri congegni con pezzi presi da chi sa dove). Un'arte di oggetti ed esseri degradati che resistono ad una modellazione formale, e ancor più ad una sublimazione culturale o un riscatto sociale.




Ritorno all'infanzia

​
Alcuni artisti, invece, sembrano oggettivare, attraverso le loro opere, le fantasie proprie di un bambino. Per esempio, nelle sue installazioni Rona Pondick ha costruito dei teatri quasi infantili di pulsioni orali-sadiche, non solo in Bocca (1992-93), una moltitudine di bocche sporche con denti disgustosi, ma anche in Latte latte (1993), un passaggio di rilievi mammari con capezzoli multipli.

Nel frattempo altri artisti hanno focalizzato la loro attenzione sugli effetti di tali fantasie. A
d esempio Kiki Smith ha sempre colato organi e ossa, come cuori, uteri, bacini e costole, in diversi materiali quali cera, gesso, porcellana e bronzo. Mossa inizialmente da un'autentica forza deflagrante incentrata sulle particolari sculture realizzate, Kiki Smith si è resa nota nei primi anni novanta grazie alla radicalità, quasi sgradevole, con cui ha osservato la natura umana e le sue forme, letteralmente rivoltandole quasi dall'interno all'esterno.
​


ABBIETTO
​


​“L'abbietto è una sostanza caricata psichicamente spesso immaginaria, che si situa tra qualche parte tra un soggetto ed un oggetto; ci è allo stesso tempo alieno ed intimo e svela la fragilità dei nostri limiti, della distinzione tra ciò che è all'interno o ciò che è all'esterno. L'abiezione cosi è una condizione nella quale la soggettività è messa in crisi, “dove i significati collassano”

 Julia Kristeva

​​

L'abietto è un concetto complesso sviluppato da Julia Kristeva nel suo libro del 1980 Powers of Horror. Si può dire molto semplicemente che l'abbietto consiste di quegli elementi, in particolare del corpo, che trasgrediscono e minacciano il nostro senso di pulizia e decoro.

L'abietto copre tutte le funzioni corporee, o aspetti del corpo, che sono considerati impuri o inadeguati per l'esposizione pubblica o per la discussione. Ma, sottolinea Jean Clair, il verbo abjicere significa anche rifiutare, vendere a basso prezzo, disfarsi di qualcosa. Insomma, abbietto è tutto ciò che si riferisce sia all'abbattimento che all'avvilimento, tutto ciò che ha a che fare con il campo della degradazione.


Nel 1993 il Whitney Museum di New York, ha allestito una mostra dal titolo Arte abietta: Repulsione e Desiderio nell'Arte americana, che ha dato il “nome” ad una corrente più ampia di cui Cindy Sherman, Louise Bourgeois, Helen Chadwik, Paul McCarthy, Gilbert&George, Robert Gober, Carolee Schneemann, Kiki Smith e Jake e Dino's Chapman e molti altri, sono visti come i fautori dell'abbietto in arte.

Con l'arte abbietta, scriveva Jean Clair, siamo un passo più avanti nell'immondo. Non siamo più nel subjectus del soggetto classico, siamo nell'abjectus, nel rigetto, nello scarto dell'umano postmoderno. È molto di più della tabula rasa dell'Avanguardia. È tutto ciò che si riferisce all'abbattimento, all'avvilimento, all'escrezione.

Questi fenomeni dell'arte attuale, da
McCarthy a Damien Hirst, sono una perfetta illustrazione di quello che il filosofo Marcel Gauchet chiama "l'individuo totale", vale a dire colui che ritiene di non avere nessun dovere nei confronti della società, ma tutti i diritti di un "artista", "totalitario" com'era un tempo lo Stato, in cui traspariva lo spettro del bambino che crede di essere onnipotente e di imporre agli altri, attraverso le istituzioni pubbliche, gli escrementi di cui si compiace.

Nell'arte attuale non faremo l'apprendistato del gusto, ma faremo il disapprendistato di quel disgusto inculcatoci fin dalla prima infanzia, per farci capire che tenere sotto controllo gli sfinteri è cosa importantissima.




Fonti
traduzioni di Davide Monetto

J.Claire, in Jeff Koons e i suoi fratelli quell'arte senza valore (sociale), traduzione di F. Galimberti, in “La Repubblica”, 25-9-2010
​J.Claire, De Immundo, trad. it. di P. Pagliano, Abscondita, Milano 2005
G. Dorfles, Ultime tendenze nell'arte di oggi, Feltrinelli, Milano 1999
H. Foster, The return to the Real, Mit press e October Books, Cambrige, 1996
Abject Art: Repulsion and Desire in American Art. New York: the Whitney Museum of American Art, 1993, curata da Craig Houser, Leslie C. Jones and Simon Taylor con i testi dei curatori e Jack BenLevi.
E. Sussman (a cura di), Mike Kelley: Catholic Tastes, Whitney Museum of American Art, New York, 1993
L. Shearer (a cura di), Kiki Smith, Wexner Center for the Visual Art, Columbus 1992
J. Kristeva, Poteri dell'orrore. Saggio sull'abiezione, Spirali, Milano 1980
Alla voce Abject Art, Glossario della Tate Modern New York http://www.tate.org.uk/collections/glossary/definition.jsp?entryId=7

gb 
​



approfondimenti
queer e arte


QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | CORPO, RITO, AKTION
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | POSTMODERNO
QUEER E ARTE | NOVECENTO | COMPORTAMENTO E ARTE
QUEER E ARTE | 1980 | ART&AIDS

QUEER E ARTE                                                        SECONDO NOVECENTO                                              VIENNA | CORPO RITO AKTION

1/3/2022

 
Foto
Günter Brus, Peter Weibel, Otto Muehl e Oswald Wiener | Kunst und Revolution, 1968


​REAGIRE AL MONDO

​Nel secondo Novecento, il corpo acquista sempre più potere all'interno del sistema dell'arte, divenendo mezzo - di denuncia - e fine insieme, con la comprensione di aspetti che la ragione, nel corso dei secoli, ha trattato come immonde, non appartenenti, cioè, al mondo che razionalmente aveva creato. Non si guarda più al mondo ma, adesso, si reagisce al suo contatto.

L'arte ha avuto a lungo per emblema l'occhio e il suo potere, dopo le guerre non è più la vista, il più intellettuale dei sensi, e appagarla non è nelle preoccupazioni degli artisti. Sarebbe la nausea a renderli lucidi e nella loro arte importante sarà il disapprendimento di quel disgusto pazientemente inculcato.

Se la lontananza dalla società era la caratteristica principale dell'Art brut, l'arte del corpo si proietta totalmente verso l'esterno. Il suo bersaglio diviene la società con i suoi finti valori, falsi profeti e infiniti tabù, facendo dell'arte il mezzo privilegiato per un ritorno all'ordine.


ARTE COME FETICCIO  

​Nell'arte del dopo guerra, il concetto di riti di passaggio formulato da Gennep, Lévi-Strauss e Turner è stato il punto di partenza di elaborazioni teoriche riguardanti la cultura e l'arte. Per riti di passaggio in etnologia si intendono gli adempimenti rituali con i quali si tenta di controllare e sostenere fasi di cambiamento rilevanti nell'ambito individuale e collettivo. Si parla di una fase di separazione, di una fase intermedia e infine di una fase di integrazione nella quale viene raggiunta un'identità nuova. E così nel processo creativo, all'inizio di un'opera artistica c'è spesso la dimostrazione, la trasvalutazione radicale dei valori, e, di conseguenza, un gesto grazie al quale si apre una nuova via.

Nel corso degli anni Sessanta le posizioni degli Aktionisten presentano strutture simili. Nei primi anni gli artisti si liberano di un concetto di arte tradizionale sentito come vuoto, e in una fase intermedia sperimentano la costruzione di un vocabolario performativo. Alla superficie figurativa gli Aktionisten muovevano la critica di essere un feticcio artistico a fondamento di una cultura della rappresentazione rigorosamente canonizzata.


SPERIMENTAZIONE

​E nel caso dei protagonisti viennesi questa dinamica prese avvio con la critica all'informale e al tachisme europei, e nel caso della scuola di New York, con un'estrema prosecuzione dell'action painting di Pollock.

Analogamente al gruppo giapponese Gutai,
anche ai Wiener Aktionisten riesce di ampliare, in modi espressivo-strutturali e rapportati al corpo, l'astrazione gestuale di Pollock (che già andava al di là della superficie figurativa), inserendola in uno spazio performativo, modificando il concetto di arte.

