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Tecnologia e Danza | #giochi

11/27/2017

 
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In un periodo storico caratterizzato dall’uso assiduo della tecnologia e dal moltiplicarsi di spettacoli con effetti speciali, anche la danza ha saputo trarre a proprio vantaggio le opportunità offerte dal digitale. Giochi come Dance Dance Revolution, Just Dance e Dance Central ne sono un esempio.

* Dance Dance Revolution è un videogioco musicale di genere exergaming prodotto da Konami, pubblicato come arcade e su PlayStation. Dotato di una pedana con quattro frecce (su, giù, destra e sinistra), bisogna che il giocatore segua il tempo e il ritmo della canzone scelta, premendo con i piedi i relativi pulsanti sulla pedana, seguendo i passi indicati dalle frecce.

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* Just Dance è un videogioco musicale sviluppato e pubblicato da Ubisoft per Wii. Simile al gioco Dance Dance Revolution, con i ballerini che si muovono sullo schermo, ma la modalità di gioco è molto diversa. In Just Dance i giocatori usano solo il Wii Remote e tentare di imitare tutte le mosse del ballerino che appare sullo schermo e guadagnano punti in base ai movimenti svolti e a come li si esegue. Il controller del Nintendo Wii, utilizza un approccio differente da quello tradizionale, ed è la maggiore innovazione degli ultimi venti anni nell'ambito delle console: led ad infrarossi incorporati nelle estremità del Wii Sensor Bar permettono al controller di percepire il puntamento verso lo schermo, mentre l'accelerometro integrato nello stesso controller gli permette di percepire l'inclinazione e la rotazione. La comunicazione tra controller e console Wii utilizza la tecnologia Bluetooth.

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* ​Dance Central è Il primo videogioco di danza in esclusiva su Kinect per Xbox 360®. Privo del controller, Dance Cenral è dotato di un sistema di rilevamento dei movimenti del corpo. Ogni routine offre una vera e propria coreografia sia per principianti che per esperti, oltre a una colonna sonora  con brani di artisti pop, hip-hop e R&B. Kinect utilizza un sensore di movimento in grado di rilevare i movimenti di tutto il corpo. Mentre si gioca, Kinect crea una ricostruzione digitale dello scheletro basandosi sui dati di profondità rilevati. Quindi, quando ci si spost a sinistra o a destra oppure si salta, il sensore cattura i movimenti riproducendoli nel gioco.

Insomma, non vedremo grandi performance nei nostri soggiorni, ma questi videogiochi sono un grande strumento di divulgazione dei benefici dell’attività motoria, permettendo a chiunque di godere del piacere della danza.

Siti:
--> just-dance-thegame.ubi.com
--> www.dancecentral.com

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Come nasce un coreografo? Dimostrarlo è l'obiettivo di Light Heroes, spettacolo multimediale di Raphael Bianco basato sulle dinamiche dei videogames. 

Lo spettacolo, pensato per ragazzi delle scuole elementari e medie, è un gioco coreografico, choreogame, che ha lo scopo di trovare la "luce", ovvero la vittoria, attraverso una costante interazione fra pubblico e danzatori. La performance, dal contenuto altamente formativo, si pone come obiettivo la delineazione della figura del coreografo, all'interno del processo di creazione. Insomma si sensibilizzano i giovanissimi alla coreografia e alla danza proprio attraverso l'uso saggio del gioco. 

Ironica e divertente, arrivata dallo spazio è la guida, il tutor del Choreogame. Atos, Mes e Altea - i danzatori che all'occorrenza si fanno showmen/showgirls, sottolineando come divertirsi sia un ottimo modo per imparare - sono i protagonisti con cui i ragazzi si schiereranno contro le forze del male. Tre i livelli, tre le difficoltà che condurranno uno dei tre eroi a trovare la luce, vincendo. Semplice ma non troppo, il gioco richiede memoria e astuzia e, nasconde, come dicevamo sopra, oltre l'aspetto ludico, la sensibilizzazione alla danza e al lavoro del coreografo. Capita o meno la lezione, ai ragazzi resta l'aver giocato con la danza, averla vissuta e creata.


