![]() Disfare l’organismo non ha mai significato uccidersi, ma aprire il corpo a connessioni. Il corpo è il soggetto incarnato che si reinventa, un soggetto carico di esperienze, idee, vissuti, aspettative, contaminazioni e appartenenze. E la Body Art descrive un residuo che diviene traccia di una presenza, un morso, un taglio, una piaga. Con carne, sangue, alito, sperma, liquidi, si inventano autodistruzioni che non si confondono affatto con la pulsione di morte, la Body Art presenta un corpo che diviene una scelta, un progetto di sé, un materiale plasmabile, un corpo come volontà di esplorare le zone di coesistenza e di confronto. Un corpo che muta le proprie sembianze per meglio adattarsi al caos presente. E in questo contesto, le istanze del femminismo hanno avuto un ruolo notevole nella storia dell'arte, soprattutto fra gli anni Sessanta e Settanta ma fino ai nostri gironi, mettendo in scena il corpo in una varietà di valenze diverse: frammentato, martoriato, luogo di scontro verso barriere sociali e di costume. Equilibratore dei rapporti di potere e di classe, nonché di genere legate al sesso di cui il soggetto artista è portatore, nel tentativo di andare oltre certi comportamenti sociali legati a forme di violenza verso le donne. ![]() Gina Pane Gina Pane (Biarritz 1936 – Parigi 1990), concentrava il suo lavoro sul dolore interno, che diveniva ferita ma anche forma di elevazione spirituale, ispirandosi alla tradizione religiosa medioevale. I suoi primi lavori sul corpo risalgono al 1968, ma la prima azione in cui si ferisce è del 1971, e s’intitola Escalade in cui, con lamette, si taglia in varie parti del corpo: l’orecchio, la lingua, le mani. In altre performances si piantava spine di rose nelle braccia, un modo per esprimere l’angoscia di un doloroso rapporto d’amore, come in Azione sentimentale (1973). Chi ha assistito direttamente alla performance, racconta che Gina Pane si fletteva davanti agli spettatori, a dimostrazione della sua sottomissione e disponibilità, recando con sé delle rose gialle in segno di devozione e amicizia, mostrando tuttavia vulnerabilità, fragilità e debolezza. L'artista, per questa performance aveva ‘lavorato’ sull'aggressività dello spettatore, proponendosi come priva di difese – come si è visto ferendosi con le spine di rose – portando tale aggressività a manifestarsi, al fine di rivelarne la gratuità e l’insensatezza. In una installazione dell’anno prima, il ’72, Le Lait Chaud (Latte caldo), in occasione di una ripresa a Los Angeles, Gina Pane elaborò una installazione il cui tema era “Il bianco non esiste”. Vestita completamente di bianco, spalle al pubblico iniziò a incidersi con una lametta la schiena, lasciando che il sangue sgorgasse dalla sua camicia. Come smise di ferirsi iniziò a giocare con una palla da tennis, creando appunto un notevole contrasto con la violenza del gioco precedente. A proposito della performance, l'artista racconta: All’improvviso mi voltai verso il pubblico e avvicinai la lametta alla faccia. La tensione era palpabile ed esplose quando mi tagliai entrambe le guance. Tutti gridavano: ‘No. No, la faccia no!’ Avevo toccato un nervo scoperto: l’estetica delle persone! La faccia è tabù, è il cuore dell’estetica umana. Dopo essersi tagliata il viso la Pane puntò la telecamera sul pubblico in modo che gli spettatori vedessero le proprie reazioni e “comunicassero con se stessi”. ![]() Marina Abramovich Una artista più giovane è Marina Abramovič (Belgrado 1946) che ha iniziato a esibirsi con varie performances nel 1972. Le sue performance vertevano sul dolore e la resistenza fisica in situazioni di disagio, più o meno procurate. Del 1974 è la performance serale Rhythm 0, tenutasi presso lo Studio Morra a Napoli, che si concentrava sulla sopportazione passiva di un’aggressione, la Abramovič restò in piedi, vestita, di fianco a un tavolo colmo di oggetti d’offesa davanti agli spettatori, che sono stati invitati dalla