Questo mutamento di paradigma, dall'immagine all'azione corporea, tra il 1963 e il 1967 osserva una fase sperimentale di sviluppo di testi-immagine e forme d'azione individuale. Soprattutto in questo periodo, lo “sguardo chirurgico” dell'obbiettivo fotografico - come osservò Walter Benjamin -  fu impiegato come mezzo di controllo nello sviluppo delle strutture dei differenti linguaggi artistici. La cosiddetta “fotografia inscenata del Wiener Aktionismus” condusse ad affascinanti invenzioni figurative che ancora oggi influenzano le icone del dialogo tra arte figurativa, performance e fotografia.


​AGITAZIONE

​​Attorno al 1966, superata la fase sperimentale, gli artisti erano pronti per un ulteriore coinvolgimento pubblico e dopo la partecipazione al Destruction in Art Festival di Londra, tra il 1967 e i primi anni Settanta, aprirono la fase agitatoria, inserendosi come parte radicale all'interno del movimento del Sessantotto.

Muovendo da questa rivolta, al principio degli anni Settanta gli Aktionisten danno forma definitiva a posizioni del tutto originali. In questa fase, conclusiva e di integrazione, attorno al 1970, gli artisti raggiungono posizioni pienamente mature e un concetto di arte intensamente ampliato con fondamento performativo.

A partire da Fuoco Fatuo, Gunter Brus si muove in uno spazio soggettivo le cui forme dinamiche sono improntate al dialogo testo-immagine. Nelle cosiddette Bilddichtungen (Poesie-immagini), progetta ambientazioni drammatiche all'interno di un fantasmagorico spazio concettuale individuale, in cui la sua fantasia si effonde nel linguaggio e nell'immagine con illimitata libertà. Hermann Nitsch amplia in passi concentrici la sua opera d'arte totale costituita dal Teatro di Orge e Misteri in una, come egli la definisce, Festa esistenziale della durata di sei giorni. E Otto Muehl, il “mago della risata tragica”, inizia con un'opera figurativa, edonisticamente straripante, la cui involontaria libertà formale può essere rieseguita soprattutto sullo sfondo della già citata società alternativa della Aktions-Analystische Kommune (Comunità di analisi dell'azione) da lui elaborata.


​
Fonti
1 H. Klocker, Wiener Aktionismus, Wien, 1960-1971, in Genio e follia, 2009
2 Cfr. D. Riout, in Ai confini con il teatro, 2002

gb



Approfondimenti
QUEER E ARTE

​

QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | GÜNTER BRUS
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | HERMANN NITSCH
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | IL BRUTTO E LE AVANGUARDIE
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | ART CHEZ LES FOUS

QUEER E ARTE                                                        NOVECENTO                                                          DUBUFFET E LE SORTI DELL'ART BRUT

1/3/2022

 
Foto
J. Dubuffet | Paolo Monti, Italia 1960


​CREAZIONI MARGINALI E CLANDESTINE

A partire dal 1945, l'artista francese Jean Dubuffet (1902-1985) è interessato ad un tipo di creazione anonima, senza una denominazione precisa e per la quale, ancora, non aveva trovato una definizione. Sarà nel luglio dello stesso anno, nel corso dei suoi viaggi fra Francia e Svizzera, che Dubuffet codificherà le sue ricerche coniando il termine Art Brut. 
​

Rientrato dalla Svizzera, Dubuffet abbozza un primo testo teorico: “Disegni, dipinti, opere d'arte di ogni tipo, create da tenebrose personalità, da maniaci, scaturite da impulsi spontanei, animate dalla fantasia o dal delirio, ed estranee alle regole dell'arte ufficiale”. Dubuffet descrive dettagliatamente questa specifica tematica: “Opere d'arte come dipinti, disegni, statue e statuette, oggetti di natura diversi e in nessun modo legate (o il meno possibile) all'imitazione delle opere d'arte che si possono incontrare nei musei, nei saloons e nelle gallerie. Opere che, al contrario, si appellano a una originaria materia umana e a un'invenzione il più possibile spontanea e personale”.

Il suo compito sarà quello di nominare, raccogliere, esporre e descrivere la specificità di questo tipo di creazione marginale e clandestina.


​SOTTRAZIONE E RICERCA

Dall'Art Brut Dubuffet escluderà l'arte primitiva, l'arte popolare, l'arte naïve, così come l'arte infantile. Parimenti gli autori provenienti da una formazione accademica e tradizionale, preferendo opere nate in clandestinità, in situazioni di esclusione e di censura. Per questo, in un primo tempo, l'ambito principale nel quale Dubuffet troverà i suoi reperti sarà l'ospedale psichiatrico.

All'inizio del XX secolo l'internamento si configura come una sorta di sequestro. L'isolamento, la promiscuità, l'inoperosità e l'esclusione, accentuati dall'oppressione e dalla disperazione, provocano in alcuni pazienti una condizione favorevole allo sviluppo dell'immaginario. 

Dubuffet resta stupito difronte alle straordinarie creazioni di Aloise e Wolfli accorgendosi di come collimassero perfettamente con le sue ricerche. Tuttavia, Dubuffet non limita il suo campo di indagine agli ambienti psichiatrici e non considera la malattia mentale come unico criterio. Oltre alle opere nate negli ospedali psichiatrici, Dubuffet inizia a raccogliere anche opere appartenenti alla sfera dell'arte popolare, reperti etnici provenienti dall'Oceania, dipinti creati da autodidatti, disegni di bambini e tatuaggi.


​FOYER DELL'ART BRUT

​Inaugurato nel 1947 a Parigi, negli scantinati della Galerie René Drouin, il Foyer dell'Art Brut presenta le figure reali e principesche dei disegni di Aloise, i silex intagliati di Juva e i bassorilievi scolpiti in liège di Gironella. Nel clima artistico di quegli anni, una mostra di questo tipo era destinata inevitabilmente a creare nello spettatore uno scompiglio visivo ed emozionale. Le opere presentate nel Foyer avevano tutte un carattere sovversivo.

Un anno più tardi, 1948, venne fondata a Parigi la compagnia dell'Art Brut. Essa riuniva sei membri, tra i quali André Breton 
e Jean Paulhan. Dopo dieci mesi negli scantinati della Galerie Drouin, il Foyer venne trasferito in un piccolo padiglione situato nel cuore di Parigi e messo gentilmente a disposizione dall'editore Gaston Gallimard.


Le prime manifestazioni si svolgono in un clima di riservatezza e clandestinità, regola che viene infranta dalla Compagnia già nel 1949, quando una grande mostra di Art Brut, viene organizzata in place Vendome, nel centro di Parigi, presso la Galerie René Drouin, mettendo in evidenza le prime contraddizioni. L'esposizione incontra un notevole successo, attirando artisti, scrittori, editori, etnologi e critici come Jean Cocteau, Claude Lévi-Strauss, Johannes Itten, Pierre Matisse, Tristan Tzara, Joan Mirò e Francis Ponge. Dubuffet, scriverà per il catalogo della mostra un testo che ne diventerà il manifesto: L'art brut préféré aux arts culturels e ne assumerà la direzione.


ESILIO E RITORNO

Con gli anni, tuttavia, il fervore andò scemando. Le ricerche rallentarono e le acquisizioni divennero meno numerose. Il Foyer perse la sua vitalità e la Compagnia sciolta nel 1951. 

Alfonso Ossorio, un pittore amico di Dubuffet, gli propone di trasferire la collezione nella sua residenza, The Creeks, nei pressi di New York. Dubuffet accetta e l'Art Brut andrà dieci anni in esilio.


Nel 1962, undici anni dopo il suo scioglimento, la Compagnia dell'Art brut rinasce a Parigi, ancora una volta per opera di Dubuffet che acquista un Grand Hotel a Parigi per trasformarlo nella nuova sede dell'Art Brut.
​
Come nel periodo della prima Compagnia decide di porre le produzioni sotto l'egida della riservatezza, al fine di preservarle da ogni sorta di corruzione. Le opere vengono create in stato selvaggio o di rivolta, in carcere, in una mansarda di periferia o in un fienile, e i creatori hanno in comune un'origine spesso modesta o un'istruzione assai rudimentale. Si tratta perlopiù di manovali, postini, fioristi, parrucchieri, conducenti di tram o minatori.


Ognuno di loro patisce una cesura nel proprio percorso esistenziale. Carlo Zinelli per l'esperienza della guerra, Aloise e Laure Pigeon per fine di una relazione amorosa, Magde Gill per morte di un figlio, Eugenio Santoro e Giovanni Battista Podestà per un'emigrazione imposta. Un destino troppo pesante che li ha trasformati in persone intimamente esiliate.


