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Teatro Sociale | Storia

9/19/2016

 
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La tradizione teatrale si fonda su una serie di concetti chiave che hanno accompagnato l’intera storia della cultura: personaggio, parti e ruoli, maschere, attore-spettatore, tragedia-commedia, coro. Concetti questi che, ricorrendo spesso anche fuori dal contesto teatrale, possono diventare metafore utili a comprendere altri fenomeni dell’esistenza. Il Teatro e le sue metodologie, quindi, possono essere utilizzate come strumento d’analisi, per meglio comprendere le relazioni tra esseri umani e il loro rapporto con la realtà. «Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; e una stessa persona, nella sua vita, rappresenta diverse parti», scriveva Shakespeare in Come vi piace.

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Preso nel suo insieme, il teatro sociale si affianca, o talvolta sostituisce, il “teatro estetico” che include i teatri d’arte, sperimentali, accademici e commerciali.
Fino agli anni Settanta del secolo scorso, era il teatro estetico ad essere dominante. In questi teatri, venivano speso presentate e dibattute questioni di rilevanza sociale; venivano sperimentati nuove modalità di approccio a realtà sociali ed individuali; venivano proposte al pubblico nuove forme espressive. Inoltre, quel pubblico era eterogeneo, formato da persone provenienti da diverse classi sociali, con diverse religioni, usi e ideali. Persino dopo l’avvento del cinema e nei primi decenni della televisione (ma prima di internet), il teatro continuava ad essere uno dei maggiori forum del dibattito pubblico.
  

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​Tuttavia, durante gli anni Sessanta, il teatro estetico cominciò perdere il suo predominio. Questo effetto non era solo riscontrabile nel teatro commerciale, che mirava ad un pubblico ristretto, benestante e alla ricerca di intrattenimento. Ma anche l’avanguardia cominciò a perdere il suo potere attrattivo e al loro posto, varie tecniche e approcci furono elaborati, approfonditi e portati ad alti livelli di efficacia. E il fallimento della rivoluzione proposta dagli anni Sessanta fu seguita dalla comparsa delle “politiche identitarie”, una frantumazione radicale del “pubblico” come entità singola in numerosi gruppi che raccolgono individui di simile ideologia, religione, genere, orientamento sessuale, razza, nazionalità, etnia, etc. Il teatro smise, così, di esistere come singola entità e al suo posto emersero molti tipi differenti di teatro, tra cui il teatro sociale.

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​Ma non è solo prerogativa della seconda metà del Novecento lo sviluppo di azioni para teatrali potremmo dire. Infatti, a partire dagli inizi del secolo, gli scambi tra il teatro e le psicoterapie - soprattutto le terapie di gruppo - sono stati costanti e fecondi.
Fondamentale l'invenzione della psicoanalisi di Sigmund Freud - che per altro fonda  la sua teoria sul mito teatrale di Edipo - e, la contemporanea, ricerca di Stanislavskij, che puntava al «lavoro dell’attore su sé stesso». L'uomo si fa complesso, si da importanza ai “moti dell'animo” e le affinità tra il concetto psicoanalitico di «ritorno del rimosso» e quello stanislavskiano di «riviviscenza» sono evidenti. E non deve sorprendere che la psicoterapia -  in particolare la terapia di gruppo  -  si sia rapidamente appropriata di terminologie e tecniche teatrali, per poi adattarle ai propri ambiti di studio. Tanto che all’inizio degli anni Venti, Jacob Levi Moreno, fondatore a Vienna nel 1921 dello Stegreiftheater, teatro di improvvisazione, delinea la tecnica dello psicodramma, con l’obiettivo di favorire la spontaneità degli individui che partecipavano ai suoi laboratori.

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​Dopo l’esplosione del teatro politico degli anni Venti e Trenta - i cosiddetti «agit prop» - anche i movimenti di liberazione degli anni Sessanta hanno utilizzato il teatro come strumento di consapevolezza, espressione e propaganda: pensiamo alla compagnia Teatro Campesino, che ha dato voce e corpo alle rivendicazioni degli immigrati messicani in California; al Bread & Puppet, con gli spettacoli-sfilata contro la guerra del Vietnam; al Playhouse of the Ridiculous e a tutti i gruppi che hanno dato visibilità ai movimenti di liberazione sessuale, soprattutto omosessuale, degli anni Sessanta. In questo contesto, all'inizio degli anni Settanta il brasiliano Augusto Boal, rilanciando la Pedagogia degli Oppressi (1970) di Paulo Freire, ha sviluppato e teorizzato il Teatro dell’Oppresso. Un metodo che usa il teatro come linguaggio, come mezzo di conoscenza e di trasformazione della realtà interiore, relazionale e sociale, rendendo attivo il pubblico.

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​Affine a questa è l’animazione teatrale, che si sviluppa tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, in particolare nel lavoro con bambini e ragazzi, con funzione pedagogica e di socializzazione, sulla scia del Programma per un teatro proletario dei bambini scritto tra il 1924 e il 1928 da Walter Benjamin e della "scuola attiva" teorizzata da Célestin Freinet. Grazie a personalità come Remo Rostagno, Mafra Gagliardi, Franco Passatore, si passa in quel periodo da un «teatro per ragazzi» a un «teatro con i ragazzi», o meglio «dei ragazzi». Il teatro diventa strumento pedagogico, anticipando il cosiddetto edutainment, l'"educare divertendo", sviluppandosi notevolmente, soprattutto negli ultimi anni.

gb

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Direttore Giovanni Bertuccio



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