performer a fare qualsiasi cosa del suo corpo utilizzando tali oggetti. Una scritta a parete recitava: “Sul tavolo vi sono settantadue oggetti che potete usare su di me come preferite, Io sono un oggetto”. Tra questi oggetti vi era una pistola, un proiettile, una sega, un’accetta, una forchetta, un pettine, una frusta, un rossetto, una bottiglia di profumo, della vernice, alcuni coltelli, dei fiammiferi, una piuma, una rosa, una candela, dell’acqua, delle catene, chiodi, aghi, forbici, miele, grappoli d’uva, intonaco, zolfo e olio d’oliva. Successe di tutto poiché alla fine della performance gli spettatori l’avevano spogliata completamente, tagliandole i vestiti; era stata ferita, dipinta, lavata, decorata, coronata di spine (della rosa, evidentemente) e le era stata puntata la pistola carica alla tempia. Dopo sei ore gli spettatori turbati interruppero la performance. Dal 1976 al 1988 ha collaborato con un artista tedesco Uwe Laysiepen (Solingen 1943), in arte Ulay, con indagini e situazioni imperniate sulle relazioni tra i corpi, in chiave maieutica al fine di rivelare al pubblico le proprie reazioni. Forse la prima performance in coppia è legata alla Biennale del 1976, nello spazio delle ex Officine Meccaniche della Giudecca a Venezia, che implicava uno scontro tra i due corpi ignudi della Abramovič e di Ulay, legati da un lungo elastico che in qualche modo cadenzava i movimenti di allontanamento da quelli di avvicinamento e di scontro tra i due corpi, che erano di una certa violenza, diciamo pure di un raggelato erotismo. Nel 1977 la coppia propone la performance intitolata Imponderabilia, alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, in occasione della inaugurazione di una mostra. I due performer, collocati completamente nudi e l’una di fronte all’altro, nella porta d’ingresso, in modo che gli invitati fossero costretti a passare per lo strettissimo spazio che restava in mezzo tra i due corpi. Si entrava necessariamente di fianco, quindi la scelta preliminare di ciascuno era quella di decidere su quale fianco voltarsi, verso la femmina o verso il maschio, e le proprie reazioni nei confronti delle differenze di genere, cioè della sessualità e del corpo dell’altro. ![]() Vanessa Beecroft Di ultima generazione è Vanessa Beecroft (Genova 1969). La sua scelta espressiva, che pare avesse maturato fin da giovanissima, è quella di realizzare delle performances che prendevano lo spunto dall’iconografia delle bagnanti (dal Realismo al Simbolismo e oltre) e dal tentativo – indubbiamente narcisistico – della ripetizione di sé, nella ricerca di una propria bellezza, evidentemente con l’ossessione di avere un corpo che rispondesse a dei canoni accettati, con i tipici problemi legati al cibo. Utilizzando corpi femminili di giovani donne più o meno nude, ed elaborando coreografie molto precise, Beecroft riprende l’idea dei tableau vivant settecenteschi, in maniera molto particolare, componendo appunto dei veri e propri “quadri viventi” da esporre in musei e gallerie d’arte contemporanea. Beecroft pone così, al centro delle proprie ricerche il tema dello sguardo del voyeur che, com’è ovvio, è legato al desiderio e lo connette al mondo effimero e volubile della moda. Come giustamente è stato notato, le donne nude o seminude delle performances dell’artista sono private di ogni possibilità di dialogo o di relazione, come in ogni tableau vivant che sia effettivamente tale, esse appaiono ‘congelate’ al di là di una sorta di barriera che, in questo caso, separa nettamente lo spettatore da chi sta sulla ‘scena’. Nel contempo, però, l’isolamento e il mutismo di queste figure producono il curioso effetto di far ‘rimbalzare’ lo sguardo – più o meno ‘desiderante’ – di chi guarda su di sé, creando una certa situazione di disagio. gbApprofondimenti
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AutoreGiovanni Bertuccio Archivi
Gennaio 2021
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