​LOSANNA | MUSEALIZZAZIONE

​Nel 1972 dopo varie vicissitudini, la collezione dell'Art brut fu trasferita a Losanna, dove, per la sua tutela e conservazione venne acquisito e trasformato in museo, un palazzo del XVIII secolo. Le opere che vengono realizzate all'interno di questa corrente - perché di fatto non costituisce un movimento – vengono raggruppate obbedendo a precisi schemi culturali, vi si scorge, cioè, il segno di una creatività che si manifesta a dispetto dell'esclusione sociale di cui soffrono i loro autori. 
​

La nozione di “art brut” si fonda dunque sullo statuto personale del creatore e non sui criteri stilistici delle sue opere – come accade per l'arte naïve, ad esempio. Viene applicata alle arti plastiche ma, comportando spesso la mescolanza dei generi, coinvolge anche altri settori, in particolare quello della scrittura. E non sono mancate altre denominazioni per qualificare meglio questo subcontinente della creazione. Michel Thévoz, direttore del museo, vedeva nell'Art brut, e potremmo dire potenzialmente in tutta l'arte contemporanea, la possibilità di una liberazione che abolirebbe i modelli di pensiero consolidatisi in Occidente. A tal proposito cosi si esprimeva:


E' possibile che, sulle macerie della cultura, rinasca una creatività artistica nuova, orfana, popolare, estranea a ogni circuito istituzionale e a ogni definizione sociale, deliberatamente anarchica, intensa, effimera, affrancata da qualsiasi presunzione di genio personale, prestigio, specializzazione, appartenenza o esclusione, distinzione tra produzione e consumo. Sarebbe il crollo di modelli, radicalmente irrispettoso e di conseguenza creativo, capace di realizzare l'utopia del “Prospectus aux amateurs de tout genere”.
​
​

Fonti

1 J. Dubuffet, Lettera a Charles Ladame, Parigi, 9 agosto 1945
2 J. Dubuffet, Prospectus et tous écrits suivant, Gallimard, Paris, 1967
3 L. Peiry, L'avventura dell'art brut: dalla clandestinità alla consacrazione, 2009
4 J. Dubuffet, L'art brut préféré aux arts culturels, 1970
5 ​M. Thévoz, L'art brut, Skira-Flammarion, Ginévre 1980

gb 
​



​ApprofondiMENTI
​QUEER E ARTE


QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | ART BRUT
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | ART CHEZ LES FOUS
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | IL BRUTTO E LE AVANGUARDIE
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | CORPO, RITO, AKTION

QUEER E ARTE                                                      NOVECENTO                                            COMPORTAMENTO E ARTE

1/3/2022

 
Foto
Sarah Lucas, Yoko, 2015 | ph Julian Simmons


​ricercatore estetico

​Parlare di comportamento vuol dire, inevitabilmente, porre l'accento sull'artista, o meglio del ricercatore estetico – persona fisica e psichica, corpo e mente, carne e spirito – mentre le concezioni tradizionali inducevano a privilegiare l'opera, dimenticando o mettendo tra parantesi i vari processi gestuali attraverso cui essa veniva costruita.

È per questa ragione che non sembra più opportuno chiamare quella del comportamento una ricerca “artistica” in senso proprio. Meglio ricorrere al concetto di ricerca estetica, da
aisthéin = sentire, percepire, sviluppare la rete delle proprie facoltà sensoriali, senza del resto porre una rigida frontiera tra l'aisthéin stesso e il neon, cioè lo svolgere attività intellettive, dal momento che l'uomo si “comporta” anche ragionando, risolvendo problemi intellettuali. Attraverso una specie di mutazione antropologica, l'equilibrio tra la sfera estetica e quella noetica potrebbe gradualmente spostarsi a favore della seconda, il che significherebbe anche un potenziamento “telepatico” dei sensi, portati a sentire a distanza e in assenza di appoggi materiali.


Un altro aspetto strettamente legato al comportamento è quello di una sua ineliminabile mondanità. Non ci si comporta nel vuoto, o comunque in una chiusura egoistica. Risulta necessaria la presenza di una specie di cassa di risonanza, di un complesso di dati esterni verso i quali il comportamento si dirige. Quello di comportamento è infatti un concetto tipicamente relazionale, non ammette che si ragioni in termini di sostanze separate (una sostanza uomo separata da quella del mondo e delle cose); anzi, esiste, una commistione inestricabile, un sistema unico uomo-mondo, o uomo-natura, uomo-ambiente.


​dall'opera all'artista

Queste considerazioni trovano corrispondenza nel comportamentismo in ambito estetico. Anche qui infatti ha voluto essere, in primo luogo, un sano ritorno al concreto, cioè all'immediatezza, alla fisicità del corpo e dei dati ambientali. Nella Body art, ad esempio, abbiamo la riscoperta delle potenze e facoltà del proprio corpo: mani, piedi, mimica elementare, deambulazione rudimentale; non senza, parimenti, un prolungamento noetico, dal momento che gesti elementari vogliono essere anche la riscoperta di alfabeti primordiali, di riti apotropaici iniziatici. La consistenza fisica del comportamento, in questi casi, va rapidamente assottigliandosi, via via sostituita da elementi ideazionali.

Riportare l'accento sulla persona dell'artista-ricercatore, non vuol dire, forse, riscattare l'”essere” rispetto all'”avere”? Conta quello che “siamo”, cioè la profondità del nostro vivere e sentire, piuttosto che un accumulo di beni, di oggetti posseduti. Il “comportamento”, una volta che ha adempiuto a una salutare funzione di stimolo, di incremento del “vivere”, può dileguarsi, lasciando il posto ad altri comportamenti e atti di vita, evitando il rischio di sclerotizzarsi e di sclerotizzare di conseguenza il nostro stesso “esserci”. Solo così risulterebbe una prospettiva radicalmente diversa da quella dell'opera d'arte, che invece rientra in pieno nella tipica mentalità “occidentale”, o ancora meglio borghese-produttivistica, basata su quello che Marcuse chiamerebbe il principio di prestazione.


​Mythos vs ethos

​Mentre nel passato le finalità principali di ciò che chiamiamo arte sono state: rendere più belle le suppellettili, decorare gli spazi di abitazione privata così come quelli pubblici, insegnare a ricordare le basi della religione, glorificare gli eroi, dimostrare la ricchezza e il benessere e i valori morali di una comunità. Oggi, fortunatamente ma non sempre, si tende a pensare che l'unico fine dell'arte sia l'espressione del sentimento dell'artista.

Negli ultimi anni, è avvenuto, insomma, un cambiamento di prospettiva, una sorta di “ribaltamento della clessidra” come insegna Barilli, per cui torna a essere “dentro” ciò che fino a poco tempo fa appariva “fuori”. O per usare la terminologia aristotelica, il mythos ritorna ad avere il sopravvento sull'ethos. E storicamente esiste una corrispondenza tra il momento in cui si inizia a diffondere l'interesse per l'autore, considerato come individuo reale e non più come stereotipo, e la nascita dello stato capitalistico: per quanto ancora romanzate, le Vite del Vasari ne sono la prima prova.

Fino al XIX secolo, ovvero la nascita del capitalismo, restò estranea, alla mentalità corrente, l'idea che l'arte implicasse l'espressione dell'individuo e dei suoi sentimenti. I primi pallidi inizi dell'autobiografia non risalgono che al XVI secolo, quando
Michelangelo si rappresentò nel suo Giudizio Universale sotto forma di scorticato e Dürer si spinse fino a un autoritratto nudo. I sofferenti autoritratti di Rembrant e Goya dimostrano come questo filone continuò a crescere sotto la cenere, cioè nonostante il perdurare di una pittura di storia, di paesaggio, di mitologia che nei salons parigini, le esposizioni ufficiali più importanti d'Europa la fece da padrone fino all'inizio del Novecento.

La nuova società ha dato luogo non soltanto alla figura dell'artista, ma anche, in ambito scientifico, a quelle dell'inventore e dello scopritore o del ricercatore. Individui speciali che incarnano il soggetto per eccellenza, cioè il protagonista del sistema che chiamiamo democrazia, un sistema il cui maggiore risultato è stato "la creazione di una cultura della speranza sociale contro una cultura della sopportazione". 



Fonti
traduzione di Davide Monetto

U. Eco, Storia della Bruttezza, Bompiani, Milano, 2007
R. Roty e N. A. Baslev, in Noi e loro: dialogo sulla diversità culturale (1991), trad. it. Il Saggiatore, Milano 2001
I. Berlin, Le radici del romanticismo (1965), trad. it. Adelphi, Milano, 2001

G. Dorfles, Ultime tendenze nell'arte di oggi, Feltrinelli, Milano 1999
R.Krauss, The oryginality of Avantgarde and other Modernist Miths, Mit Press, Cambride, 1985
R. Barilli, Tra presenza e assenza, due ipotesi per l'età post moderna, Bompiani, Milano, 1981

gb 
​



approfondimenti
queer e arte


QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | IL BRUTTO E LE AVANGUARDIE
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | ART BRUT
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | IL KITSCH
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | IL CAMP

QUEER E ARTE                                                        ANNI SESSANTA                                                    HERMANN NITSCH

1/3/2022

 
Foto
1. Aktion | Hermann Nitsch, 1962 | ph ©Atelier Hermann Nitsch


​rito | DISGRUSTO E CATARSI

Influenzata da De Sade, Friedrich Nietzsche, Sigmund Freud e Antonin Artaud, l'arte di Hermann Nitsch vuole provocare nello spettatore disgusto e ribrezzo, per suscitare una catarsi individuale e collettiva.

