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Editoriale | RelAzione (?)

9/19/2016

 
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Le relazioni sono affare spinoso e doloroso e ci riguardano tutti da vicino. Non è un caso che dopo la strada, istintivamente, si sia pensato alla relazione come comun denominatore di questo secondo numero. Se nella strada si respira aria di libertà creativa, quest'atmosfera non può prescindere dalle relazioni che vi si intrecciano. E se la strada è il luogo di un'arte genuina, le relazioni che vi si creano non sono passate al vaglio dell'utilità, bensì dell'aggregazione spontanea, della com-prensione e dell'empatia. Ovviamente quando non ci lasciamo sopraffare da pregiudizi, diffidenza e paure, il meglio che possiamo regalare a noi stessi e agli altri è un comportamento assertivo, direbbero i sociologi. 

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​Però in tutto questo parlare, nel marasma di slogan progettuali, nell'accozzaglia di ideali che si promuovono, nelle cartine di reti che si millantano, sembra che i valori che vogliono promuoversi restino soltanto parole. Le si rendono vuote quando diventano di moda o una semplice prassi. Tutti sanno che molte programmazioni seguono e devono seguire le direttive europee, e pur di avere i finanziamenti, non sembra brutale pensarlo, i progetti si imbevono delle parole che la Comunità vuole leggere. Questo, che è un dato di fatto, non presuppone l'assimilazione dei valori propugnati. In sostanza non è una necessità istintiva quella relazionale oggi, ma piuttosto indotta. Bisogna lavorare certo, e questo porta, chi vuol vivere d'arte, di danza o di teatro, a fare dei compromessi enormi con la propria vocazione, demandandola a questa o quella voce. Tanto, e di questo la quotidianità c'è ne dà testimonianza, che si perde il valore dell'arte e si da importanza al mercato. Il fare artistico si fa prassi, come qualsiasi altra occupazione. Non ultimo gli occhi dei critici e degli studiosi, che possono ingigantire e abbellire e dotare di (più senso) alcune pratiche.

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Quindi quanto incidono gli ideali di un progetto, che è sempre un sogno negli occhi dell'artista, nelle persone coinvolte, per esempio dopo un mese? E quanti degli artisti relazionali, fra arte, danza e teatro si lasciano trasformare, veramente e in profondità, dai loro stessi ideali? Perché pensare che "ci vorrebbe la pace nel mondo" è una cosa, dirlo per lavoro, un'altra. Comprenderne il vero significato, comporterebbe una modifica nel comportamento individuale, del soggetto e del promotore. Insomma gli ideali non durano il tempo di uno spettacolo e non si esauriscono nel periodo di messa d'insieme. Infine gli artisti, gli operatori, i direttori e tutti coloro che lavorano nel mondo dell'arte e della cultura in generale, nella loro vita di tutti i giorni come tratterebbero uno sconosciuto, o meglio un membro della loro comunità, come dicono i relazionali?

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Ricordo che tanti anni fa, nell'intervistare degli artisti che operavano all'interno delle carceri milanesi, il giorno che ci siamo accordati per entrare insieme in carcere, al bar, mentre si erano chiamati in rassegna tutti i partecipanti, questi avevano dato sfogo ad un egocentrismo di gruppo, che pensai spropositato, per me che all'epoca iniziavo le prime collaborazioni. Bene, ricordo ancora adesso, quando la promotrice, sempre al bar e dopo che io assecondavo non con molta voglia i loro titoli e i loro successi - aspettando di entrare e rendermi conto sul campo del lavoro svolto con le detenute, per trarre le mie conclusioni - scuotendo la testa mi disse: "Noi entriamo, tu non entri"! Alla faccia dell'inclusione, della comprensione e dell'empatia, pensai (io avevo all'incirca 26 anni, loro superavano i 40). Questo è solo uno degli esempi che si possono fare quando abbiamo a che fare con grandi parole quali inclusione, relazione, amore per l'altro, comunità. Parole che spesso, non corrispondono ai fatti!

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Questo sproloquio, oltre ad annoiare, tradisce una consapevolezza di base, triste e dolorosissima, ovvero l'incapacità odierna di avere delle relazioni sane, non filtrate da interesse, personale o professionale. Nella perdita dell'uso del linguaggio, il vettore principale attraverso cui il soggetto esprime sé stesso, vi è la mancanza totale del saper relazionarsi. E l'arte ha sempre avuto il potere di esternare le mancanze e le perdite. E' stata sempre in grado di ridare valore all'umano, di esaltarlo. Per questo si è scelto l'arte relazionale, per poter comprendere meglio cosa, attraverso il fare artistico, manca a noi uomini d'oggi, stipati nei nostri buncker con le reti wi-fi, ingabbiati in sentimenti elettrificati, tenuti in vita da cuori freddi come schede madri. Non resta che auguraci di migliorare concedendo all'arte quel potere salvifico di cui è intrisa e che troppo spesso dimentichiamo. 

gb

    Autore

    Giovanni Bertuccio

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Magazine d'Arte e Cultura
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Testata giornalistica registrata al Tribunale di Torino n. 439 del 07 novembre 2016
Direttore Giovanni Bertuccio
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email:

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