gb


Arte e Tecnologia | '90 - '00

11/21/2017

 
Gli anni Novanta rappresentano un periodo di cambiamento radicale nel panorama produttivo audiovisivo in genere, e videoartistico in particolare. La fine della tecnologia analogica pone un problema pratico al mondo della videoarte, ovvero la conservabilità delle opere, soprattutto delle videoinstallazioni. La maggior parte dei videoartisti 
fra gli anni Sessanta e Settanta - Nam June Paik, Bill Viola, i Vasulka, Zbigniew Rybczynski, Robert Cahen, Gary Hill, per citare solo alcuni nomi storici - interrompe la produzione “su schermo singolo” a favore della videoinstallazione, ed il semplice passaggio di formato del quadro da 4:3 a 16:9 per alcuni videoartisti rappresenta uno scarto di linguaggio notevole da affrontare: per il video monocanale, bisogna ripensare la modalità di ripresa, mentre per le videoinstallazioni, riprogettare l’intero allestimento, immaginando monitor rettangolari e non più quadrati. ​Inoltre l’avvento dell’alta definizione digitale (o HD) provoca una piccola scossa in tutto il comparto audiovisivo, e determina un decisivo ritorno a un’esigenza di pulizia, netidezza e precisione dell’immagine. Una tensione a una forma visiva molto definita, simile a quella fotografica o cinematografica. La qualità dell’immagine suggerita da questo formato digitale determina uno standard estetico: il ritorno all’idea dell’immagine fotograficamente pulita, quando non addirittura patinata. Da MTV alle mostre di videoarte, la parola d’ordine sembra essere: definizione. ​
​E se è vero che nelle ultime opere monocanali di Bill Viola o di Gary Hill questa tendenza è già piuttosto netta, è altrettanto chiaro che lì, i riferimenti sono a certe forme di cinema d’avanguardia trasferiti dentro un’estetica elettronica. Proprio nel momento in cui le produzioni cinematografiche stanno 
​progressivamente abbandonando la pellicola a favore dell’HD, nel settore videomusicale e in varie esperienze videoartistiche ritorna la pellicola, oltre all’HD, come uno dei supporti possibili da usare. Insomma, nel settore dell’arte contemporanea la videoarte riparte da zero, ovvero dal cinema.
La rinnovata voglia di cinema, sdogana, inaspettatamente, anche l’animazione tradizionale a sfavore della computer grafica: un esempio fra tutti è William Kentridge, che realizza i suoi cortometraggi, in pellicola, con una tecnica ai limiti dell’archeologia dell’animazione, realizzando installazioni in cui lavora su un’estetica vintage che affonda nelle origini della storia del cinema.​ ​Ritornano il set, la troupe e anche alcuni generi trattati, dal punto di vista linguistico, in modo molto classico, come il documentario, spesso intriso di autobiografia, come per esempio nelle produzioni di Shirin Neshat, o nelle videoinstallazioni di Eija-Liisa Ahtila, veri e propri docu-fiction frazionati in vari schermi, come If 6 Was 9, del 1999, o infine in alcune produzioni di Doug Aitken, dove la rappresentazione documentaristica del paesaggio, naturale o industriale, diventa un tema ossessivo.
Il riferimento, spesso nostalgico, alla memoria del cinema e dei suoi divi diffonde una vera e propria cinefilia di ritorno, come in 24 Hours Psycho di Douglas Gordon (1993), dove il film di Alfred Hitchcock viene rallentato fino a diventare, appunto, lungo 24 ore. Mentre in Telephones (1995) e The Clock 
​(2010) di Christian Marclay si ripresenta l’estetica del found footage rimontato. Ritorna il feticismo nei confronti della pellicola come materiale, per esempio nell’opera di Tacita Dean, che lavora rigorosamente in 16mm ed espone una videoinstallazione dal titolo più che paradigmatico, Film (2011), proiettando immagini su un’enorme struttura verticale a forma, appunto, di pellicola. Oppure si recupera l’immagine della sala cinematografica in The Muriel Lake Incident (1999) di Janet Cardiff, dove l’installazione consiste nell’inserimento di un piccolo modello di cinematografo dentro una struttura di legno con un’apertura che l’osservatore può usare per guardare all’interno.
* Per alcuni la formula monocanale può coincidere con la produzione di un vero e proprio film. Pensiamo a Pipilotti Rist con Pepperminta (2009), Shirin Neshat con Women Without Men (2009), ma forse la parabola più significativa è quella di Steve McQueen, videoartista e regista cinematografico che vince l’Oscar con un film narrativo tradizionale, 12 Years a Slave (12 anni schiavo) del 2013. Al contrario, altri artisti creano un’estetica che manda in corto circuito la formula video monocanale con quella più tradizionalmente cinematografica. È il caso di Matthew Barney che fra il 1999 e il 2002 realizza un mastodontico progetto The Cremaster Cycle, formato da cinque episodi. Il modello linguistico sul quale Barney lavora è una sorta di cinema liquido, ipnotico, dove tutto accade lentamente senza che vengano applicati effetti di rallentamento. Le riprese, girate con una cura maniacale della fotografia fino a risultare patinate, non subiscono nessun tipo di trattamento se non di correzione del colore. I video di Barney sono la rappresentazione quasi estatica di alcune situazioni visive che lavorano sulla ricchezza di elementi delle scenografie, sulle azioni dei performer, sulle loro mutazioni e sui loro costumi. Con lo stesso approccio è realizzato uno degli ultimi video, Drawing Restraints 9 (2005), ritratto rituale dell’incontro con la musicista islandese Björk. ​
L’operazione che forse più di tutte sintetizza questa tendenza espositiva con il desiderio di assimilare sempre di più il mondo del cinema, o più in generale dello spettacolo (e dei suoi divi) sono i Vroom Portraits (2012) di Robert Wilson. Il video monocanale diventa così una videoinstallazione a schermo singolo, che entra nelle case
​di chi la acquista come un flusso ​audiovisivo su un monitor piatto, che può essere usato come un quadro. Che poi il formato finale sia ovviamente digitale, non importa, perché viene percepito e definito anche dagli addetti ai lavori come un “film”, o una foto in movimento. Nasce un genere che potremmo chiamare film da camera, piuttosto lontano dalle istanze linguisticamente rivoluzionarie e sperimentali della videoarte.