Negli anni tra il 1960 e il 1964 Nitsch crea una sorprendente opera pittorica, per poi concentrarsi gradualmente allo sviluppo del Teatro di Orge e Misteri. Dall'automatismo gestuale della pittura astratta, l'artista elaborerà il suo linguaggio simbolico e materiale con al centro l'azione di lacerazione, simbolo del ritrovato istinto.

Già nel suo Primo gioco di abreazione (1961) Nitsch metteva chiaramente in rilievo il meccanismo terapeutico centrale della sua concezione artistica, riducendo, nelle sue opere, il linguaggio al grido e il gioco ad un processo di astrazione. Al centro di questa esperienza vissuta si trova il culmine orgiastico, l'eccesso fondamentale, che Nitsch assume a motivazione originaria di tutta l'arte.

Riconoscendo all'Arte, e al palcoscenico, una forte motivazione sociale immagina il Teatro di Orgie e Misteri come un'ulteriore evoluzione del dramma già inscenato nelle azioni. Cosi, spingendosi oltre, fa del rituale drammatico un meccanismo utile a far emergere energie rimosse, profonde. Un lavorare dinamicamente con i meccanismi psichici degli spettatori per renderli più consapevoli.​


​inconscio | teatro di orge e misteri

​Le strutture fondamentali, riconoscibili nella sua opera rivelano come Nitsch oscilli tra l'arte drammatica e un'affascinante opera illustrata. Il Teatro di Orge e Misteri, infatti, si configura come un flusso di energia alimentato da un complesso e crescente apparato figurativo, fatto di pittura, cinema, fotografia, disegno, grafica a stampa, oggetti, installazioni.

Il Teatro di Orge e Misteri (Das Orgien Mysterien Theater), opera d'arte totale che dal 1971 ha sede nel suo castello di Prinzerdorf in Austria, viene rappresentato mettendo in scena azioni che prevedono performance estreme e sanguinose. Sacrifici animali, onanismo, orge e violenza sono esposte con lo scopo di rafforzare gli spettatori, che prendendo parte personalmente alle azioni si avvicineranno ai misteri della vita e della morte.

Nitsch cerca di insinuarsi nel subconscio del singolo attraverso giochi rituali, incitando il pubblico a squartare bestie da soma, a tirarne fuori le viscere e a calpestarle. A imbrattare di sangue persone crocifisse e a partecipare a riti liturgici e sacri. Questi gesti portano il singolo ad entrare in contatto con il proprio essere animale più profondo e istintivo, e quindi a toccare gli ambiti più bui e nascosti del proprio essere, normalmente repressi dalla società.


Costretti a vivere, così, una totale disinibizione degli impulsi animali, i partecipanti sperimentano le potenzialità della violenza e della distruzione, innate nella natura umana. La decadenza radicale, poi, verso la sessualità ha come risultato una reazione catartica, permettendo, nel migliore dei casi, l'ascesa spirituale.


​ripresa dei culti antichi

Per questo evento fortemente ritualizzato, Nitsch ha stabilito la durata di sei giorni e sei notti, delimitando uno spazio temporale preciso. Così strutturato, il rituale rimanda a forme di culto preteatrali, come le feste apollinee e dionisiache che si svolgevano nell'area dei templi di Delfi, concedendo all'opera di Nitsch una forte carica antropologica.

Un onnicomprensivo drammatico collage di esperienze in cui scandagliare, esperire e riconoscere gli strati profondi della coscienza e le creazioni collettive.


Riallacciandosi alle feste delfiche o al culto di Cibele, la rappresentazione comincia il primo giorno al sorgere del sole con la citazione del taurobolio - l'uccisione rituale di un toro - e nei giorni successivi mette in scena una minuziosa struttura di azioni scandita da una successione armonica di fasi di movimento e fasi di quiete.

Questa struttura democratica della rappresentazione e dei movimenti degli osservatori caratterizza l'intero svolgimento dello spettacolo. I protagonisti si trovano coinvolti in orge che hanno luogo secondo variazioni continue, mentre i partecipanti possono muoversi liberamente. Motivati, caso per caso, a partecipare ai percorsi, gli spettatori possono prendervi parte o passeggiare liberamente osservando. 



Fonti
​

1. H. Nitsch, programma distribuito agli invitati il 28 giugno 1963, cit. in L. Peyri, 2009
2. H. Klocker, Wiener Aktionismus, Wien, 1960-1971, in Genio e follia, 2009
3. M. Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, SE, Milano 1989
4. www.museonitsch.org/it/testi_critici


gb 
​



ApprofondiMENTI
QUEER E ARTE


QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | CORPO, RITO, AKTION
QUEER E ARTE | SECONDO NOVECENTO | GÜNTER BRUS
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | IL BRUTTO E LE AVANGUARDIE
QUEER E ARTE | PRIMO NOVECENTO | ART CHEZ LES FOUS

QUEER E DANZA                                                  ANNI NOVANTA                                                      VOGUING

1/3/2021

 
Foto
Archie Burnett | Foto dall'archivio @archieburnett


​vent'anni di incubazione

Originariamente chiamato «presentazione» e più tardi «performance», il voguing entra di fatto come categoria nelle ballroom già a partire dagli anni Sessanta. Nel corso degli anni, i movimenti di danza si sono evoluti nella forma più intricata e acrobatica che oggi conosciamo come "vogue", esplosa, mediaticamente negli anni Novanta del secolo scorso. Dalle ballroom si è diffuso in tutti gli Stati Uniti e per quanto la capitale sia New York, esistono anche capitali "regionali" come Chicago, Atlanta e Los Angeles. Anche a Londra e Parigi si sono diffuse le ballroom, per quanto si concentrino non tanto sulle competizioni di voguing, quanto sulla runway, competizione di sfilate.

​Vogue apre le porte a un universo di sottogeneri e diversificazioni infinite, con in comune un linguaggio che attinge da altri mondi: quello delle arti marziali, dell'arte egizia, delle pratiche militari e della breakdance. Oggi vogue è un fenomeno globale in continua evoluzione, sia stilistica che demografica. Del 2012, infatti, è l'apertura di The House of Melody, la prima casa di vogering tedesca, che ancora oggi, deve lottare contro l'ignoranza, dando un posto a chi fugge dalla strada o da casa, contribuendo al rispetto a all'amore di tutti. 

Il Voguing si impose all'attenzione del pubblico e della critica a partire dalla fine degli anni Ottanta, quando passi e routine vennero inseriti all'interno dei videoclip delle pop star di quegli anni.


​VOGUE E CULTURA POP

Prima Malcolm McLaren con i video Deep in Vogue e Waltz Darling nel 1989, poi Madonna con il videoclip Vogue, nel 1990, fecero del voguing un fenomeno di costume degli anni Novanta. E il legame fra voguing e cultura popolare visiva è stato strettissimo e continuo.

Molti artisti, in particolare donne, hanno incorporato il
voguing nei loro video. Leiomy Maldonado, membro transgender dei Vogue Evolution - quarta edizione di America's Best Dance Crew - ha reso popolare il suo passo personale, la "Leiomy Lolly", incorporata poi nei videoclip If U Seek Amy di Britney Spears e Videophone di Beyoncé. Il video di Willow Smith Whip my hair contiene un cameo della Leiomy. Lil Mama e Chris Brown hanno incorporato una Dip nel videoclip di Shawty Get Loose. E ancora Teyana Taylor, Rihanna, Willow Smith, FKA Twigs, Ariana Grande, Azealia Banks, Fergie e Lady Gaga, si sono tutte ispirate a voguers di ieri e di oggi.

Ma non solo il mondo della musica, il voguing ha plasmato l'industria della moda influenzando designer del calibro di Marc Jacobs, Thierry Mugler e Patricia Field. Il documentario di Wolfgang Busch How Do I Look racconta infatti di come le icone e le leggende della ball community di Harlem hanno influenzato, per decenni, le più grandi star della cultura pop. Innovazioni che hanno creato tendenze nella moda, nella danza, nella musica e sulle passerelle.


​danza unisex

Vogue è una danza unisex che, come per la breakdance, si basa sul concetto di no-touching. Ispirato allo stile degli antichi geroglifici egizi e alle immagini patinate dei modelli nella rivista Vogue, il voguing è caratterizzato da una serie di pose, come quelle di un servizio fotografico. I movimenti di braccia e gambe sono angolari, lineari, rigidi e si spostano rapidamente da una posizione statica all'altra. E nelle competizioni “insulti” sottili, diretti l'uno verso l'altro, sono utili per impressionare i giudici e il pubblico.


​stili

Old Way (prima del 1990). Caratterizzato dalla formazione di linee, simmetrie e dalla precisione in un'esecuzione aggraziata e fluida. Nella sua forma storica più pura si configura come duello tra due rivali. Nella tradizione uno dei due rivali deve bloccare l'altro a terra o contro un muro di modo da limitarne i movimenti mentre il primo esegue Hand Performance (movimenti di mani).

​
New Way (post 1990). Caratterizzato da movimenti più rigidi e geometrici, incorpora contorsioni degli arti e controllo delle braccia, includendo spesso il locking. La New Way può essere anche descritta come una forma modificata di mimo in cui il voguer crea forme geometriche mosse progressivamente intorno al suo corpo, mostrando destrezza e memoria.

I termini "Old Way" e "New Way" sono generazionali, in quanto ogni generazione si riferisce a sé stessa come "New Way" e alla precedente come "Old Way".
​
Vogue Femme (risalente circa al 1995). Stile più recente dell'Old Way, il Vogue Femme (dalla parola francese "femme", "donna") è uno stile sviluppato principalmente dalle Femme Queen, donne transgender protagoniste della ballroom scene. Rispetto all'Old Way risulta più fluido, con movimenti appositamente femminili ed esagerati, influenzati spesso dalla danza classica e moderna.
​

Vogue Femme si divide in Dramatics, più atletico e che richiede maggior forza e resistenza fisica, includendo diversi tipi di acrobazie, e Soft and Cunt, dove il voguer si muove in modo più aggraziato e femminile, incorporando spesso elementi di danza classica.


​elementi

​In entrambe le varianti, la danza si divide in sei elementi:

Hands. Nella performance, le mani del performer spesso raccontano una storia. Hands è l'elemento fondamentale per aggiungere espressività alla performance interagendo con l'avversario durante una battle (cfr. "throwing shade").

Duckwalk. La passeggiata delle anatre. Accovacciarsi sui talloni e calciare i piedi mentre si procede in avanti a ritmo di musica.

Catwalk. Camminata femminile esagerata in cui le gambe sono incrociate l'una sull'altra, i fianchi sono spinti da un lato all'altro e le mani sono gettate in avanti in opposizione alle gambe.

Floorwork. Questo componente dimostra la sensualità dei concorrenti mentre rotolano e si muovono a terra in modo da catturare l'attenzione dei giudici.

Spins and Dips. Questo è l'elemento più appariscente della moda. Una rotazione o un tuffo eseguiti correttamente, ovvero solo quando si verificano esattamente sulla battuta musicale.

Runway. Inspirato dalle sfilate delle modelle sulle passerelle, solitamente richiede outfit particolari e colorati. Coloro che partecipano utilizzano il loro stile non tanto per mostrare l'outift ma principalmente l'attitudine, facendo risaltare loro stessi e allo stesso tempo cercando di annebbiare (SHADE) gli altri.

gb 
​



​Approfondimenti
queer e danza

​

QUEER E DANZA | ANNI NOVANTA | WILLY NINJA
QUEER E DANZA | ANNI SESSANTA | HOUSES
QUEER E DANZA | ANNI SESSANTA | BALLROMM
QUEER E DANZA | ANNI NOVANTA | VONGUE VUOTO

QUEER E DANZA                                                      ANNI SESSANTA                                                        HOUSES & BALL | QUALI INFLUENZE OGGI?

1/3/2021

 
Foto
Kiki House of Savoia


​DANZA DI PROTESTA

La ball culture oggi è una community globale con centro a Parigi, proclamatasi capitale europea del voguing. In tutte le città si offrono corsi e, questo linguaggio, grazie al suo successo mediatico, lo si insegna in gran parte delle scuole di ballo. Simbolo di protesta e affermazione, questo stile, si è sempre più imposto come danza di protesta contro l'omofobia.

Danza unisex, veniva utilizzata sul "ring", in chiave non aggressiva, per risolvere le controversie tra due Houses; in maniera "feroce", il vonguing era usato invece per reagire al dramma dell'AIDS. In questo caso, la "battaglia" vedeva scontrarsi Vita e Morte, e negli anni Ottanata, Morte sconfisse gran parte della comunità transgender e non solo. La società di allora e la sua intellighentia elessero il virus come malattia degli omosessuali e da qui il doppio stigma, esploso negli anni Novanta, positivo-omosessuale.


​COMBATTERE 

I partecipanti alle ball erano combattenti, dunque. Ogni giorno nella vita reale lottavano per sopravvivere. Negri, sieropositivi, froci, travestiti, ognuno di loro rappresentava un abominio per dio e un insulto per le loro famiglie. Ma se erano niente di giorno, di notte potevano essere delle star. E le loro notti si fanno metafora della speranza: nel futuro, in sé stessi, in un lavoro, in una famiglia, nel diritto all'amore. Desiderio di "normalità" all'interno della ball community che ha prodotto una serie di incitazioni e modi di dire, mantenuti intatti ancora oggi. Veri e propri slogan, utili ad incoraggiarsi a vicenda, spronarsi, darsi forza in un mondo che li voleva deboli ed indifesi.

​E invece di buttarsi giù, gridare al bullismo o peggio al vittimismo come gli adolescenti di oggi, i giovani cazzuti di ieri così si spronavano: "Farai meglio a impegnarti!" - "You better werk bitch!" -, Cammina al meglio!, con il significato esteso di avere coraggio e buttarsi nelle cose con tutti se stessi - "Now sissy that walk!" -, Sali là sopra, sii bellissimo/a e falli morire! - "Get up, look sickening and make them eat it!".


​TORINO | HOUSE OF Savoia

In Europa, la ball culture ha attecchito subito a Parigi, il centro nevralgico delle function più importanti. In Italia, invece, come spesso accade, si è sviluppato solo l'apparato scenico delle competizioni. Focalizzando tutta l'attenzione sul voguing, privando la ball culture delle sue radici antropologiche. 

La curiosità per la sua storia e i suoi protagonisti, hanno iniziato a farsi spazio solo di recente, ed il percorso di consapevolezza e riappropriazione sembra, purtroppo, lontano a venire. Ed proprio con questo timore, che la Kiki House of Savoia, ha fondato a Torino la propria casa nel 2016.

«Specie negli ultimi anni – conferma Matteo, il fondatore della House of Savoia, nell'intervista per Outsider (Beatrice Bentrani, 7/7/2019), c’è un interesse per la ball culture, ma a differenza degli altri Paesi l’attenzione resta ancora troppo concentrata sulla danza, quando in realtà l’origine e i connotati di questa realtà sono molto più ampi. All’estero, anche solo a Parigi, è tutto molto più vitale e sentito».

Dal 2016, la Kiki House of Savoia si è fatta conoscere sul territorio torinese con le function al Supermarket di Torino, vero e proprio successo di pubblico e di adesioni di House provenienti da tutto il mondo, che gli è valsa la presenza all’ultima edizione del Lovers Film Festival con il cortometraggio Savoia. Con loro per protagonisti, realizzato dall’associazione culturale Elvira.

"Quello della ballroom, continua nell'intervista, è un ambiente che nasce in un contesto underground e che va tutt’ora protetto e tutelato, un luogo in cui è necessario che tutti si sentano al sicuro; un altro degli obiettivi fondamentali della ball culture è proprio questo, infatti: la costruzione di un safe place. “Massificando” la cosa, potremmo perdere questa componente essenziale, o peggio, denaturalizzare i valori della ballroom".

Per questo non possiamo che concordare e concludere con le stesse parole del fondatore la House of Savoia: "pensiamo tutti che sia necessario, in generale e sempre, a ogni tipo di cultura, espandersi e modificarsi con il tempo; ci piacerebbe solo che questo accadesse con consapevolezza, e che le persone che vengono a contatto con la ball culture sappiano che stanno maneggiando una materia delicata, da rispettare, preservare e da arricchire continuamente".


​LO SLANG IERI COME OGGI

Esiste una componente lessicale mantenuta intatta negli anni e penetrata nella queer community in generale. Questi termini - come fierce e fierceness, work it e working it, fabulous e fabulousness - si sono ampiamente diffusi nello slang gay, nel gergo della moda e nel linguaggio colloquiale tradizionale. Eccone alcuni.

Reading: "leggere" una persona significa evidenziarne ed esagerarne tutti i difetti. Dai vestiti ridicoli al trucco imperfetto o qualsiasi altra cosa il "lettore" possa inventare. È una battaglia che usa l'arma dell'ironia, in cui si vince se si fa ridere di più il pubblico.