gb


Tecnologia e Arte | Walter Benjiamin

11/14/2017

 
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​Benjamin, nel suo saggio L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica del 1936 afferma: “ciò che sfiorisce nell’era della riproduzione tecnica è l’aura che circonda l’opera d’arte”. Come per Baudelaire, anche per il sociologo viene a mancare “l’hic et nunc dell’opera, la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova”. In questo modo, l’arte, perdendo la sua aurea perde anche il fascino legato alla sua presenza misteriosa e lontana, per diventare alla portata di tutti. La decadenza dell’aurea si fonda su due elementi: rendere le cose spazialmente e umanamente più vicine e superare l’unicità di qualsiasi dato mediante la ricezione della sua riproduzione. Venendo meno l’autenticità dell’opera cambia la funzione dell’arte stessa passando da quella rituale a una funzione politica di dissacrazione, di denuncia e di comunicazione sociale. In questa tendenza si collocano movimenti come quello dadaista, in cui per la prima volta l’opera d’arte è rappresentata da un concetto, da una forma mentale e non da un’immagine. I dadaisti attraverso uno spietato annientamento dell’aurea dei loro prodotti, ai quali, coi mezzi della produzione imponevano il marchio della riproduzione, volevano suscitare la pubblica indignazione. Di fronte a un’opera dada non si viene rapiti, non ci si ferma in contemplazione ma si rimane violentemente scandalizzati. Con Duchamp un orinatoio diventa una Fontana e assume l’appellativo di opera d’arte. O con la Pop Art e Manzoni sono considerati arte 90 barattoli di conserva, prodotti in serie, con un’etichetta riportante la dicitura: Merda d’Artista. La materia è opera d’arte.

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Il concetto di opera d’arte si è ulteriormente desacralizzato, rendendo sempre più labili i confini tra arte colta e cultura della comunicazione di massa.  Tale processo vede il susseguirsi di innovazioni tecnoscientifiche i cui aspetti etici diventano sempre più l’oggetto dell’attenzione dell’artista. In un complesso panorama multidisciplinare in cui, come nel Rinascimento, gli artisti tendono a con-fondersi con gli scienziati, l’arte contemporanea si pone come un tramite tra l’apparato della ricerca tecnoscientifica e la società. Nascono forme come la Posthuman art, che si basa sull’idea che il corpo biologico è obsoleto dal momento che esiste la possibilità di ibridizzarlo con la meccanica o l’elettronica: la protesi non è la manifestazione di una mancanza, ma diventa un eccesso in grado di simboleggiare il superamento dei limiti della natura. Un altro esempio è la Transgenic art del brasiliano-americano Kac (www.ekac.org), la cui opera principale è la creazione di Alba, un coniglio transgenico che diventa luminescente se illuminato con una particolare frequenza elettromagnetica e che vive, perfettamente integrato, nella famiglia dell’artista. Lo scopo di questo tipo di sperimentazioni, a metà strada tra un esperimento scientifico vero e proprio e la creazione di un’opera d’arte, è quello di spingere i pubblici al dibattito attraverso una simulazione estremizzata delle ricadute della tecnoscienza sulla società.
Come i moderni divulgatori scientifici, gli artisti contemporanei con le loro creazioni auspicano una partecipazione allargata al processo tecnoscientifico, passando dalla democratizzazione dell’arte a partire dalla sua riproducibilità tecnica alla democratizzazione delle conquiste tecnologiche grazie alla diffusione e alla co-costruzione della conoscenza.


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