Shade: evoluta dal reading. Invece che insultare qualcuno direttamente lo si fa attraverso complimenti ambigui. Un esempio è quello di dire che qualcuno ha un vestito tanto bello da far quasi dimenticare che gli si vede la barba del giorno dopo.

Yas: uno yes più enfatico, più è prolungata la "a" più si esprime il consenso/piacere

Walking: sfilare per avere l'ammirazione dei contendenti ai ball

Mopping: taccheggiare vestiti per indossarli ai ball

Working, work: è un'esclamazione usata per trasmettere ammirazione, gioia

Fierce: (feroce) usato come complimento

Butch queen: regina mascolina

Mother: il membro della casa che ottiene il ruolo di mentore

Houses: famiglie alternative

Shantay you stay: annuncio per il vincitore di una sfida di playback.


gb 
​



​Approfondimenti
QUEER E DANZA


QUEER E DANZA | ANNI NOVANTA | VOGUING
QUEER E DANZA | ANNI SESSANTA | HOUSES
QUEER E DANZA | ANNI SESSANTA | BALLROOM
QUEER E DANZA | ANNI NOVANTA | WILLI NINJA

QUEER E DANZA                                                      ANNI DUEMILA                                                          PAROLA ALLA DANZA | SECONDO PERCORSO

1/3/2021

 


IN ORIGINE ERA UNO
​

​Cosa ha perduto l'uomo nella sua anima e nella sua carne nella nostra società? Con questa domanda Brumachon metteva in danza il suo d'indicibles violences e a questo interrogativo proviamo a rispondere attraverso 5 coreografie. 

Dall'America all'Europa, dall'Oriente all'Occidente passando per Sodoma torneremo indietro fino a riscoprire Sigfried. Un percorso che riflette sulla stasi intellettuale per suscitare il risveglio emotivo. Dalla dualità odierna alla complementarietà originaria. Dalla Storia alla Preistoria e dalla Letteratura al Mito.


​MARIA HASSABI

Foto
Solo | Maria Hassabi, 2009 | ph Paula Court
​​Cipriota, newyorkese d'adozione, Maria Hassabi è artista poliedrica. La sua è una danza interdisciplinare non legata solo alla scatola nera del teatro ma le sue creazioni invadono lo spazio di gallerie d'arte, musei e cinema. In questo modo l'azione coreutica esce fuori da sé e si inserisce nel fluire continuo della vita stessa, attraverso un percorso in cui la Motion si mischia all'Emotion e le sensazioni sono tradotte in forme esteticamente ricercate.

In Solo, prima parte di un dittico nato nel 2009, al centro c'è ovviamente il corpo, che soggetto e/o oggetto, è portatore di istanze sue proprie. Esiste infatti un linguaggio verbale e uno non verbale, dove l'ultimo rimanda a quell'insieme di segni che trasformandosi in movimenti, diventano leggibili per chi guarda. Ed è qui che l'arte funge da specchio e il pubblico può riconoscersi. Vedere trasformare l'alterità del singolo artista, in identità collettiva.

In una danza, quella dell'Hassabi, in cui le sensazioni di gioia, euforia, felicità lasciano il posto alla noia, all'incapacità di agire financo l'assenza di desiderio, tutto è demandato a ciò che in realtà si vede poco: a quegli spasmi nevrotico nervosi che il corpo emette inconsapevolmente. E' la vita interiore di quel corpo che l'artista vuole mostrare o meglio la rappresentazione visiva della stasi intellettuale. 

Tratto da:
 Una donna e il suo tappeto persino. Maria Hassabi a Collegno, Bertuccio, 2013


​THE OLD KING

Foto
The Old King | Les Ballets C de la B | ph C Renaud De Lage, 2012
Ma cosa vorrà mai dire stasi intellettuale? E cosa serve, per il movimento o la vita di questo intelletto? Dall'America all'Europa le considerazioni sembrano essere le medesime. E due anni dopo, nel 2011, Miguel Moreira, per la compagnia belga Les Ballets C de la B, crea The Old King. Dal solo femminile si passa al solo maschile, e al corpo della Hassabi si sostituisce il corpo di Romeu Runa.

All'interno di una scenografia apocalittica, a metà strada fra costruzione e demolizione, Moreira presenta un uomo seduto dando le spalle al pubblico. Soffre credendosi abbandonato da Dio e dagli uomini. Il tormento interiore si manifesta, man mano, negli spasmi del corpo e il dolore esplode, poi, nell'irrequietezza dell'azione coreutica. Il corpo esposto è anarmonico e privo di centro: incapace di un equilibrio sano, lotta fra i propri desideri e le consuetudini sociali. Ed è una lotta vera e propria quella che Runa, intraprende sul palco. Prima contro sé stesso e poi, moderno Don Chisciotte, contro il nero delle nostre società.

​Studiata appositamente per le linee e l'impatto scenico del ballerino, la pièce, come la danza pretende, si focalizza su ossa e pelle, scrivendo nello spazio una poesia maledetta. Fra infanzia e follia, il corpo retrocede ad uno stato primigenio per rivendicare la sua giusta collocazione nel mondo. Prima curvo e incompreso, man mano più consapevole, ma sempre più sgraziato. Striscia, trema, si contorce ricercando una propria, autentica, identità.


Non resta, a questo corpo, che urlare con Munch sia lo sfacelo, sia la voglia di stare qui ed ora. Urlare la ricerca del senso che si fa istinto di sopravvivenza. E se Moreira crede nel potere che ognuno, come individuo, ha nella scelta della propria vita, crede meno nella capacità che gli uomini hanno di raccontarsi e di relazionarsi, forse. L'uomo di Moreira non riesce a comunicare nulla del suo mondo interiore, sembra aver dimenticato la strada per la via regia. Ma è la parola (la comunicazione) che realmente è sminuita nel su valore o sono gli uomini incapaci di fermarsi e trovare il giusto codice? 
​
Tratto da The Old King: il folle con la piantina negli slip, Bertuccio 2012


​Autour de Madame Butterfly

Foto
Autour de Madame Butterfly | Balestra/Takei, 2014
I codici, oggi più che mai, sembrano gestire le nostre esistenze. Al lavoro, nella vita privata, e soprattutto di notte, esistono tutta una serie di prassi e consuetudini che ognuno segue più o meno consapevolmente. La sessualità è uno dei tanti codici che le società usano (vedi Foucault. Corpo, Sesso e Diritto) per controllare, dividere e uniformare. Il binarismo uomo-donna, ancora oggi, spiegato e narrato come si è fatto in Queer. Teorie, tarda a superarsi. E quella che è stata una vera e propria invenzione, in questi secoli è arrivata fino a noi come verità naturale, dogmatica meglio. La donna e il femminile dovevano sottostare ai dettami del patriarcato e oltre il confine della famiglia borghese niente aveva diritto di esistere. ​​

Su questo e sul suo superamento riflettono Ornella Balestra e Yutaka Takei nel 2014 con il loro Autour de Madame Butterfly. L'opera, così come Puccini l'aveva ideata, era portatrice delle istanze della propria epoca. Un tempo non lontano in cui chiari e definiti erano i ruoli: quello della donna rispetto all'uomo, dell'Oriente in rapporto all'Occidente, dell'onore e anche dell'amore extra-coniugale. Oggi, più di un secolo dopo, tutto risulta ambiguo e talvolta ribaltato. Si è perso, insomma, il senso dell'onore e delle regole che ne permettevano la stessa trasgressione. Permangono, però nei decenni, l'amore e la passione insieme ad un'atroce sofferenza dovuta al senso di abbandono che, in Autour de Madame Butterfly dà origine a un altro dramma, più profondo, esistenziale. L'uomo contemporaneo, soprattutto occidentale, vivendo in un dualismo perenne, fatica a sentirsi completo. 


Attrazione e diffidenza, forma e sostanza, maschile e femminile, abbandono e attesa, tradimento e amore. La vita e la morte, nelle diverse tradizioni, con il duo si fanno carne, sangue, sudore. Generando un universo incantato, talvolta ironico, pieno di leggerezza. Perché è nel gioco dei ruoli che l'ambiguità regna assoluta, tanto che l'uomo può farsi donna e la donna uomo. Nello stesso modo in cui l'Oriente può apparire occidentale più dell'Occidente stesso.

Tratto da Balestra e Takei fanno incontrare Oriente e Occidente, Bertuccio 2014 
 


​USDUM

Foto
Usdum | Cie As Palvras, 1991 | Ph Jean Luc Tanghe
Ed è proprio nell'oltrepassare il filo spinato che la vita si fa gioco e l'amore in-condizionato. Proprio come hanno scoperto tutti quegli uomini e quelle donne, che fuori dai confini, hanno ri-scoperto la libertà di amare. La tenerezza, la compassione, l'empatia, la complicità, la condivisione, la gioia, il dolore. Tutte sensazioni vitali prive di qualsiasi connotazione di genere e se proprio le si vuole indirizzare, dovrebbero rientrare nelle esigenze primarie di tutto il genere umano. Dalle sensazioni alle emozioni il passo è breve, e il voler desiderare il corpo che le provoca è una conseguenza – questa si – naturale. Istintiva, umana.​

Usdum coreografia fortunata di Claudio Bernardo, arrivata a Torino nel 2013 - creata però nel 1991 - trae ispirazione da riferimenti sociali e letterari - la miniera d’oro brasiliana (Serra Pelada) e la montagna di sale di Sodoma di cui parla Michel Tournier - per scrivere col corpo un inno all’Amore. 


Un ambiente monosesso che lascia trapelare sentimenti omofili, che qui diventano simbolo dell'amore libero, lontano cioè da qualsiasi condizionamento sociale. Se Freud aveva teorizzato l'inversione occasionale che avviene in ambienti dello stesso sesso -  palestre, piscine, miniere, prigioni - in Usdum diventa desiderio, il diritto, d'amare hic et nunc, senza curarsi del dopo.

Piccoli gesti, che si ripetono fino alla perdita del loro significante, costituiscono il pentagramma di un'esistenza pesante, chiusa, omofobica, che ha per colonna sonora i canti indiani e le musiche di Bach. Suggestioni caotiche che unite alle armonie creano quello straniamento emotivo che permette ai corpi di Mattéo Moles e Claudio Bernardo di tornare bambini, liberi adesso di giocare e innamorarsi senza alcuna costrizione sociale e culturale. 

Tratto da Io amo e non voglio limiti. Usdum a Torinodanza, Bertuccio 2013


​MASCHILE E FEMMINILE 
ENERGIE ANCESTRALI

Foto
Astarte Syriaca | Gabriel Dante Rossetti, 1877
Ma cosa viene prima della Cultura? E prima della Storia? E quale società esisteva prima di quella che conosciamo? In soldoni: la Natura precede la Cultura, il Mito la Storia e il Matriarcato il Patriarcato. Con una storia datata a partire da circa 4000 anni fa, il patriarcato sembra ancora oggi, visto la sua reiterazione nei secoli, l'unico sistema sociale e politico che conosciamo. La piramide gerarchica nella vita pubblica, la famiglia patriarcale nella vita privata.

E nonostante a partire dagli anni Settanta si è cercato di mettere in discussione la naturalità di tale sistema, e nonostante i costumi siano cambiati, tutti, ammettendolo o meno, abbiamo interiorizzato la “veridicità” di questa invenzione. Uomini e Donne (aldilà delle preferenze sessuali) vivono il maschile ed il femminile come due poli opposti - se non gerarchicamente subordinati. E questa dualità, il binarismo di genere insieme a tutte le conseguenze che porta, con il frazionamento dell'essere umano (pensiamo alla sigla LGBTQI+) alimenta e nutre il senso di incompletezza di cui sopra. Perché se esiste un vuoto  la sovrastruttura può illuderci di colmarlo!


In più, il maschile ed il femminile, che sono energie ancestrali, nei secoli sono stati così fraintesi che oggi si usano come sinonimi di mascolinità e femminilità. E nell'apparenza la perdita dell'essenza originaria. 


MATRIARCATO


Ma esiste un periodo della storia in cui la dualità era unicità? 
A partire dalle ipotesi avanzate da Johann Jakob Bachofen nel suo saggio del 1861, il matriarcato fu l'organizzazione originale dell'umanità, e solo successivamente sostituita dal patriarcato. Recentemente, le scienze sociali, comparando tutte le religioni antecedenti il monoteismo, hanno sostenuto che tutte condividevano culti offerti a divinità femminili. Il culto delle Dee Madri (identificate con la terra che porta frutti), personalizzate in dee conosciute come Astarte, Tanit, Cibele, ecc., confermando l'ipotesi del matriarcato come reale forma di governo delle comunità umane primitive.

Nel matriarcato, nonostante al potere (funzione interna) ci fossero le donne, gli uomini (con funzioni esterne) non erano a loro subordinate, ma tutti e due insieme, e unite le loro funzioni, collaboravano al buon funzionamento della società. Questo era il tempo, secondo ciò che ci hanno fatto credere, del Mito, una età dell'oro in cui non esisteva dualismo e l'uomo viveva in armonia con la natura, la Dea Madre. In questo periodo, abitato da civiltà che oggi, rivalutandole, scopriamo essere più evolute, non c'era supremazia: dell'uomo sulla donna, degli adulti sui bambini, dell'uomo sulla natura. Tutti erano creature e tutti erano soggetti al medesimo destino. Il Mito era il tempo degli eroi. Ma chi erano gli eroi? E cosa rappresentano ieri come oggi?


​SIEGFRIED

Foto
Siegfried | Francesco Marilungo, 2014
Giungiamo così al nostro ultimo spettacolo e per la prima volta, in questi due percorsi, è l'artista stesso a rispondere e spiegare meglio quanto sopra. Lui è Francesco Marilungo, e con la sua seconda creazione, nel 2014, portava sulla scena il suo Siegfried. Quando a Torino, per Interplay festival, lo abbiamo intervistato e alla domanda Perché raccontare di eroi?, cosi rispondeva:
  
L'eroe costituisce una figura archetipica, una "forma a priori" dell'inconscio collettivo che possiamo ritrovare nei miti, nelle leggende, nelle fiabe, nei sogni, nelle visioni e nelle espressioni religiose e artistiche di tutti i popoli della terra. Quella dell'eroe è una figura universale che rappresenta l'uomo in quanto entità. In particolare, la figura dell'eroe è caratterizzata da una vicenda che ricorre costantemente con poche varianti: il viaggio iniziatico che porta alla conquista di uno stato superiore dell'essere. L'eroe che deve superare prove e ostacoli rappresenta la condizione umana del vivere.

Siegfried, continua Marilungo, nasce dall'analisi delle figure archetipiche presenti nel mito nordico a cui si ispira il noto balletto di Ivanov/Petipas. L'intera vicenda può essere considerata un viaggio iniziatico dell'eroe verso la perfezione, intesa come unione dei contrari, e che si esplicita in senso metaforico con lo stato originario di androginia. La performance, infatti, si presenta con un rituale costruito secondo norme codificate. Una "cerimonia religiosa" che nasce come sacrificio e che svolge una funzione catartica, così come accadeva alle origini. 
​

INCONSCIO COSCIENZA AZIONE

​Siegfried in questo viaggio si ritroverà ad agire all'interno di un campo di forze generato da tre poli: il lago, il trono e la "sposa laida". Tutto è una metafora: il lago rappresenta l'inconscio, ciò che giace sotto la coscienza; il trono raffigura il potere, il ruolo a cui l'eroe è destinato per nascita e al quale fugge; la "sposa laida" identifica la donna-cigno, quella entità che avvince l'uomo col suo fascino soprannaturale.

La discesa nel lago permetterà al principe di incontrare la sua parte complementare. Per far sì che gli opposti si incontrino il principe deve infrangere lo stagno, lo specchio – la discesa nel lago (entrare in sé stessi) elude il ristagno (caratteristica del lago e dell'essere umano). Il trono, declinazione indiretta della figura archetipica del regno, è la nostra vita, qualunque essa sia, e noi ne dobbiamo diventare re, padroni, gestori, assumendocene tutta la responsabilità. Proprio grazie alla componente insondabile, irrazionale e animale, il cavaliere assimilerà la Dama diventando un solo essere le cui parti si sono separate "all'inizio dei tempi". 

Queste due parti sono i due "Sé" che coabitano in noi: il "Sé" immortale e il "Sé" mortale, ovvero, rispettivamente, da un lato lo Spirito immanente, l'Anima Immortale, la Personalità, incarnata della Dama, e, dall'altro, l'anima individuale operante e dotata di volontà propria, l'individualità, simbolizzata dal cavaliere. L'iniziazione cavalleresca ha per fine la reintegrazione dello stato edenico primitivo, stato che si può qualificare come androgino, corrispondente alla "Unione delle due Nature": il maschile (l'Uomo), la natura celeste (o solare) e il femminile (la Donna) la natura terreste (o lunare).

Estratti da L'intervista. Il Siegfried di Francesco Marilungo, Bertuccio 2015

gb 
​



ApprofondiMENTI
QUEER E DANZA

​

QUEER E DANZA | ANNI DUEMILA | PRIMO PERCORSO
QUEER E DANZA | ANNI DUEMILA | ITALIA E TORINO
QUEER E DANZA | ANNI OTTANTA | LlOYD NEWSON
QUEER E DANZA | ANNI OTTANTA | LEA ANDERSON

QUEER E DANZA                                                      ANNI SETTANTA                                                        TROKADERO BALLET

1/3/2021

 
Foto
Trockadero Ballet | Giselle Act II


​Trockadero Gloxinia Ballet Company

​Larry Ree, Richard Goldberger e Lohr Wilso, tre membri della Ridiculous Theatrical Company di Charles Ludlam nel 1972, formano la Trockadero Gloxinia Ballet Company. Miscela psicosessuale di camp, resistenza fisica ed esagerazione, la compagnia pose le basi estetiche per esplorare il mondo della danza en travesti. Celebrando l'opera piuttosto che il minimo, valorizzando l'artificio più che la realtà e privilegiando il ridicolo rispetto al convenzionale, la Gloxinia faceva con i testi coreografici ciò che la Ridiculous faceva con i testi verbali.

Esibendosi in loft e piccoli teatri del Greenwich Village, i Gloxinia attirano un discreto pubblico che, crescendo, permise di espandere la compagnia e passare a una dozzina di ballerini. Volendo concentrarsi, però, sulla satira coreografica piuttosto che al culto della drag ballerina, quattro membri della compagnia decisero di formarne una propria nel 1974: nacque Les Ballets Trockadero de Monte Carlo.


​Les Ballets Trockadero de Monte Carlo

Con una migliore coreografia, ballerini più tecnicamente preparati e un triumvirato di direttori artistici, Peter Anastos, Natch Taylor e Anthony Bassae, la nuova compagnia era più forte sotto molti punti di vista. Mentre la compagnia di Ree ha continuato a esibirsi sporadicamente in piccoli spazi del Village fino al 1992, Les Ballets Trockadero de Monte Carlo - conosciuti come Trocks - ha attirato l'attenzione della critica esibendosi già nel 1977 a Broadway e alla televisione nazionale.

​La maggior parte del repertorio dei Trocks proviene dal canone del balletto classico: Swan Lake Act II, Giselle Act II, Les Sylphides, The Dying Swan, Pas de Quatre, Don Chisciotte, ecc.  Interpretati dai Trocks, però, i classici Martha Graham, Paul Taylor, Jerome Robbins, Pina Bausch. George Balanchine, si combinano con la  parodia e la satira, dimostrando una conoscenza approfondita della tecnica, celebrata attraverso una maliziosità dissacrante (pensiamo all'umorismo che si cela dietro la scelta dei nomi come finta-ballerina assunti dai danzatori).


​UNIRE PUBBLICO E CRITICA

Purtroppo però, mentre all'inizio degli anni Settanta il mondo queer si apriva al camp inglobando aspetti teatrali della Gloxinia e dei Trock, i critici, più che alle questioni di genere sollevate da uomini/ballerine, erano interessati alla missione coreografica, a ciò avrebbe potuto significare per il mondo della danza. Ed infatti, fin dal suo esordio, quando si è esibita sul palco improvvisato del Westside Discussion Group (omofila organizzazione di New York City), i Trocks, rassicurando il direttore generale Eugene McDougle, che temeva che il pubblico perdesse velocemente il brivido del vedere uomini in drag, offrirono una serata di danza esemplare, unita ad una spiritosa commedia fisica, unendo pubblico e critica.


FORGIARE LA PROPRIA IDENTITà

Dopo aver ricevuto una recensione favorevole sul The New Yorker, la compagnia esce dagli spazi off-off-Broadway è raggiunge un pubblico più ampio. Ad oggi i Trocks hanno girato i teatri di tutto il mondo, esibendosi perfino, nel 2008, al Royal Variety Performance di fronte al principe Carlo. Nel 2017, tanto è longeva la compagnia, sono stati omaggiati nel documentario Rebels on Pointe, in cui si descrivono la devastazione dell'AIDS e la preoccupazione di creare uno spazio in cui i ballerini potessero forgiare la propria identità.

gb 
​



ApprofondiMENTI
QUEER E DANZA


QUEER E DANZA | ANNI SETTANTA | WAAKING
QUEER E DANZA | ANNI SETTANTA | TYRONE PROCTOR
QUEER E DANZA | ANNI SESSANTA | POPESCU VS POTERE
QUEER E DANZA | ANNI SESSANTA | LIDSAY KEMP
<<Previous

    Autore

    Giovanni Bertuccio

    Archivi

    Gennaio 2022
    Gennaio 2021
    Gennaio 2020
    Settembre 2019
    Marzo 2019
    Gennaio 2019
    Ottobre 2018
    Giugno 2018
    Maggio 2018
    Aprile 2018
    Gennaio 2018
    Marzo 2017
    Dicembre 2016
    Novembre 2016
    Ottobre 2016
    Settembre 2016
    Luglio 2016
    Giugno 2016
    Maggio 2016

    Categorie

    Tutti
    Action Painting
    AIDS
    Anna Halprin
    ANNI NOVANTA
    Anni Sessanta
    Arnulf Rainer
    Art Brut
    Arte
    Arte Dei Folli
    ARTE E STRADA
    ARTE RELAZIONALE
    Azioni
    Bodyart
    CAMP
    Cibele
    CIRCO VERTIGO
    CLAUDIO ZANOTTO CONTINO
    COMPORTAMENTO
    COOPERATIVA ITALIANA ARTISTI
    Coreografi
    Corpo
    CORPO E TEATRO
    Cromosomi
    Cubo Teatro
    Danza
    DANZA CONTEMPORANEA
    Danza Di Comunità
    Danza Di Comunità
    DANZA URBANA
    DES Danza Educazione Società
    Drag
    EGRIBIANCODANZA
    FESTIVAL
    FLIC TEATRO
    Franca Zagatti
    Gender
    Genere
    Genetica
    GRAFFITISMO
    Graphic Novel
    Gunter Brus
    Hans Prinzhorn
    Hermann Nitsch
    Il Teatro Dell'altro
    Informale
    INTERPLAY FESTIVAL
    Interviste
    ITALIA
    Jean Claire
    Jean Dubuffet
    JEFF KOONS
    Judson Dance Theate
    Kunst Und Revolution
    LACAN
    La Nuova Drammaturgia Napoletana
    L'art Chez Les Fous
    Lesbismo
    Luca Silvestrini
    Malerei-Selbstbemalung-Selbstverstumme-lung
    Mario Mieli
    MICHEL FOUCAULT
    Monique Witting
    MOSTRE
    NATURA IN MOVIMENTO
    Nicola Galli
    NICOLAS BOURRIAUD
    NOVECENTO
    ORLAN
    Otto Muehl
    Otto Muhl
    Performance
    Pollock
    PROGETTO ORESTE
    Protein Dance Company
    PSICODRAMMA
    QUEER
    Queer E Arte
    Queer E Danza
    Queer E Teatro
    Registi
    Renato Barilli
    Riti Di Passaggio
    Riti Orgistici
    Rito E Danza
    RUDOLF LABAN
    SILVIA BATTAGLIO
    STRADA E ARTE
    STREET ART
    STREET DANCE
    Taurobolio
    Teatro
    TEATRO A CORTE
    Teatro Di Orge E Misteri
    TEATRO DI STRADA
    Teatro Sociale
    TECNOLOGIA
    TORINO
    TRACEY EMIN
    VUCCIRIA TEATRO
    Walter Benjamin
    Wiener Aktionisten
    Willi Ninja
    Wolfli

    Feed RSS


Foto

Art is Present 
Magazine d'Arte e Cultura
​Teatro e Danza. Queer

​
Testata giornalistica registrata al Tribunale di Torino n. 439 del 07 novembre 2016
Direttore Giovanni Bertuccio
​

email:

 info@artispresent.it

  • Home
  • Associazione
  • Perchè?
  • Hic et Nunc
    • Hofesh Shechter 21
    • Sidi Larbi Cherkaoui 99 | 19
    • #Pensierobimbo | Incanti 18
    • EgriBianco | Showcase 18
    • TST | Il Cielo su Torino 18
    • Perunteatrocontemporaneo16
  • Editoriali
    • 09 - 19 | 10 anni di?
    • Editoriale | Corpo
    • Editolriale | Relazione (?)
    • Editoriale | Strada
  • Numeri
    • V. Queer 19-22 >
      • Arte 22
      • Danza 21
      • Teatro 20
      • Teorie 19
    • IV. Tecnologia 18 >
      • Téchne e Arte
      • Téchne e Danza
      • Téchne e Teatro
    • III. Corpo 17 >
      • Corpo e Arte
      • Corpo e Danza
      • Corpo e Teatro
    • II. Relazione 16 >
      • Arte Relazionale
      • Danza di Comunità
      • Teatro Sociale
    • I. Strada 16 >
      • Street Art
      • Street Dance
      • Teatro di Strada
    • O. Start >
      • Speciale | La sottise
      • Speciale | Nicola Galli
      • Speciale | Vucciria Teatro
  • Queer
  • Contatti